Due padri e due famiglie distrutti dal dolore. Che ora sono devastati dal lutto e sul banco degli imputati allo stesso tempo. Perché di Giulia e Filippo, della vittima e del carnefice, di lei che da mesi subiva quelle che erano violenze e non sapeva riconoscerle o confessarle e di lui che moriva di quello che pensava fosse amore, consumato dalla gelosia e dall’ossessione, le “buone” famiglie di Vigonovo non sapevano nulla o quasi.
Come è stato possibile? La domanda risuona negli studi televisivi, tra i politici e persino tra esperti ed educatori. E questi genitori – commoventi nella dignità con cui stanno affrontando il dramma che s’è consumato, persino stretti l’un l’altro tra le lacrime e lo stravolgimento delle loro vite – sono i primi a colpevolizzarsi, interrogandosi sull’abisso di incomunicabilità e incomprensione che li ha separati per sempre dai loro figli: «Non riusciamo a capire come possa aver fatto una cosa così un ragazzo a cui abbiamo cercato di dare tutto – per dirla con le parole del padre di Filippo –. Io ho pensato che fosse un figlio perfetto, perché non mi aveva dato mai nessun problema, né a scuola né con i professori, mai un litigio con qualche compagno di scuola o che altro. Mai. Trovarmi con una cosa del genere, voi capite che non è concepibile». Figli perfetti (o presunti tali), vite all’apparenza nei binari. Prima del pur decisivo tema della violenza di genere, del patriarcato radicato nella cultura del nostro Paese, e forse mescolato a questi stessi nodi, c’è quello dell’educazione che nelle case nasce e cresce, del rapporto tra genitori e figli. Che è un rapporto sempre più difficile. «A cominciare dal linguaggio che loro parlano e che non è quello di mamma e papà – spiega Cinzia Calabria, presidente dell’Associazione avvocati di famiglia e minori –. I social network da questo punto di vista sono stati dirompenti. Incontriamo sempre più spesso genitori disorientati, incapaci di riconoscere i problemi dei loro figli o perché increduli rispetto al fatto che li possano avere, o perché indifferenti, assenti rispetto alle loro abitudini e alla loro quotidianità». Si chiama mancanza di comunicazione, ma è più una forma di analfabetismo: in famiglia sempre più spesso manca un vocabolario comune. E se non ci si capisce, quando non ci si capisce, si finisce anche col smettere di parlare. «La violenza e la sua sottovalutazione vanno letti in questo contesto di silenzio. Non siamo in grado di riconoscerne i segnali, e questo ad ogni livello. Sicuramente non ci aspettiamo che possa riguardare noi, casa nostra». E così quella violenza – a volte solo linguistica, a volte solo legata a stereotipi, a volta agita dai genitori stessi nei confronti dei figli senza badare alle conseguenze – finisce per esplodere. Anche dove tutto sembra “normale”, anche per mano di quel “bravo ragazzo” che non aveva mai fatto male a nessuno.
Sarebbe però ingiusto gettare la croce addosso solo alle fatiche e alle incertezze dei genitori. Le famiglie sono le prime vittime di una complessità culturale di cui non riescono a scorgere tutti gli snodi negativi, tutte le conseguenze talvolta tanto insidiose da sfociare in episodi, come quello appunto che ha visto vittima la povera Giulia, di cui solo a posteriori si riescono a riannodare i fili. Ne è convinta Livia Cadei, docente di pedagogia all’Università Cattolica, presidente della Confederazione dei consultori familiari di ispirazione cristiana: «Questa tragica vicenda – fa notare – dimostra il bisogno di uscire da una lettura sempre composta da due soli poli, da una parte la famiglia dall’altra i figli. Invece intorno ci sono, ad incidere in modo significativo, tante altre realtà, c’è tutto il clima culturale, c’è il peso delle relazioni amicali, che fanno da rete e da sostegno, ma che rappresentano anche un ambito in cui si condividono certi stili di vita, certi pensieri, certe modalità di pensare le relazioni». Nel bene, ma spesso purtroppo, anche nel male. Ecco perché immaginare che le famiglie siano l’unico riferimento etico, l’unico esempio a cui guardano i ragazzi, sia adolescenti sia giovani dai venti anni in avanti, non solo è illusorio ma anche fuorviante. Forse, come si legge nel Documento di sintesi dell’ultimo Sinodo, occorre davvero riconoscere che «le categorie antropologiche che abbiamo elaborato non sono più sufficienti a cogliere la complessità» della situazione culturale in cui siamo tutti immersi e tutti, a vario titolo, condizionati. «Purtroppo è così – prosegue Cadei –. Dobbiamo ripartire dall’identica dignità di ogni persona, donna e uomo, da una nuova e coraggiosa analisi degli squilibri e dei rapporti di potere che devono essere riconsiderati. Se non partiamo dal riconoscimento della persona per quello che è, al di là dei generi e dei ruoli, non riusciremo ad impostare un discorso adeguato alla profondità e alla difficoltà di queste domande».
