Che cosa ha messo in grado una monaca analfabeta del Medioevo di dettare quanto nove secoli dopo è stato dichiarato opera di un dottore della Chiesa? La sua lezione ci insegna che il cielo non si può raggiungere attraverso uno sforzo troppo umano (di Marco Rainini)
Pubblichiamo un articolo dedicato a Ildegarda di Bingen, tratto dall’ultimo numero della rivista dell’Università Cattolica “Vita e pensiero” di Marco Rainini, domenicano, ricercatore in Storia del Cristianesimo presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Il testo riprende, in traduzione italiana, il discorso di Rainini tenuto presso l’abbazia di St. Hildegard-Eibingen, il 5 maggio 2022, per la celebrazione del decimo anniversario della canonizzazione uffi ciale della monaca tedesca – proclamata nell’ottobre 2012 Dottore della Chiesa da Benedetto XVI.
di Marco Rainini
Chi conosce meno Ildegarda di Bingen potrebbe chiedersi che senso possa avere proporre oggi, come modello alla Chiesa, una monaca vissuta nove secoli or sono. Per giunta, pochi mesi dopo la canonizzazione (10 maggio 2012), Benedetto XVI ha dichiarato Ildegarda Dottore della Chiesa (7 ottobre 2012). Che cosa può dire oggi alla Chiesa la prophetissa che ammoniva il Barbarossa, colei che pretendeva di parlare di ciò che apprendeva nelle sue visioni, in cui vedeva cose complicate, lontane dal linguaggio non solo del nostro tempo, ma in buona parte anche del suo? La teologia di Ildegarda è difficile e sembra tanto lontana; ma vorrei qui mostrare che, a chi vi si inoltri con umiltà e con amore, la sua oscurità appare davvero come ombra della luce vivente, che rivela ricchezze inattese.
La magistra di Rupertsberg porta messaggi che gli uomini di questo tempo possono comprendere anche meglio di quelli del suo. Vorrei partire da un passaggio che si trova in una lettera di Ildegarda a Guiberto di Gembloux, datata al 1175 – quattro anni prima della morte: «Io, sempre tremante, ho paura, poiché in me non trovo alcuna sicurezza. Ma tendo le mie mani a Dio, affinché come una piuma, che non avendo alcun peso né forza vola per il vento, da lui venga sostenuta». La delicatezza di questa immagine, divenuta celebre, rischia di far perdere di vista la sua forza teologica. Ildegarda guarda alla propria salute, e ancora prima alla sua condizione di donna, con gli occhi del suo secolo, e vede la debolezza che tutto ciò comporta. È proprio questa debolezza, tuttavia, che diviene la sua forza: se il suo peso fosse maggiore, non potrebbe essere portata dal vento; grazie alla sua quasi inconsistenza riesce invece a volare in alto, sostenuta dal soffio divino. Queste parole non sono solo un’applicazione dell’affermazione dell’Apostolo in 2Cor 12,10 («Quando sono debole, è allora che sono forte»). Mi sembra piuttosto che qui la magistra proponga con un’immagine di grande efficacia il principio della vita nella fede – la grazia.
Fra le azioni e reazioni che la storia della Chiesa ha conosciuto, soprattutto nei secoli dell’età moderna e contemporanea, forse non è più così chiaro che il cielo non si può raggiungere attraverso uno sforzo troppo umano; che la vita cristiana non sia un problema di prestazione morale. Il rischio di ridurre il Vangelo a un’etica – un’etica sociale, di tolleranza e solidarietà; piuttosto che un’etica di “principi non negoziabili” – sembra oggi molto alto. Che tutto ciò sia importante, non è necessario sottolinearlo oltre. Ci si potrebbe chiedere però se l’accento grave posto sui temi etici non corra il rischio di renderci dei presentabili, educati pelagiani. Solo il soffio divino può innalzare verso il cielo, e solo a patto che la nostra leggerezza lo permetta, che riconosciamo la nostra inconsistenza – questo mi sembra dire Ildegarda, con questa immagine così suggestiva. Proprio la reiterata affermazione della propria debolezza, legata alla condizione di donna, così come il suo secolo gliela insegnava, ci permette di riflettere su un altro elemento di ricchezza e di attualità del pensiero di Ildegarda.
