Pubblichiamo di seguito il discorso del Santo Padre per l’odierna Liturgia penitenziale letto dall’Em.mo Card. Angelo De Donatis, Vicario Generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma:
Faccio notare da subito due cose: la prima, che queste righe sono frutto dell’ascolto di alcuni seminaristi e preti di diverse diocesi italiane e non si possono o devono riferire ad alcuna situazione specifica. La seconda: che la maggior parte dei preti che conosco sono contenti della loro vita e considerano queste amarezze come facenti parte del normale vivere, senza drammi. Ho preferito far ridondare quello che ascolto piuttosto che esprimere la mia opinione sul tema.
Guardare in faccia le nostre amarezze e confrontarsi con esse ci permette di prendere contatto con la nostra umanità, con la nostra benedetta umanità. E così ricordarci che come sacerdoti non siamo chiamati a essere onnipotenti ma uomini peccatori perdonati e inviati. Come diceva sant’Ireneo di Lione: “ciò che non è assunto non è redento”. Lasciamo che anche queste “amarezze” ci indichino la via verso una maggiore adorazione al Padre e aiutino a sperimentare di nuovo la forza della sua unzione misericordiosa (cfr Lc 15,11-32). Per dirla con il salmista: «Hai mutato il mio lamento in danza, mi ha tolto l’abito di sacco, mi hai rivestito di gioia, perché il mio cuore ti canti, senza tacere» (Sal 30,12-13).
Prima causa di amarezza: problemi con la fede.
“Noi credevamo fosse Lui”, si confidano l’un l’altro i discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,21). Una speranza delusa è alla radice della loro amarezza. Bisogna però riflettere: è il Signore che ci ha delusi oppure noi abbiamo scambiato la speranza con le nostre aspettative? La speranza cristiana in realtà non delude e non fallisce. Sperare non è convincersi che le cose andranno meglio, bensì che tutto ciò che accade ha un senso alla luce della Pasqua. Ma per sperare cristianamente bisogna – come insegnava Sant’Agostino a Proba – vivere una vita di preghiera sostanziosa. È lì che si impara a distinguere tra aspettative e speranze.
Che differenza c’è tra aspettativa e speranza? L’aspettativa nasce quando passiamo la vita a salvarci la vita: ci arrabattiamo cercando sicurezze, ricompense, avanzamenti… Quando riceviamo quel che vogliamo sentiamo quasi che non moriremo mai, che sarà sempre così! Perché il punto di riferimento siamo noi. La speranza è invece qualcosa che nasce nel cuore quando si decide di non difendersi più. Quando riconosco i miei limiti, e che non tutto comincia e finisce con me, allora riconosco l’importanza di avere fiducia. Già il teatino Lorenzo Scupoli nel suo Combattimento spirituale lo insegnava: la chiave di tutto è in un movimento duplice e simultaneo: diffidare di sé, confidare in Dio. Spero non quando non c’è più nulla da fare, ma quando smetto di darmi da fare solamente per me. La speranza si regge su un’alleanza: Dio mi ha parlato e mi ha promesso nel giorno dell’ordinazione che la mia sarà una vita piena, con la pienezza e il sapore delle Beatitudini; certo tribolata – come quella di tutti gli uomini –, ma bella. La mia vita è gustosa se faccio Pasqua, non se le cose vanno come dico io.
E qui si comprende un’altra cosa: non basta ascoltare solamente la storia per comprendere questi processi. Bisogna ascoltare la storia e la nostra vita alla luce della Parola di Dio. I discepoli di Emmaus superarono la delusione quando il Risorto aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture. Ecco: le cose andranno meglio non solo perché cambieremo superiori, o missione, o strategie, ma perché verremo consolati dalla Parola. Confessava Geremia profeta: «La tua Parola fu la gioia e la letizia del mio cuore» (15,16).
L’amarezza – che non è una colpa – va accolta. Può essere una grande occasione. Forse è anche salutare, perché fa suonare il campanello d’allarme interiore: attento, hai scambiato le sicurezze con l’alleanza, stai diventando “stolto e tardo di cuore”. C’è una tristezza che ci può condurre a Dio. Accogliamola, non ci arrabbiamo con noi stessi. Può essere la volta buona. Anche San Francesco d’Assisi lo ha sperimentato, ce lo ricorda nel suo Testamento (cfr Fonti Francescane, 110). L’amarezza si cambierà in una grande dolcezza, e le dolcezze facili, mondane, si trasformeranno in amarezze.
