La novità è che ora crolla anche il numero di coloro (non praticanti) che si definiscono “cristiani”. Le stesse tendenze, da livelli più alti, si registrano in Irlanda e nei Paesi mediterranei.
In Italia i “praticanti” sono scesi in dieci anni dal 33% al 27%; tra i giovani (18-29 anni) i praticanti sono solo il 14%, e continuano a calare di quasi il 3% l’anno. E i dati ufficiali sulla religiosità sono persino sovrastimati.
Nel cosiddetto Sud del mondo due tendenze demografiche frenano la secolarizzazione. In America latina (Messico), Africa (Sud Africa), Asia (Filippine), i dati disponibili non rilevano cali della religiosità. Succede così che la migrazione da quei Paesi attutisca il processo di secolarizzazione dei Paesi di destinazione. Inoltre, i migranti che arrivano in Italia (il 52% dei quali non è musulmano, ma cristiano) praticano più dei nativi; e gli italiani “praticanti” sono più prolifici degli atei. Ma questi fenomeni non sono sufficienti a invertire il trend: le chiese continuano a svuotarsi.
Nei Paesi nordici si chiudono i luoghi di culto, si accorpano le parrocchie, si sperimentano nuovi tipi di “comunità parrocchiali” nei luoghi di lavoro; le Confessioni protestanti minori si fondono fra loro o confluiscono in quelle maggiori; ciò non cambia le tendenze di lungo termine. Le Chiese devono dunque interrogarsi più profondamente sulle cause del loro declino.
L’analisi sociologica sembra mostrare che la secolarizzazione colpisce di più: i Paesi protestanti e ortodossi, che non quelli cattolici; e i Paesi più “avanzati” in base al reddito, mentre incerto è il ruolo dell’istruzione. Ma le correlazioni statistiche non spiegano cosa c’è dietro.
Nel corso degli anni c’è chi ha posto l’accento soprattutto sulla identità (cattolica), sbiadita e inquinata dal benessere e dal liberalismo. Semplificando: la tesi era che una linea di fermezza e rigore dottrinale avrebbe potuto restituire credibilità e appeal alla Chiesa cattolica.
Successivamente l’accento si è spostato e oggi sembra prevalere la visione opposta: se non si ascoltano “i segni dei tempi”, non si è capiti dalle “nuove generazioni”. Così, oltre ad “attualizzare il messaggio”, le Chiese cercano di “modernizzare la comunicazione”. Come si può pensare di intercettare i giovani quando questi comunicano sulle piattaforme digitali, se il messaggio religioso viaggia in modo tradizionale? Ma gli strumenti digitali non possono creare un interesse se questo non c’è. Altre questioni sul tappeto sono il “maschilismo” di alcune Chiese, la morale sessuale, il celibato dei preti, il rapporto con il potere economico e politico. Ma nessuna sembra spiegare davvero la questione. E statisticamente non ottengono risultati soddisfacenti né le Chiese più “moderne”, né quelle più “conservatrici”.
Nasce dunque spontanea la domanda: l’uomo moderno ha ancora bisogno di Dio e della religione? Dai dati riportati sembrerebbe di no.
L’invito di Gesù è sempre lo stesso: «Chi vuol venire dietro di me prenda la sua croce e mi segua» (Lc 9, 23). A ben vedere però, i giovani europei sono solo sopraffatti da mille cose — una fra tutte è l’abuso di audiovisivi —, in famiglie dove figure genitoriali deboli stentano a trasmettere concretamente i valori che hanno conosciuto e sperimentato: tra questi, l’esperienza religiosa. Spesso sono abbandonati alla noia, alla pigrizia, alle scorciatoie e al vuoto. Ma gli operatori giovanili riportano che i giovani hanno fame di infinito, di bellezza, e di Dio; si interrogano su chi sono, da dove vengono, dove vanno, che senso hanno l’impegno, il dolore, l’amore, chi li ama, e chi no. Quando emergono queste domande latenti, diventano più interessati alle relazioni con gli adulti, con il diverso, con il Mistero. Difatti, grande successo hanno i raduni internazionali delle Giornate mondiali della gioventù; e nelle Chiese sono ancora vitali molti gruppi giovanili, laddove si intrecciano relazioni concrete.