È ben nota la frequenza con cui la magistra richiama il concetto di “viriditas”. A una ricerca sulle basi di dati elettroniche, il termine ricorre nelle sue opere 263 volte – nell’intera base di dati della Library of Latin Texts il termine comprare 1135 volte: quasi un quarto delle ricorrenze si trova quindi negli scritti della monaca di Rupertsberg. Si tratta di una parola con cui Ildegarda indica la forza che Dio infonde nel dare vita alla sua creatura, all’intero cosmo. Questo aspetto dell’agire divino sul mondo viene continuamente sottolineato: Dio è colui che dà la vita, che mantiene in vita, che si prende cura della vita data. Si tratta della visione, del punto di vista, proprio di una donna, e che solo una donna può sottolineare con questa profondità e con questa forza. In questo senso, è un punto di vista particolare ma essenziale: in di grado comunicare cioè quanto altri occhi, diversamente determinati, non sono in grado di vedere. La teologia di Ildegarda è la teologia di una donna: che guarda alla rivelazione con uno sguardo particolare, e che trae conclusioni, e pone accenti, che la sua situazione le suggerisce. Non era molto frequente, nel XII secolo come in genere nel Medioevo centrale, potersi accostare al punto di vista di una donna. Ci si potrebbe chiedere se non valga anche qui l’ipotesi che Robert Lerner ha avanzato per altri autori: essi avrebbero rivestito con le vesti della visione le loro intuizioni innovative e critiche per giustificarle e dare loro forza. Vale anche per Ildegarda?
Non credo che tale ipotesi possa essere sottoscritta: il tema della visione è troppo centrale per la magistra di Rupertsberg – non è possibile proporre una sua teologia che prescinda da quella che ella continuamente afferma esserne la fonte. L’appoggio avuto da Bernardo di Clairvaux e dallo stesso Eugenio III non deve però trarre in inganno: Ildegarda fu avversata e la sua condizione femminile era un bersaglio troppo favorevole per non esserle rinfacciata. Basterà qui ricordare le parole velenose che le rivolse Arnoldo, arcivescovo di Mainz, dopo che il papa le aveva ordinato di scrivere: «Sappiamo che lo Spirito soffi a dove vuole, distribuendo a ciascuno i suoi doni come vuole. Diciamo questa cosa, senza dubitare di te. Infatti, che c’è da meravigliarsi, se Egli ti istruisce con la sua ispirazione; Egli che un tempo costituì profeti dei contadini e dei raccoglitori di sicomori, e che fece proferire parole umane a un’asina». Il tempo che viviamo ascolta più volentieri dalla voce di una donna ciò che gli occhi di una donna hanno visto – molta strada è stata fatta, sebbene altra ne resti da fare. Ildegarda è in questo senso una testimone preziosa: per ciò che è stata, oltre che per ciò che dice. Una donna può vedere e dire cose che gli uomini non hanno visto né detto. Il suo caso ci suggerisce di non piegarci allo spirito dei tempi, che vorrebbe costringere a un’omologazione delle voci e dei ruoli; che riduce tutto all’indifferenziato, all’individuo isolato, senza volto e senza identità, vittima facile dei predatori del mercato. Il concetto di “viriditas” rimanda a un altro elemento sempre attivo nelle visioni e nel linguaggio stesso di Ildegarda, e cioè il mondo della natura, delle pietre, delle erbe e degli animali.
