L’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, Ivan Maffeis, con i giovani dell’arcidiocesi – Foto della Chiesa di Perugia-Città della Pieve
«Chiesa chiusa per mancanza di prete». E anche della comunità. Nessuno vorrebbe che questo ipotetico cartello compaia davanti alle piccole parrocchie. Quelle in cui non c’è più il parroco residente e dove magari si assottiglia anche il computo degli abitanti. Comunità esigue, ma non minori. Il loro futuro non può essere semplicemente di «venire accorpate a quelle più grandi», avverte l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, Ivan Maffeis, ben consapevole che anche la sua diocesi fa i conti con un «cambiamento culturale» che non può essere sinonimo di «disfattismo». Serve una particolare «attenzione a far sì che anche nelle realtà meno numerose non venga meno una presenza significativa dell’esperienza ecclesiale», sottolinea il presule. Come? La proposta è quella di «costituire sul territorio delle équipe di persone, sapientemente formate e cordialmente legate al vescovo, che lavorino in sintonia con il sacerdote che le presiede». Laici anzitutto che non saranno i sostituti o i surrogati del prete, ma i “motori” di comunità dal volto missionario. «Se ci muoviamo in questa prospettiva, partendo con qualche sperimentazione, nel giro di qualche anno riusciremo ad assicurare in maniera capillare l’apertura delle chiese e la tutela del loro patrimonio culturale, la promozione di momenti di preghiera e d’ascolto della Parola, l’attenzione alle persone sofferenti o comunque bisognose», spiega Maffeis. E indica le «risorse» su cui puntare, come le definisce: i diaconi che nell’arcidiocesi sono una quarantina; le centinaia di catechiste presente nelle diverse zone; i ministri straordinari della Comunione; i lettori; i sacristi; i volontari dei centri d’ascolto; gli animatori del mondo giovanile. «Altre forze, per altri ambiti e ministeri laicali, si aggiungeranno se accetteremo di aprirci, di chiedere, di far spazio e coinvolgere».
Un’operazione salvagente? No, una scelta che richiede “il coraggio dei passi”, come Maffeis ha intitolato la sua Lettera pastorale in cui presenta il percorso di rinnovamento. Un documento che è in prima battuta un invito a non temere le trasformazioni, «memori che le vere riforme della Chiesa sono state attuate dai santi» come Benedetto e Francesco di cui la terra umbra custodisce l’eredità. Il testo è stato consegnato martedì durante la festa della Madonna delle Grazie che ha al centro l’immagine dipinta da un allievo del Perugino su una colonna della Cattedrale. Era anche il giorno in cui l’arcivescovo ha celebrato il suo primo anno di episcopato a Perugia-Città della Pieve e ha ricevuto il pallio dal nunzio apostolico in Italia, l’arcivescovo (e prossimo cardinale nel Concistoro del 30 settembre) Emil Paul Tscherrig. A benedire il pallio, destinato ai metropoliti, papa Francesco lo scorso 29 giugno nella Basilica vaticana per la solennità dei santi Pietro e Paolo. Un gesto «per esaltare il vincolo di intima comunione che esiste tra il Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori degli Apostoli, nonché di questi ultimi con il clero, i diaconi, i consacrati e l’intera comunità dei fedeli», ha ricordato il nunzio.
La Lettera pastorale è frutto di un anno di ascolto e incontri di Maffeis. Un approccio sinodale che ha avuto uno dei suoi momenti chiave nell’assemblea diocesana dello scorso maggio con 26 gruppi di studio, cui sono seguiti i contributi delle unità pastorali che hanno evidenziato limiti e fatiche del cammino ma anche potenzialità e progetti che lo arricchiscono. Fra le ombre c’è il «campanilismo» che è «sinonimo di chiusura» e «impoverisce le iniziative». C’è la «scarsa coralità nelle decisioni». C’è «la fatica di partecipare», a cominciare dalle famiglie che «si limitano a esigere servizi religiosi e sacramenti di cui spesso ignorano il valore». C’è la «tentazione di accontentarsi dell’esistente e del “si è fatto sempre così”». C’è la difficoltà di «distinguere la ricchezza data dalla tradizione e il freno posto dal tradizionalismo». Così, sottolinea Maffeis, la parrocchia rischia di non essere più la «tenda di Dio piantata in mezzo agli uomini» ma un «accampamento periferico in un contesto che vive ignorandola». Ma guai a far prevalere il pessimismo. «Abbiamo un capitale umano da cui ripartire», sprona l’arcivescovo. Preti, diaconi, laici. «Tanti don Milani» accomunati dalla «passione per la vita buona del Vangelo» e in grado di «rinnovare ogni giorno il loro I care, mi riguardi, mi interessi». Poi gli oratori «con la loro capacità di accogliere, integrare e formare»; le reti della carità; le associazioni e i movimenti; le iniziative di catechesi e la vita liturgica.
Da qui la sfida di «ripensare la presenza ecclesiale». Maffeis presenta alcune direttrici: maggiore coinvolgimento delle famiglie nella catechesi; revisione del numero delle «celebrazioni che non può misurarsi su un passato in cui c’erano non solo più sacerdoti ma anche più fedeli»; una carità con «una spiritualità evangelica» e non con una «connotazione filantropica»; un laicato che non sia considerato «manovalanza» e lavori insieme «non in termini di collaborazione ma di corresponsabilità»; un linguaggio diverso ed empatico nelle omelie; la «trasparenza» nella gestione dei beni ecclesiastici che alimenta «la fiducia»; la testimonianza nel «mondo del lavoro» e della «cultura». E soprattutto «preti “normali”, capaci di relazioni amicali, di vicinanza umana, di accoglienza priva di giudizio; uomini di Dio, educatori con la preghiera, la Parola e la testimonianza della tenerezza materna della Chiesa».