Suor Roberta Vinerba, teologa ed esperta di temi educativi, che da anni propone percorsi di educazione all’affettività con eventi nella cattedrale di Perugia che richiamano ogni volta migliaia di giovani, ha sulla vicenda uno sguardo un po’ diverso. Con una premessa: «Non voglio entrare nel merito del singolo, terribile fatto dell’uccisione di Giulia, parlerei senza avere la totalità delle informazioni. Ma da questa tragedia, oltre a provare pietà per le due famiglie coinvolte, dobbiamo gettare uno sguardo sulla tenuta del nostro sistema culturale, sociale, direi umano». Di fronte a questi episodi, la comunicazione tende a replicare stereotipi non solo soltanto poco credibili, ma addirittura dannosi. «La questione sulla quale sto riflettendo in questi giorni – riprende l’esperta – è che, per l’ennesima volta, a compiere un gesto efferato, è qualcuno del quale si dice fosse “una persona perbene”, “una persona tranquilla” ed espressioni simili. Mi chiedo quale sia il metro, nelle nostre famiglie, nel nostro circolo di amici, nel nostro sistema culturale, della “normalità“, dell’essere “bravi”. Forse tutti, nelle nostre relazioni, a partire da quelle vicine, familiari, dovremo alzare la soglia di ciò che intendiamo per “relazione buona” e “persona perbene”, perché poi ogni volta, a fatto accaduto, si scopre che avvisaglie ci sono state e che sono state troppo spesso sottovalutate». Conta il fattore sorpresa? O non conta molto di più il fatto che, al di là della prassi quotidiana, delle incombenze da sbrigare in casa e fuori, troppo spesso i figli per tanti genitori sono quasi degli estranei? «Forse – risponde Vinerba – perché siamo in un tempo storico che si connota appunto per l’analfabetismo affettivo ed emotivo, in ultimo per una carenza di adulti capaci di essere significativi nella mappa della vita dei giovani». Quindi hanno ragione coloro che propongono percorsi di affettività nelle scuole nella convinzione che, se le famiglie sono inadeguate, occorre che altre agenzie educative si occupino di spiegare ai ragazzi le dinamiche della relazione? «Direi di no – osserva la teologa –, ritengo ipocrita la proposta di delegare alla scuola l’educazione affettiva, un ennesimo scaricabarile di adulti incapaci di rielaborare in maniera rigorosa modelli di comportamento che spesso si presentano imbarazzanti, con cadute verso una deresponsabilizzazione e una gestione adolescenziale del proprio vissuto. I femminicidi e le tante forme di violenza di genere solo la punta dell’iceberg della mancanza di riferimenti antropologici e morali in cui, purtroppo, più che navigare, stiamo naufragando».
Aiutare le famiglie si può, però, e si deve. La psicoterapeuta Lucia Beltramini è in prima linea da anni sul fronte della violenza di genere e protagonista di corsi di formazione in questo senso rivolti proprio ai genitori, in Friuli: «All’inizio pensavamo che fossero in pochi a voler partecipare, poi abbiamo capito che c’è un grande interesse sul tema. Il primo passo che facciamo insieme è capire come di violenza si parla in famiglia, se i campanelli di allarme che come esperti abbiamo imparato a leggere risuonano anche lì. Poi ascoltiamo le domande che madri e padri spesso ci pongono rispetto alle dinamiche relazionali dei propri figli». Non necessariamente un fidanzato che aspetta una ragazza fuori da casa o che intasa il suo cellulare di chiamate è un potenziale autore di violenza «e però spieghiamo loro che occorre alzare la soglia di attenzione e cercare momenti di confronto coi propri ragazzi quando per esempio finiscono le loro storie d’amore, quando vengono lasciati o lasciano, quando hanno paura e si sentono minacciati dal comportamento di un ex». La parola e la difficoltà di parola sono al centro del percorso: «È naturale che si faccia fatica a confidarsi coi propri genitori. Ma da parte degli adulti occorre disponibilità, apertura». Le azioni da mettere in campo, dunque, sono di sistema, «non solo rivolte agli studenti. Così che nessuno venga lasciato solo: le donne e gli uomini, le ragazze e i ragazzi, ma anche le loro famiglie, che per prima dovrebbero cogliere i segnali della violenza di cui sono vittime». C’è una rete da costruire «e la fine di Giulia, che tanto ha scosso e mobilitato l’Italia, deve una volta per tutte convincerci che è il momento di costruirla».