Il mondo descritto dai Vangeli è in tutto e per tutto uguale al nostro: un mondo asimmetrico, ferito da gravi disuguaglianze, un mondo che è un grande teatro della sofferenza umana, diviso tra battute d’arresto e convulsioni, squassato da una violenza che si produce in forma più occulta o manifesta, ma sempre inesorabile e costante.
Alcuni studi recenti in campo biblico propongono la ricostruzione sociologica del contesto storico in cui visse Gesù, e quello che ci presentano non è un mondo roseo.
Tra le righe delle narrazioni evangeliche possiamo cogliere elementi di un sistema sociale stratificato, nel quadro di una realtà contadina e di un’economia sostanzialmente rurale, in cui le esistenze individuali erano in gran parte precarie. Alcuni dei personaggi che emergono dai racconti del Nuovo Testamento espongono chiaramente la fragilità angosciante di un paesaggio sociale segnato da ingenti problemi di coesione e giustizia: la violenza della disuguaglianza espressa nella parabola di Lazzaro e del ricco epulone (Lc 16, 19-31), in cui si può dire, con Papa Francesco, che «l’indifferenza uccide»; la piaga dilagante delle situazioni di mendicità (si pensi al cieco di Gerico, Mc 10, 46-52); la galleria dei vulnerabili, in cui si distaccano tanti volti femminili (la donna dalla schiena incurvata, Lc 13, 10-17; l’emorroissa, Mc 5, 25-29; la cananea, Mt 15, 21-28; la povera vedova davanti al tesoro del tempio, Mc 12, 41-44); il dramma della disoccupazione (Mt 20, 7); i cicli successivi di fame e penuria (Lc 15, 14); le conseguenze disperate dell’indebitamento (Mt 18, 23-34).
Da questo punto di vista, per esempio, il discorso indirizzato a Gesù da Zaccheo, convertito dal gesto di misericordia ricevuto, può essere letto non solo come un esame di coscienza individuale, ma come la diagnosi di una società dominata da strutture di ingiustizia (Lc 19, 8). E questo quadro è corroborato da notizie di violenza di vario tipo: dall’azione dei briganti (parabola del buon samaritano, Lc 10, 30), alle manifestazioni sanguinose di giustizialismo (Mt 21, 33-46) o la mano dura dei militari sulle popolazioni (Lc 3, 14).
La spada è, perciò, un simbolo rilevante, capace di esprimere la violenza multiforme, latente e manifesta, con cui Gesù si confronta. Non è un caso che, al momento del suo arresto, come esplicitamente ricordato dagli evangelisti, gli uomini incaricati di catturarlo gli vanno incontro armati di «spade e bastoni» (Mt 26, 47). Ed è altrettanto significativo che, in questo contesto, la questione della difesa di Gesù, da parte sua e dei suoi discepoli, si collochi proprio intorno alla discussione sul ricorso alla spada. È un punto su cui, anche se con sfumature diverse, il racconto dei quattro evangelisti viene a coincidere (Mt 26, 51-54; Mc 14, 47; Lc 22, 49-51; Gv 18, 10-11).
Il più laconico è Marco, che si limita a registrare l’accaduto, senza fare alcun commento («Uno dei presenti estrasse la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio»). Più incisivo Matteo, che riferisce la reazione veemente di Gesù: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno. O credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?». Luca aggiunge che Gesù toccò l’orecchio del servo del sommo sacerdote e lo guarì, ripristinando ciò che la spada aveva leso. In Giovanni, i personaggi escono dall’anonimato e ricevono dei nomi: l’uomo con la spada è Simon Pietro e l’uomo che è stato colpito si chiama Malco. Ma l’atteggiamento di Gesù nei confronti della spada rimane lo stesso: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».
Gesù è, dunque, inequivocabile nel suo rifiuto della spada come soluzione, anche nel caso dell’ingiustizia suprema rappresentata dalla sua condanna e morte in croce. Si è lasciato ferire dalla violenza, testimoniando in misura incondizionata un amore che il teologo Bernhard Häring ha definito «essenzialmente riconciliante e sanante», un amore che rinuncia a qualsiasi forma di vendetta. La conclusione che dobbiamo trarre da questa indicazione fondamentale è, come sottolinea Häring, molto chiara: celebrare oggi la passione di Gesù Cristo — una passione in atto nella nostra carne fino alla fine dei tempi — richiede «una decisione in favore della non violenza e della corresponsabilità per l’affermazione di una cultura della non violenza».
È certamente una grande responsabilità storica, per i cristiani, accogliere nel contesto odierno l’ingiunzione di Gesù, «Rimetti la spada nel fodero!», in un momento in cui la violenza della guerra risorge in tutta la sua crudezza e brutalità. In un’epoca contaminata dalla psicosi della paura, la corsa agli armamenti appare ancora una volta come un’inevitabilità. Già nell’enciclica Pacem in terris, la voce profetica di Papa Giovanni XXIII si levò contro la corsa al predominio militare e alle armi atomiche, suggerendo, in nome della giustizia, della retta ragione e del senso della dignità umana, che «si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci» (n. 60). Noi cristiani siamo chiamati a impegnarci in questa missione. Anche se, come rifletteva don Tonino Bello, «noi cristiani non siamo stati capaci di fare entrare nelle coscienze questo insegnamento di Gesù», non possiamo ignorarlo, rinunciando ad essere, a questo riguardo, «la coscienza critica del mondo».
Sull’esortazione di Gesù, «Rimetti la spada nel fodero!», Papa Francesco si esprime con la consueta schietta linearità nell’enciclica Fratelli tutti, dicendo: «I cristiani che dubitano e si sentono tentati di cedere a qualsiasi forma di violenza, li invito a ricordare l’annuncio del libro di Isaia: “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri” (2, 4). Per noi questa profezia prende carne in Gesù Cristo, che di fronte a un discepolo eccitato dalla violenza disse con fermezza: “Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno” (Mt 26, 52). Era un’eco di quell’antico ammonimento: “Domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello. Chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso” (Gen 9, 5-6). Questa reazione di Gesù, che uscì spontanea dal suo cuore, supera la distanza dei secoli e giunge fino a oggi come un costante richiamo» (n. 270).
Lo scrittore Jorge Luis Borges ha affermato che «c’è chi ha visto Dio in una luce, c’è chi lo ha scorto in una spada». Gesù ci insegna a scegliere come guardare, come agire.
di JOSÉ TOLENTINO DE MENDONÇA