Quali dunque i possibili rimedi contro la secolarizzazione? La “fotografia” della prima Chiesa di Gerusalemme che emerge dalla lettura degli Atti degli Apostoli, può essere d’aiuto (2, 42-47). Schematizzando, la prima comunità cristiana perseverava in 4 cose: la trasmissione del messaggio di Cristo; l’unione fraterna, stare, mangiare insieme; condividere i beni materiali «secondo il bisogno di ciascuno»; l’Eucaristia, frequentare insieme il tempio.
La pratica religiosa delle Chiese moderne è incentrata sulla liturgia domenicale, che privilegia fortemente il primo punto. Ma già quando si passa al secondo si nota una profonda divaricazione: nella pratica religiosa moderna manca la relazione umana. I membri della prima Chiesa cristiana socializzavano, erano amici, o stavano dentro a un meccanismo che favoriva l’amicizia a priori. Si può immaginare uno che dice all’altro: “mio figlio è malato, sono preoccupato”, il confronto fra persone diverse per età, classe sociale, cultura e provenienza, «come in una famiglia accogliente in cui ciascuno può essere sé stesso, con i suoi dubbi e le sue domande, senza timore di essere giudicato» (Frère Alois, Taizé). Infatti all’epoca le confessioni — o lo status di penitente — erano pubbliche.
Riflettiamo un momento sul concetto di “amicizia a priori”. Per fare degli amici non basta assemblare gente come in un villaggio turistico: si diventa “amici” quando si condivide un’esperienza umana realmente — non solo potenzialmente — importante. Sia i cristiani del I secolo che quelli del XXI hanno in comune (“condividono” passivamente) la fede in Cristo. Ma i primi cristiani condividevano (attivamente) oltre alla dottrina anche l’esperienza quotidiana dell’incarnazione nella loro vita, della Salvezza che viene dallo Spirito. E questa era un’esperienza umana mai scontata: la città terrena «non è una società di genti installate in dimore definitive, ma di genti in cammino» (Maritain). La vita cristiana e la fede nel primo secolo, era anch’essa non lineare: fatta di dubbi, contraddizioni, timori, incertezze, fallimenti, oltreché di gioia e, speranza. La complessità di ogni cammino di fede individuale era condivisa, grazie a una disponibilità reciproca “a priori”. Perciò anche un forestiero appena arrivato poteva essere immediatamente inserito in questo processo di condivisione, da cui nascevano: il consiglio (la “correzione fraterna”), l’incoraggiamento, e la testimonianza reciproca sulla presenza dello Spirito Santo: nutrimenti essenziali di ogni cammino di fede.
Nelle odierne messe domenicali invece partecipano per la maggior parte sconosciuti che resteranno sempre tali. All’uscita dalla messa salutiamo talvolta i nostri conoscenti ed amici che abitano nel quartiere, è vero; ma lo facciamo spesso con un filo di imbarazzo, quasi scusandoci di confessare la fede, e ci affrettiamo a parlare d’altro: «Come stanno i figli, come va il lavoro, quando partite per le vacanze…». Questo perché tali amicizie, nate fuori dalla chiesa, anche quando coinvolgono i credenti, non si basano sulla fede comune, ma su altre situazioni comuni a credenti e non credenti: l’amore per le passeggiate in montagna, un interesse professionale ecc. Le condivisioni fondative dell’amicizia si realizzano oggi per la maggior parte in occasioni sociali dove — per un giusto rispetto del pluralismo ideologico — non è politically correct parlare della presenza viva di Gesù nella propria vita.
