Le piaghe degli imperi invisibili (Luigino Bruni)

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Ogni generazione dovrebbe rileggere l’Esodo per scoprire e guardare in faccia i propri faraoni e le proprie schiavitù, agognare le liberazioni, riconoscere le piaghe del proprio tempo, abbandonare le terre degli imperi e muovere verso nuove terre di fraternità e di giustizia. Nei veri cammini di liberazione arriva puntuale il momento delle “piaghe d’Egitto”, che sono i grandi segni dei tempi nelle stagioni degli imperi, che i faraoni non riescono a interpretare perché il loro “cuore” è pietrificato.

 E così chiamano i “maghi” a divinar responsi rassicuranti. L’Esodo ci dice, se sappiamo e vogliamo ascoltarlo bene, che quando gli imperi si dimostrano inconvertibili al bene (e lo sono sempre e tutti, altrimenti non sarebbero imperi), l’unica salvezza che si apre davanti al popolo oppresso è la fuga, abbandonare i territori dei lavori forzati per muovere decisi verso un’altra terra.

«Mosè parlò così agli Israeliti, ma essi non lo ascoltarono, perché erano stremati dalla dura schiavitù» (6,9). Dopo la lealtà costosa e fraterna dei “capisquadra”, Mosè tornò dal popolo per ridire loro la promessa di YHWH. Ma essi non ascoltarono le sue parole per il troppo dolore che tappava le orecchie della loro anima.

C’è un punto oltre il quale la sofferenza diventa talmente profonda e radicale da impedire di ascoltare i profeti e le loro promesse. Quando le grandi sofferenze delle persone e delle comunità durano molto tempo, i profeti, anche i più grandi, non vengono ascoltati, perché il troppo dolore crea una cortina invisibile che neanche l’efficace parola del profeta riesce a bucare.

Ogni generazione ha conosciuto queste forme di sordità disperate, e spesso le ha sapute combattere ed eliminare. Anche la nostra età le conosce, ma alle tante sofferenze assordanti degli oppressi che continua a produrre e a non curare, ha aggiunto le nuove sordità delle opulente periferie spirituali ed etiche, dove la voce dei profeti non è udita, e non iniziano le liberazioni che sarebbero non meno necessarie di quelle dalle periferie della miseria.

Il racconto delle piaghe d’Egitto ci dice che esiste una soglia del dolore dei popoli e delle persone, oltre la quale l’unico linguaggio credibile della liberazione diventano i fatti, perché riescono ad arrivare a profondità maggiori di quelle raggiunte e ferite dal dolore. Lì incontrano l’origine della promessa, la vedono agire dentro la loro oppressione. Le parole di YHWH e di Mosè diventano storia, entrano nelle carni dei popoli, le feriscono e le benedicono. Solo questa parola incarnata può raggiungere le profondità di certi dolori umani.

Solo certi fatti, certe parole incarnate – in un gesto, in un’ultima carezza, in mille notti passate dormendo su una poltrona della corsia dell’ospedale, nel trovare ancora aperta la porta di casa dopo cento tradimenti… – riescono a parlare a quei dolori dove le parole non sanno parlare più, neanche per chiedere e donare un perdono. È anche questa la dignità della sofferenza umana, l’unica realtà che può essere più forte della parola (fu per pareggiare questa dignità di tutti i dolori umani che un giorno la Parola incarnata morì inchiodata a un legno).

La prima luce che il popolo immerso nelle tenebre iniziò a intravedere fu una luce tenebrosa, ma sufficiente per scorgere in mezzo a quelle tenebre l’alba della resurrezione. È dentro il paradosso delle piaghe d’Egitto che rinacque per quei poveri la speranza e la fede nella promessa – e non è raro che anche oggi le nostre speranze risorgano dalle piaghe nostre e degli altri, quando riusciamo a intravvedere in esse, attraversandole, una luce aurorale. E le orecchie dell’anima si aprono in un effatà collettivo e liberatore.

Le piaghe sono l’inizio della pasqua, la premessa e il presupposto dell’attraversamento del mare. C’è una dinamica dominante nello sviluppo delle piaghe. Durante l’azione del flagello, il faraone promette a Mosè di rilasciare il popolo perché celebri il suo Dio nel deserto. Mosè crede o spera che quella nuova piaga finalmente converta il faraone, e chiede a YHWH di porre termine alla piaga. Ma non appena la piaga termina, il faraone sperimenta «un po’ di sollievo» (8,11), e ritratta la sua promessa di liberazione. Il messaggio è chiaro: questi imperi e questi faraoni sono inconvertibili, le loro promesse solo chiacchiere, perché l’unico interesse che hanno è aumentare i mattoni per costruire le piramidi che celebrino le loro divinità idolatriche.

