«Le tre radici del disinteresse verso il cristianesimo» (Luigino Bruni)

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Per una riflessione critica sul presente occorre riscoprire la comunità e trovare nuovi codici narrativi. E rileggere meccanismi e dinamiche del passato della Chiesa sconfessate dalla storia

Prosegue il dibattito su cattolicesimo e cultura, avviato da PierAngelo Sequeri e Roberto Righetto. Sono intervenuti nelle settimane scorse Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini, Cosentino, Zanchi, Possenti, Alici, Ornaghi, Rondoni, Esposito, Sabatini, Cacciari, Nembrini, Gabellini, Vigini, Timossi, Colombo, De Simone e Arnone.

Questa mancanza di passione e di interesse per il cristianesimo, parallela ad una vaga e confusa domanda di spiritualità, ha chiaramente radici antiche e profonde. Qui ne voglio discutere tre. La prima riguarda direttamente la lunghissima stagione della cultura della Controriforma e la sua complicata e non riuscita relazione con la Modernità, una cultura e mentalità che sono durate, di fatto, circa quattro secoli. Lo shock della Riforma di Lutero rappresentò un vero trauma per la chiesa romana. La paura per la discesa sotto le Alpi dei venti scismatici e eretici del Nord si intrecciò profondamente con la paura dell’Umanesimo e quindi della Modernità, come rivela anche l’incomprensione e il rifiuto di Erasmo da Rotterdam e del suo movimento. La Controriforma ha generato anche alcuni luci (dalle opere sociali dei carismi ad una certa pietà popolare), ma sue le ombre culturali sono state molte e vaste. La chiusura, ad esempio, verso l’esercizio della libertà di coscienza – «La libertà di coscienza predicata dagli eretici era una libertà degna dei figli del diavolo, peggiore di ogni schiavitù» (Bellarmino, 1587) -, o quella nei confronti della conoscenza popolare delle Scrittura, il non ascolto delle domande di uguaglianza e delle critiche alla gerarchia sacrale, divennero immediatamente chiusura nei confronti dello spirito moderno. Come importante effetto collaterale, i migliori pensatori cattolici iniziarono progressivamente a spostarsi dalla teologia (e filosofia) verso altri ambiti del sapere che scottavano e “bruciavano” di meno. Dopo il Concilio di Trento, infatti, occuparsi con libertà di coscienza di questioni teologiche poteva facilmente condurre alla scomunica o al rogo, e la soluzione fu l’exit (la fuga). I migliori talenti italiani e latini si dedicarono ad altro (musica, arte, letteratura, scienza, teatro, economia), e la teologia e la filosofia moderna divennero faccende prevalentemente protestanti e nordiche. Così la Modernità e la Chiesa cattolica seguirono strade divergenti, e nell’età e nei paesi della Controriforma i teologi-filosofi significativi, se ce ne sono, si contano sulle dita di una mano. Questo allontanamento progressivo tra la Chiesa cattolica e il pensiero moderno, oltre a generare una carestia di vocazioni nelle discipline teologiche, non poteva non generare una naturale e crescente distanza tra i temi della teologia e quelli al centro della Modernità.

Il Concilio Vaticano II e il movimento che lo preparò prese coscienza di questa distanza, ma erano passati secoli di mancato dialogo e reciproca diffidenza dagli effetti molto vasti e profondi. Ancora nel 1950, Pio XII scriveva: «Chiunque osservi il mondo odierno, che è fuori dell’ovile di Cristo, facilmente potrà vedere le principali vie per le quali i dotti si sono incamminati. Alcuni, senza prudenza né discernimento, ammettono e fanno valere per origine di tutte le cose il sistema evoluzionistico, pur non essendo esso indiscutibilmente provato nel campo stesso delle scienze naturali, e con temerarietà sostengono l’ipotesi monistica e panteistica dell’universo soggetto a continua evoluzione. Di quest’ipotesi volentieri si servono i fautori del comunismo per farsi difensori e propagandisti del loro materialismo dialettico e togliere dalle menti ogni nozione di Dio» (Humani Generis, Introduzione).

Tra questi effetti c’è la tristissima stagione della repressione del movimento modernista cattolico, l’ultima grande ondata della cultura della Controriforma. Centinaia di teologi, biblisti e storici cattolici furono emarginati, perseguitati, non di rado scomunicati “vitando”, spretati e sospesi dall’insegnamento. Intellettuali italiani come Genocchi, Buonaiuti, Fracassini, furono la punta di un iceberg fatto di repressione di un tardivo e più che necessario dialogo teologico con le scienze esegetiche e storiche, un dialogo che aveva luci ed ombre, più luci che ombre. Abbiamo così perso ancora quasi un secolo di cultura biblica, di dialogo con il metodo storico-critico, di sguardo adulto sulla fede. Molte vite umane distrutte, talenti dispersi. Sarebbe quindi molto urgente e importante che il prossimo Giubileo diventi l’occasione per la Chiesa cattolica di chiedere perdono a tutti quei sacerdoti e cattolici perseguitati dopo la Pascendi di Pio X per tesi che in questo secolo sono state accolte nella loro quasi totalità dalla Chiesa cattolica, e chiedere la loro riabilitazione.

La seconda ragione, profondamente legata alla prima, ha a che fare con i codici narrativi della fede cristiana cattolica (e del cristianesimo). Il lungo e assente dialogo tra la chiesa cattolica e la Modernità, ha generato una crescente difficoltà narrativa dell’evento cristiano, che nel XXI secolo è esplosa in quasi incomunicabilità. I codici narrativi cattolici sono rimasti sostanzialmente pre-moderni, mescolati con elementi mitici, senza una vera inculturazione nel mondo moderno (per non parlare del post-moderno). La narrazione della fede e dei suoi fondamenti biblici è ancora troppo simile a quella dei nostri bisnonni. Mentre la Chiesa, nelle missioni, ha tentato e in molti casi con successo l’inculturazione della fede nelle culture non-occidentali, non ha tentato con sufficiente impegno l’inculturazione con la Modernità che essa stessa aveva in buona parte generato; e così, continuiamo a dire parole d’amore in una lingua diventata lingua morta. Non è morto l’evento, non sono morti Dio, Gesù, il Vangelo, l’eskaton: sono morti i loro codici narrativi; ed è bene che siano morti, perché la maggior parte era più eredità del mondo greco-romano che del Vangelo. Il pensiero cattolico è poco rilevante anche perché è diventato incomprensibile il suo linguaggio, fuori della Chiesa e nel popolo credente. Ed essendo la fede una faccenda di logos e quindi di dialogos, i codici narrativi non sono faccende per specialisti (i comunicatori), ma riguardano il cuore dell’esperienza cristiana. I nuovi codici narrativi non nasceranno dalle facoltà teologiche né dai convegni accademici: si trovano già “lungo la via”, nei luoghi meticci e promiscui, soprattutto tra i giovani e tra i poveri. La nuova narrazione nascerà tornando mendicanti e mettendosi in ascolto delle domande di vita della gente, dentro e soprattutto fuori le chiese.