La magistra, anche quando parla di politica ecclesiastica e di teologia, lo fa con le immagini del mondo verde che la circonda, nei suoi monasteri delle terre del Reno: gli uomini insipienti che minano la pace della Chiesa sono «come la gallina che quando strilla di notte si fa paura da sola»; i dualisti che rifiutano la propria natura carnale sono simili a quei «grandi uccelli che disperdono le proprie uova, gettandole via, e dicono: “Gettiamolo via lontano da noi, perché è velenoso”». Ildegarda non solo considera il mondo, e in particolare gli esseri viventi, come una risorsa data; ne sottolinea anche la radice nascosta. Proprio le notizie che le trasmettono altri personaggi attivi nelle medesime terre – innanzitutto Eckberto di Schönau e sua sorella Elisabetta, che condivide con Ildegarda il richiamo all’esperienza visionaria –, relative alle dottrine dei dualisti (i “catari”) e al loro rifiuto della creazione materiale, portano Ildegarda a una svolta, che si compie con l’esperienza visionaria in forza della quale comincia a scrivere il Liber divinorum operum. Il Cristo di quest’opera non è più tanto il Salvatore crocifi sso – come era invece nel precedente Scivias. Qui egli diviene il principio e il fine stesso di tutta la creazione: tutto è stato fatto per mezzo di lui e in vista di lui. E qui, si badi, l’accento è posto sul Verbo incarnato, che nel piano originario doveva farsi uomo comunque, anche – potremmo dire – se Adamo non avesse peccato. Poiché – questo afferma Ildegarda contro le dottrine attribuite ai “catari” – la materia, la carne, è cosa buona, voluta da Dio: il suo stesso Figlio doveva incarnarsi per compiere l’opera della creazione e riportare tutto a Dio.
Qui, per altro, Ildegarda si trova allineata alla speculazione di altri autori a cui è stata spesso avvicinata, della medesima area culturale e con tendenze teologiche comuni – Ruperto di Deutz, Onorio Augustodunense, Corrado di Hirsau. La magistra è quindi buona testimone di una corrente teologica per troppo tempo sottovalutata, e per molti versi non meno interessante degli sviluppi contemporanei presso le scuole di Parigi. Si tratta di una corrente da cui mi sembra si possa recuperare la centralità sempre di nuovo riaffermata di Gesù Cristo nelle diverse espressioni della fede della Chiesa e della sua vita: a partire dall’esegesi delle Sacre Scritture, poi nella liturgia – che per questi autori, e Ildegarda è fra essi, è un locus theologicus di principale importanza –, e nella stessa considerazione teologica del cosmo e della storia. «Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui, e senza di lui non è stato fatto niente. Ciò che è stato fatto, in lui era la vita»: è il prologo di Giovanni a dare il programma alla teologia del Liber divinorum operum.
Tutto è da Cristo, tutto è per Cristo, tutto va verso Cristo. Per questi autori Cristo non è mai la scusa per parlare d’altro. Seguendo una tradizione neoplatonica che ha un suo punto significativo in Giovanni Scoto Eriugena – autore carolingio, di cui sentiamo l’eco negli stessi autori tedeschi di questi anni elencati in precedenza –, per Ildegarda il cosmo e la natura sono l’espressione, per così dire, della rifrazione della luce semplicissima del Verbo nel prisma dell’atto creatore. In essa Egli mostra lo spettro delle sue perfezioni. Di queste perfezioni l’uomo è il vertice: riprendendo qui la tradizione dell’Eriugena in modo piuttosto netto, forse attraverso la mediazione dei monaci predicatori della riforma di Hirsau, Ildegarda afferma con forza questa convinzione: Dio ha posto nell’uomo il segno di ogni creatura, è egli stesso in qualche modo tutte le creature: posto in medio, ricapitola tutta la creazione. Se tutto è stato fatto per l’uomo-Dio Gesù Cristo, tutto è dunque per la creatura umana, a cui il Cosmo è stato affidato. Proprio all’uomo dunque, nella scia del suo capo nella Chiesa, l’uomo Gesù Cristo, è dato di riportare il cosmo a Dio: tutta la creazione viene da Dio, e ha il suo vertice nell’uomo, e tutta la creazione ritorna a Dio, attraverso Cristo, e coloro che gli si associano.