Seconda causa di amarezza: problemi col Vescovo
Non voglio cadere nella retorica o cercare il capro espiatorio, e nemmeno difendermi o difendere quelli del mio ambito. Il luogo comune che trova nei superiori le colpe di tutto non regge più. Siamo tutti mancanti nel piccolo e nel grande. Al giorno d’oggi sembra di respirare un’atmosfera generale (non solo tra di noi) di una mediocrità diffusa, che non ci consente di arrampicarci su giudizi facili. Però rimane il fatto che molta amarezza nella vita del prete è data dalle omissioni dei Pastori.
Tutti facciamo esperienza di nostri limiti e carenze. Affrontiamo situazioni in cui ci rendiamo conto che non siamo adeguatamente preparati… Ma salendo verso i servizi e i ministeri con maggiore visibilità, le carenze diventano più evidenti e rumorose; ed è anche conseguenza logica che in questo rapporto si giochi molto, nel bene e nel male. Quali omissioni? Non si allude qui alle divergenze spesso inevitabili circa problemi gestionali o stili pastorali. Questo è tollerabile e fa parte della vita su questa terra. Finché Cristo non sarà tutto in tutti, tutti cercheranno di imporsi su tutti! È l’Adamo decaduto che è in noi a farci questi scherzi.
Il vero problema che amareggia non sono le divergenze (e forse nemmeno gli errori: anche un vescovo ha il diritto di sbagliare come tutte le creature!), quanto piuttosto due motivi molto seri e destabilizzanti per i preti.
Prima di tutto una certa deriva autoritaria soft: non si accettano quelli tra di noi che la pensano diversamente. Per una parola si viene trasferiti nella categoria di coloro che remano contro, per un “distinguo” si viene iscritti tra gli scontenti. La parresia è sepolta dalla frenesia di imporre progetti. Il culto delle iniziative si va sostituendo all’essenziale: una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio Padre di tutti. L’adesione alle iniziative rischia di diventare il metro della comunione. Ma essa non coincide sempre con l’unanimità delle opinioni. Né si può pretendere che la comunione sia esclusivamente unidirezionale: i preti devono essere in comunione col vescovo… e i vescovi in comunione con i preti: non è un problema di democrazia, ma di paternità.
San Benedetto nella Regola – siamo nel celebre capitolo III – raccomanda che l’abate, quando deve affrontare una questione importante, consulti la comunità intera, compresi i più giovani. Poi continua ribadendo che la decisione ultima spetta solo all’abate, che tutto deve disporre con prudenza ed equità. Per Benedetto non è in discussione l’autorità, tutt’altro, è l’abate che risponde davanti a Dio della conduzione del monastero; però si dice che nel decidere egli deve essere “prudente ed equo”. La prima parola la conosciamo bene: prudenza e discernimento fanno parte del vocabolario comune.
Meno abituale è l’“equità”: equità vuol dire tenere conto dell’opinione di tutti e salvaguardare la rappresentatività del gregge, senza fare preferenze. La grande tentazione del pastore è circondarsi dei “suoi”, dei “vicini”; e così, purtroppo, la reale competenza viene soppiantata da una certa lealtà presunta, senza più distinguere tra chi compiace e chi consiglia in maniera disinteressata. Questo fa molto soffrire il gregge, che sovente accetta senza esternare nulla. Il Codice di Diritto Canonico ricorda che i fedeli «hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa» (can. 212 § 3). Certo, in questo tempo di precarietà e fragilità diffusa, la soluzione sembra l’autoritarismo (nell’ambito politico questo è evidente). Ma la vera cura – come consiglia San Benedetto – sta nell’equità, non nella uniformità.[1]
Terza causa di amarezza: problemi tra noi
Il presbitero in questi ultimi anni ha subito i colpi degli scandali, finanziari e sessuali. Il sospetto ha drasticamente reso i rapporti più freddi e formali; non si gode più dei doni altrui, anzi, sembra che sia una missione distruggere, minimizzare, far sospettare. Davanti agli scandali il maligno ci tenta spingendoci ad una visione “donatista” della Chiesa: dentro gli impeccabili, fuori chi sbaglia! Abbiamo false concezioni della Chiesa militante, in una sorta di puritanesimo ecclesiologico. La Sposa di Cristo è e rimane il campo in cui crescono fino alla parusia grano e zizzania. Chi non ha fatto sua questa visione evangelica della realtà si espone ad indicibili e inutili amarezze.