Anche la condivisione dei beni (terzo punto) oggigiorno appare improponibile, salvo che in forme tiepide e minimaliste. Innanzitutto per mancanza di informazioni: come determinare “il bisogno di ciascuno”, se non si conoscono gli altri? La risposta al “bisogno” sfugge alle regole semplici: come “l’uguaglianza” dei redditi, delle ricchezze, o dei consumi. Forse che un uomo privo di gambe non ha bisogno di supplementi di reddito — per pagarsi delle protesi o un taxi — per potersi recare al lavoro come tutti gli altri (A. Sen)? In secondo luogo, le relazioni umane e spirituali fra i primi cristiani rendevano più naturale la risposta al bisogno anche materiale dell’altro: la condivisione non era un obbligo ma un atto d’amore. E come dice san Paolo, puoi fare qualsiasi cosa, ma se non lo fai per amore non vale niente (e spesso fai bene a non farla). Al contrario, la carità oggi è diventata anch’essa una transazione anonima poco attraente.
Quanto al quarto punto, del “pregare insieme”, si ha spesso la sensazione che i fedeli domenicali preghino da soli; che pur partecipando insieme alla Messa, pur recitando le stesse preghiere nello stesso momento, si sentano fondamentalmente soli. Anche l’Eucaristia, pur chiamandosi “comunione”, è purtroppo spesso vissuta come un accesso individuale alla grazia, con la presenza più o meno casuale di altri che, simultaneamente ma per conto proprio, ricevono il medesimo sacramento.
I giovani, assetati di autentica comunione, sono sempre meno interessati a questo modo di stare insieme. E la secolarizzazione è la spia di una grave sofferenza anche dei fedeli che perseverano nella fede. Com’è possibile che la religione dell’Umanesimo integrale abbia disumanizzato le sue pratiche? Senza relazioni umane profonde, la comunità religiosa non è tale, e perde di senso. I cristiani hanno bisogno di condividere la fede e la preghiera: altrimenti la fede si inaridisce. Certo, la condivisione può avvenire e in parte avviene ancora in famiglia. Ma nell’Europa contemporanea anche le famiglie hanno smesso da tempo di essere un luogo privilegiato dove condividere la quotidianità della fede: le coppie sono spesso miste; e comunque una condivisione “a due” sarebbe limitata.
Perché allora la religiosità organizzata intorno alla funzione domenicale è stata vitale fino a 50 anni fa? Forse, il mondo era fatto di tanti “piccoli villaggi”, nei quali le comunità locali già erano costituite prima di entrare in chiesa, dove “si sapeva tutto di tutti”. A Roma, per esempio, in quartieri come Trastevere e Garbatella, molte case avevano all’ingresso due scalini; e ancora negli anni Cinquanta, fra il tardo pomeriggio e l’inizio della sera, gli abitanti uscivano per sedersi a conversare; la strada era un luogo pubblico. L’assenza di opportunità favoriva la socializzazione. La funzione religiosa domenicale era perciò il culmine di una vita in comune; e l’assemblea dei fedeli a buon diritto poteva dirsi “comunità”.
La rottura delle relazioni sociali locali determinata dall’interconnessione globale, dalla pervasività del mercato (e delle automobili), dall’elevata produttività del fattore umano, in Occidente può aver snaturato la liturgia domenicale, trasformandola suo malgrado in un rito anonimo di fedeli anonimi. In un mondo che cambia, la staticità della pratica religiosa ne determina la crisi.
Stando così le cose, la migliore risposta alla secolarizzazione non è né inseguire né respingere la modernità, bensì di reagire all’individualismo, all’atomizzazione, all’evanescenza delle relazioni nelle Chiese. La vita non può essere tenuta al margine della Chiesa, solo commentata, giudicata, o perdonata dal clero. I cristiani hanno bisogno di esplorare, riflettere, e parlare fra loro del loro essere cristiani.
di Pier Giorgio Gawronski