In tutto ciò la creazione rivela il suo destino e la sua vocazione più alta: attraverso le sue perfezioni visibili, secondo il detto paolino, è possibile scorgere le perfezioni invisibili del Creatore. È in questo modo che la creatura umana, dotata della rationalitas – un altro termine caro alla magistra –, riporta tutto a Dio: conoscendolo attraverso le perfezioni visibili del cosmo. Su questo sfondo, di sapore ancora una volta eriugeniano e in qualche modo sotteso a molti autori contemporanei, Ildegarda innesta la potenza dei suoi simboli. Nelle visioni si trovano cose che richiamano la definizione di simbolo del suo contemporaneo Ugo di San Vittore («paragone [collatio], e cioè adattamento [coaptatio] di forme visibili proposte per mostrare una cosa invisibile»). Ciò su cui però le complesse descrizioni si fondano sono simboli più elementari, che tuttavia garantiscono alle immagini più composite la potenza che le caratterizza: il monte, le stelle, il fuoco, l’oscurità… Tutto ciò crea dei quadri piuttosto ardui per il lettore contemporaneo, che tuttavia non può fare a meno di rimanere colpito dalle immagini – e dalle stesse miniature, forse almeno in parte realizzate sotto la sorveglianza della magistra. Questa riproposizione geniale del simbolo non è la lezione meno importante che questo Dottore può offrire alla Chiesa del XXI secolo. La nostra scrittura teologica, figlia di altri esiti del medesimo XII secolo, satura di concetti, rischia di comunicare sempre meno a un mondo che invece, proprio come quello in cui viveva Ildegarda, è molto sensibile alle immagini e ai simboli; forse perché in fondo l’uomo, soprattutto quando parla di ciò che non si può – o si può solo difficilmente – esprimere, preferisce cominciare attraverso i simboli. Il linguaggio della teologia di Ildegarda è quello della visione: la magistra innanzitutto vede, e solo successivamente cerca di spiegare, di dare ragione, di ciò che ha visto – il che, a ben vedere, appare a volte tutto sommato inadeguato, rispetto alla potenza dell’immagine proposta. Il tema della visione, appunto, non si lascia circoscrivere nei termini di un puro rivestimento di quanto l’autore vorrebbe esprimere per concetti.
Che cosa fosse ciò che Ildegarda vedeva è, per lo storico, arduo stabilirlo; che però qualcosa vedesse è difficile negarlo. Proprio qui giungiamo infine al cuore dell’enigma di questa monaca, vissuta nove secoli fa, e che continua a interrogare gli storici e i teologi con la sua singolare vicenda. Resta il mistero di una donna che non ha mai nascosto – anzi, ha sempre rivendicato – il fatto di non avere ricevuto un’istruzione adeguata a quanto cercava di comunicare. Per usare le parole di Peter Dronke, «la sua padronanza del latino rimase sempre un po’ inadeguata, era più capace di leggere che di scrivere. Poteva aver timore – e in modo giustificato – di fare errori marchiani, mentre cercava di scrivere delle sue visioni». Il compito di limare i suoi scritti sarà affidato al suo “gruppo di lavoro”, e innanzitutto al monaco Volmar, che l’accompagnerà nell’impresa per molti anni. Ma che cosa ha messo in grado Ildegarda di dettare quanto ancora secoli dopo è stato dichiarato opera di un Dottore della Chiesa? La magistra di Rupertsberg non ha esitazioni a riguardo: nelle sue opere continua a ripetere che ciò che ha imparato, l’ha imparato dalla visione: «Io, poveretta e non istruita, di forma femminile, non posso sapere altro che quelle cose che mi sono insegnate nella vera visione».
Ancora una volta, gli strumenti dello storico possono limitarsi a registrare questa pretesa – è tutto ciò che la sua prospettiva gli consente. Ciò che però perfino lo storico, nei limiti della sua ragione, non può ignorare – senza potervi dare risposta, certo – è il mistero che i singo lari documenti e l’esistenza stessa di questa monaca vissuta in riva al Reno gli pongono innanzi. Lo stesso mistero che, d’altro canto, si presenta al teologo, e che sembra andare ben oltre le confortevoli categorie della dogmatica di scuola e dell’etica che abbiamo ereditato dagli ultimi secoli e – seppure in forme diverse – sviluppato in modo magari un po’ (ma neanche troppo) diverso negli ultimi decenni. Questa non è la lezione meno importante che Ildegarda, Dottore della Chiesa, consegna al nostro tempo. Dio e il suo agire nei confronti degli uomini si possono comprendere solo lasciando permanere al centro del quadro l’oscurità del mistero. Il mistero appare così come un’oscura fonte, da cui viene però una luce che illumina tutto il quadro – se la si elimina, è il quadro stesso che diviene oscuro. Guardare in essa, però, resta impossibile: è tanto insostenibilmente luminosa, che per i nostri occhi è notte. Ben lo sapeva Ildegarda, a cui fu dato di vedere «in umbra viventis luminis», nell’ombra della luce vivente.