Comunque i peccati pubblici e pubblicizzati del clero hanno reso tutti più guardinghi e meno disposti a stringere legami significativi, soprattutto in ordine alla condivisione della fede. Si moltiplicano gli appuntamenti comuni – formazione permanente e altri – ma si partecipa con un cuore meno disposto. C’è più “comunità”, ma meno comunione! La domanda che ci facciamo quando incontriamo un nuovo confratello, emerge silenziosamente: “chi ho veramente davanti? Posso fidarmi?”.
Non si tratta della solitudine: essa non è un problema ma un aspetto del mistero della comunione. La solitudine cristiana – quella di chi entra in camera sua e prega il Padre nel segreto – è una benedizione, la vera scaturigine dell’accoglienza amorevole dell’altro. Il vero problema sta nel non trovare più il tempo per stare da soli. Senza solitudine non c’è amore gratuito, e gli altri diventano un surrogato dei vuoti. In questo senso come preti dobbiamo sempre re-imparare a stare da soli “evangelicamente”, come Gesù di notte con il Padre.[2]
Qui il dramma è l’isolamento, che è altra cosa rispetto alla solitudine. Un isolamento non solo e non tanto esteriore – siamo sempre in mezzo alla gente –, quanto inerente all’anima del prete. Inizio dall’isolamento più profondo per poi toccarne la forma maggiormente visibile.
Isolati rispetto alla grazia: lambiti dal secolarismo non crediamo né sentiamo più di essere circondati da amici celesti – il “gran numero di testimoni” (cfr Eb 12,1) –; ci sembra di sperimentare che la nostra vicenda, le afflizioni, non tocchino nessuno. Il mondo della grazia ci è diventato a poco a poco estraneo, i santi ci sembrano solo gli “amici immaginari” dei bambini. Lo Spirito che abita il cuore – sostanzialmente e non in figura – è qualcosa che forse non abbiamo mai sperimentato per dissipazione o negligenza. Conosciamo, ma non “tocchiamo”. La lontananza dalla forza della grazia produce razionalismi o sentimentalismi. Mai una carne redenta.
Isolarsi rispetto alla storia: tutto pare consumarsi nel qui e ora, senza speranza nei beni promessi e nella ricompensa futura. Ogni cosa si apre e chiude con noi. La mia morte non è il passaggio del testimone, ma una interruzione ingiusta. Più ci si sente speciali, potenti, ricchi di doni, più si chiude il cuore al senso continuo della storia del popolo di Dio a cui si appartiene. La nostra coscienza individualizzata ci fa credere che nulla ci sia stato prima e nulla dopo. Per questo facciamo tanta fatica a prenderci cura e custodire quello che il nostro predecessore ha iniziato di buono: sovente arriviamo in parrocchia e ci sentiamo in dovere di fare tabula rasa, pur di distinguerci e marcare la differenza. Non siamo capaci di continuare a far vivere il bene che non abbiamo partorito noi! Iniziamo da zero perché non sentiamo il gusto di appartenere ad un cammino comunitario di salvezza.
Isolati rispetto agli altri: l’isolamento rispetto alla grazia e alla storia è una delle cause dell’incapacità tra noi di instaurare relazioni significative di fiducia e di condivisione evangelica. Se sono isolato, i miei problemi sembrano unici e insormontabili: nessuno può capirmi. Questo è uno dei pensieri preferiti dal padre della menzogna. Ricordiamo le parole di Bernanos: «Solo dopo molto tempo lo si riconosce, e la tristezza che lo annuncia, lo precede, come è dolce! È il più sostanzioso fra gli elisir del demonio, la sua ambrosia!».[3] Pensiero che a poco a poco prende corpo e ci chiude in noi stessi, ci allontana dagli altri e ci mette in posizione di superiorità. Perché nessuno sarebbe all’altezza delle esigenze. Pensiero che a forza di ripetersi finisce per annidarsi in noi. «Chi nasconde le proprie colpe non avrà successo, chi le confessa e le abbandona troverà misericordia» (Pr 28,13).
