Che ne è stato di Paolo dopo la prima prigionia romana (cf At 28,30-31)? Giuristi e storici pensano che il primo verdetto, dopo due anni di prigione, possa essere stato l’esilio. Paolo avrebbe dovuto lasciare l’Italia senza poterci più tornare. Probabilmente l’esilio comprendeva anche Gerusalemme e la Giudea. Sarebbe ripartito, dunque, e avrebbe rivisitato le comunità di Creta, dell’Asia, della Macedonia, dell’Acaia e della Dalmazia. Rientrato a Roma a motivo delle terribili notizie sulla persecuzione neroniana, sarebbe stato arrestato in seguito alla denuncia fatta da qualche cristiano che non condivideva la sua visione delle cose, forse «Alessandro, il fabbro» (2Tm 4,14-15). Del resto, non rispettare l’esilio significava subire la pena di morte. La Prima lettera di Clemente ai Corinzi (redatta verso il 95) ne parla con un certo imbarazzo, che mal nasconde la vergogna di questa esecuzione dovuta verosimilmente al tradimento compiuto da un cristiano («per gelosia e discordia»).
La Seconda lettera a Timòteo contiene il testamento dell’apostolo, redatto nel momento in cui Paolo sente ormai vicina l’esecuzione. Gli studiosi contemporanei, rispetto al passato, sono più prudenti nell’includere questo scritto tra le lettere deutero-paoline, sia per la sua grande differenza rispetto alle altre lettere “pastorali” (1Tm e Tt) sia per le notizie che fanno riferimento alla situazione di Paolo e che difficilmente sono dettagli di seconda mano. Ciò che colpisce nei saluti di questa lettera è la triplice richiesta che Paolo rivolge a Timòteo, nel momento stesso in cui, per ben due volte, gli raccomanda di «venire presto» (4,9) e di affrettarsi «a venire prima dell’inverno» (4,21).
La prima: «Prendi con te Marco e portalo» (4,11). Timòteo non farà il viaggio da solo: lo condividerà con Marco. La storia di questo collaboratore di Paolo, autore del secondo Vangelo, non è del tutto lineare: i contrasti con Paolo erano emersi fin dal primo viaggio missionario e sembrano essere stati motivo di tensioni non indifferenti, sia con Bàrnaba, sia con la comunità madre di Gerusalemme da cui Marco proveniva. Poi, però, l’azione dello Spirito, il tempo e l’esperienza avevano guarito le ferite: Marco, da tempo, si era pienamente riconciliato con l’apostolo (cf Col 4,10; Fm 24), e ora, proprio in virtù delle sue “fatiche”, potrà essere un collaboratore prezioso per Timòteo, aiutandolo a vincere esitazioni e dubbi. L’apostolato dell’annuncio non può essere portato avanti “in solitudine”. Solo la comunione e la condivisione fanno dell’annuncio un servizio abitato dallo Spirito.
La seconda: «Venendo, portami il mantello, che ho lasciato a Tròade, in casa di Carpo» (4,13). Come Eliseo riceve in eredità il mantello di Elia (cf 2Re 2,13-14), così Timòteo è l’erede del mantello di Paolo. La richiesta non è legata solo all’inverno ormai prossimo, ma sembra avere una portata simbolica: nella tradizione biblica questo capo di vestiario evoca sia l’abito dei poveri (cf Es 22,25-26), sia l’identità della persona e il ministero ricevuto da Dio (cf Rut 3,15; 1Re 11,30; Esd 9,3; Is 3,6). Non si costruisce il domani senza poggiarsi sulla sana tradizione ricevuta (e così tanto raccomandata in questa lettera; cf 2Tm 1,5-6; 3,10-12.14-15).
La terza: «Portami i libri, soprattutto le pergamene» (4,13). Libri e pergamene richiamano le Sacre Scritture. Fin dall’inizio del suo ministero in Cristo, Paolo ha presentato il cuore del Vangelo alla luce della Scrittura: l’esperienza dei patriarchi, soprattutto di Abramo; quella dei profeti, soprattutto di Isaia, Geremia ed Abacuc; quella illustrata dagli scritti sapienziali, soprattutto dai salmi… sono state le basi per mostrare la continuità e la novità tra la storia d’Israele e la vita nuova in Cristo. Senza i libri e le pergamene, il mistero di Cristo rischia di rimanere esposto alle false dottrine e alle prospettive soggettive di quanti tendono ad annacquare l’esperienza del Vangelo a proprio uso e consumo.
Marco, il mantello e le pergamene. Avrà fatto in tempo Timòteo a portare tutto questo all’apostolo prima dell’esecuzione? Secondo alcuni, quando Timòteo giunge a Roma, Paolo è già stato condotto al martirio. Il discepolo, disorientato, rimane con questa triplice eredità tra le mani e nel cuore: Marco, che richiama la comunione con gli altri discepoli; il mantello, che evoca il ministero di annuncio del Vangelo; le pergamene, che custodiscono le Scritture. Paolo non c’è più ma nelle mani di Timòteo e di tutti noi ha lasciato le fondamenta su cui costruire il domani delle comunità che, come tante piccole tessere, compongono il mosaico della Chiesa.
* Giacomo Perego, sacerdote paolino italiano, è il Coordinatore internazionale del Centro Biblico San Paolo