Nelle prime piaghe (l’acqua del Nilo cambiata in sangue e l’invasione delle rane) ritornano i maghi e gli indovini del faraone. Li avevamo già trovati nel ciclo di Giuseppe nella Genesi (41,8) – l’Egitto nella memoria d’Israele non è solo il luogo della schiavitù, è anche la terra fertile della fraternità ritrovata. Questi maghi replicano gli stessi fatti “prodigiosi” di Mosè («fecero la stessa cosa i maghi dell’Egitto»: 7,22;8,3) per dimostrare che la presenza delle piaghe si poteva spiegare senza invocare l’azione del Dio di Israele.

Ma alla terza piaga, quella delle zanzare, «i maghi cercarono di fare la stessa cosa con le loro arti segrete, ma non poterono» (8,14). Un inizio di fallimento, che diventa totale con la sesta piaga (le ulcere), quando «i maghi non poterono stare alla presenza di Mosè a causa delle ulcere, perché c’erano ulcere sui maghi» (9,11).

Quando gli imperi cominciano a vacillare, i dominatori chiamano i maghi, gli aruspici, gli indovini. Chiedono a loro conferme che quanto di nuovo e doloroso sta accadendo nel loro regno non è nulla di veramente preoccupante, e quindi spiegabile utilizzando la stessa logica dell’impero. Abbiamo assistito per anni al susseguirsi di divinazioni e di oroscopi dei maghi della finanza e dell’economia che ci volevano (e vogliono) convincere che le “piaghe” che stavamo (e stiamo) vivendo non erano (sono) un segno forte della necessità di conversione e di cambiamento della logica profonda del nostro impero, ma soltanto oscillazioni naturali del ciclo economico, o errori e disturbi interni al sistema e da questo riassorbibili “nel lungo periodo”.

Stiamo da decenni subendo le conseguenze dei cambiamenti climatici, vediamo morire uomini, fiumi, animali, piante, insetti, ma i maghi dell’impero continuano a negare l’evidenza e a volerci dimostrare che questi eventi sono naturali e quindi spiegabili con le loro arti magiche. Ma le piaghe stanno aumentando, gli imperi iniziano a cedere e le simulazioni degli indovini non funzionano più, perché l’evidenza si mostra con una tale forza da sbugiardare anche gli indovini più bravi e sofisticati – e qualcuno inizia ad ammalarsi delle stesse malattie che avevano cercato di negare.

Il nostro sistema economico, profondamente intrecciato con le vicende ambientali e climatiche, si trova ancora allo stadio della “piaga delle rane”, dove il faraone chiama e lautamente paga i suoi maghi per convincerlo e convincere che non sta accadendo nulla di veramente nuovo, qualcosa di cui veramente preoccuparsi. Ma ci sono segni che stiamo forse entrando nella terza piaga, perché la fatica delle simulazioni e delle persuasioni degli aruspici cresce. E dobbiamo tutti sperare che, diversamente da quanto accadde a quel faraone, questa volta saremo capaci di convertirci dopo le prime piaghe e non aspettare la “morte dei bambini” (la decima piaga) per liberare finalmente i poveri e salvare la terra.

Questo ricco, complesso e variopinto racconto delle piaghe contiene un grande insegnamento sulla gestione dei conflitti, soprattutto di quei conflitti tra un oppressore, dimostratosi inequivocabilmente e ingiustamente oppressore, e oppressi inequivocabilmente e ingiustamente oppressi. Quando la natura e la logica di queste due parti in conflitto si manifestano definitivamente, arriva un momento in cui le trattative si devono interrompere, e resta solo una possibilità per vivere: la fuga. L’unica vita possibile è quella che sta fuori dai campi del lavoro schiavistico.

Con questi imperi oppressori non si tratta: se vogliamo salvarci e salvare dobbiamo fuggire, perché chi cerca di trattare e di scendere a compromessi si ritrova un giorno dalla parte dei suoi «sovraintendenti», si dimentica dei poveri, del loro grido, e della prima promessa. Non riusciamo a liberarci da troppi imperatori ingiusti perché, non riconoscendoli per quello che sono realmente, entriamo in trattative con la loro logica, accettiamo le loro regalìe e i loro sponsor per occuparci delle loro vittime, non liberiamo nessuno e finiamo solo per inasprire le nostre schiavitù e quelle di tutti.

Gli imperi del passato erano evidenti, si imponevano stagliati sull’orizzonte di tutti. I nostri imperi sono sempre più invisibili, e riescono a presentarsi come regni buoni e generosi, dove i poveri saranno liberati proprio da loro. Molta parte della libertà e della giustizia del nostro tempo passa dalla nostra capacità spirituale ed etica di vedere e chiamare i nostri imperi per nome, riconoscere le piaghe, e fuggire da essi.

Ma mentre resistiamo, cerchiamo di non morire e speriamo nella liberazione, non dimentichiamo mai che dietro alle tante sordità spirituali e le mancate liberazioni che vediamo attorno a noi si possono nascondere grandi dolori, quelli prodotti dai nostri imperi visibili e invisibili. Ridurre le sofferenze dei popoli, allentare e spezzare le catene che li costringono ai lavori forzati, può consentire a tanti poveri di ascoltare finalmente i profeti, e prendere insieme la via del mare.