Il demonio non vuole che tu parli, che tu racconti, che tu condivida. E allora tu cerca un buon padre spirituale, un anziano “furbo” che possa accompagnarti. Mai isolarsi, mai! Il sentimento profondo della comunione si ha solamente quando, personalmente, prendo coscienza del “noi” che sono, sono stato e sarò. Altrimenti, gli altri problemi vengono a cascata: dall’isolamento, da una comunità senza comunione, nasce la competizione e non certo la cooperazione; spunta il desiderio di riconoscimenti e non la gioia di una santità condivisa; si entra in relazione o per paragonarsi o per spalleggiarsi.
Ricordiamo il popolo d’Israele quando, camminando nel deserto per tre giorni, arrivò a Mara, ma non poté bere l’acqua perché era amara. Di fronte alla protesta del popolo, Mosè invocò il Signore e l’acqua diventò dolce (cfr Es 15,22-25). Il santo Popolo fedele di Dio ci conosce meglio di chiunque altro. Sono molto rispettosi e sanno accompagnare e avere cura dei loro pastori. Conoscono le nostre amarezze e pregano anche il Signore per noi. Aggiungiamo alle loro preghiere le nostre, e chiediamo al Signore di trasformare le nostre amarezze in acqua dolce per il suo popolo. Chiediamo al Signore che ci doni la capacità di riconoscere ciò che ci sta amareggiando e così lasciarci trasformare ed essere persone riconciliate che riconciliano, pacificate che pacificano, piene di speranza che infondono speranza. Il popolo di Dio attende da noi dei maestri di spirito capaci di indicare i pozzi di acqua dolce in mezzo al deserto.
[1] Un secondo motivo di amarezza proviene di una “perdita” nel ministero dei pastori: soffocati da problemi gestionali e da emergenze di personale, rischiamo di trascurare il munus docendi. Il vescovo è il maestro della fede, dell’ortodossia e della “ortopatia”, del retto credere e del retto sentire nello Spirito Santo. Nell’ordinazione episcopale l’epiclesi viene pregata con l’Evangeliario aperto sulla testa del candidato e l’imposizione della mitria ribadisce esteriormente il munus di trasmettere non le credenze personali ma la sapienza evangelica. Chi è il catechista di quel discepolo permanente che è il prete? Il vescovo naturalmente! Ma chi lo ricorda? Si potrebbe obiettare che i preti non vogliono solitamente essere istruiti dai vescovi. Ed è vero. Ma questo – se anche fosse – non è un buon motivo per rinunciare al munus. Il santo popolo di Dio ha diritto di avere dei preti che insegnino a credere; e i diaconi e presbiteri hanno il diritto di avere un vescovo che insegni a sua volta a credere e sperare nell’Unico Maestro, Via, Verità e Vita, che infiammi la loro fede. Da prete non voglio che il vescovo mi accontenti, ma che mi aiuti a credere. Vorrei poter fondare in lui la mia speranza teologale! A volte ci si riduce a seguire solo i confratelli in crisi (ed è un bene), ma anche gli “asini in buona salute” avrebbero bisogno di un ascolto più mirato, sereno e fuori dalle emergenze. Ecco dunque una seconda omissione che può provocare amarezza: la rinuncia al munus docendi nei confronti dei preti (e non solo). Pastori autoritari che hanno perso l’autorità di insegnare?
[2] Si tratta di una solitudine a metà – diciamolo sinceramente –, perché è la solitudine del pastore che è carica di nomi, volti, situazioni, del pastore che arriva alla sera stanco a parlare col suo Signore di tutte queste persone. La solitudine del pastore è una solitudine abitata da risa e pianti delle persone e della comunità; è una solitudine con volti da offrire al Signore.