Proprio per ottenere l’obiettivo di incoraggiamento e di rafforzamento della fede, l’Apocalisse, in quanto «rivelazione di Gesù Cristo» è fondamentalmente celebrazione della Pasqua, inno liturgico e annuncio della risurrezione avvenuta.
La tradizione antica attribuisce la paternità dell’Apocalisse all’evangelista Giovanni e la riconosce nata all’interno della sua comunità, che ha il proprio ambiente geografico e culturale nella città di Efeso e nel suo territorio. La provincia romana d’Asia e il colto contesto efesino rappresentano dunque la cornice storica in cui si trova a vivere la Chiesa dell’ Apocalisse, la quale, nella seconda metà del I secolo d.C., sperimenta molte situazioni di conflitto verso l’ esterno ed anche al suo stesso interno.
I primi anni di vita della comunità cristiana non furono facili. L’annuncio della buona notizia di Gesù il Cristo era un fatto nuovo e originale, ma non per questo semplice e chiaro. Da subito gli uomini e le donne che avevano accolto la Notizia si trovarono di fronte a concrete vicende con cui dovettero fare i conti: incontrarono opposizione e rifiuto, derisione ed indifferenza, da parte dei Giudei e da parte dei Greci; vissero eventi storici grandiosi, quali la caduta di Gerusalemme e l’organizzazione della struttura rabbinica, che richiedevano una spiegazione nuova ed un comportamento adeguato; si imbatterono in difficoltà interne, quali divisioni e discussioni dottrinali, che domandavano soluzioni difficili da trovare.
Oltre alle rare informazioni della tradizione patristica, ricaviamo queste indicazioni dagli indizi presenti nello stesso libro dell’Apocalisse, soprattutto nelle lettere inviate alle sette Chiese (cc. 2-3), con cui l’autore vuole comunicare un messaggio pastorale alle comunità cristiane legate a lui: inevitabilmente esse riflettono la situazione storica e religiosa delle Chiese d’Asia verso la fine del I secolo d.C.
I difficili rapporti col mondo esterno
Sono due i principali interlocutori con cui il gruppo cristiano entra in conflitto: l’autorità romana, forte della cultura ellenistica, e le comunità giudaiche che rifiutano Gesù come il Cristo.
Fin dall’inizio dell’Apocalisse emerge il tema della difficoltà. Giovanni, infatti, si presenta alle Chiese, sottolineando la condivisione comunitaria che accomuna l’autore e i suoi fedeli: «lo, Giovanni, vostro fratello e solidale con voi nella sofferenza, nella regalità e nella pazienza in Gesù, venni a trovarmi nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù» (Ap 1,9). In quanto uniti a Gesù si trovano tutti sottoposti ad una pressione esterna, ma condividono anche una importante responsabilità regale e, soprattutto, hanno la capacità di sostenere la prova.
Proprio questa introduzione fa pensare che il soggiorno di Giovanni nell’isoletta di Patmos non sia volontario, ma obbligato da un’ autorità contraria; la tradizione patristica conosce una condanna dell’postolo al confino sull’isola e la causa di questa condanna è mostrata nella fedeltà alla rivelazione divina in Gesù Cristo ed all’attiva opera di testimonianza.
La politica romana. Giovanni scrive verosimilmente verso la fine del I secolo, cioè durante il regno dell’imperatore Domiziano (81-96), quando le scelte della grande politica romana stavano provocando vivaci reazioni nell’ambiente cristiano, a partire dagli ultimi anni del regno di Nerone (64-68): i grandi apostoli Pietro e Paolo erano già caduti vittime della giustizia imperiale. Non si può parlare di vere persecuzioni contro i cristiani, ma in molte parti dell’impero la vita della Chiesa si fa sempre più difficile e conosce vivaci opposizioni e ingiuste discriminazioni. Una questione molto pericolosa nasce con la tendenza di Domiziano ad intensificare il culto dell’ imperatore, che per la prima volta in quegli anni riceve il titolo di Deus et Dominus. Nella provincia d’Asia tale culto si sviluppa velocemente e nella città di Efeso viene subito innalzata una statua di Domiziano.
I cristiani si trovano imbarazzati di fronte a questo pericoloso aspetto della politica romana; sanno di dover compiere precise scelte di opposizione, ma si accorgono anche di rischiare seriamente. A Pergamo, ad esempio, famosa per il tempio dedicato ad Augusto e Roma, simbolo solenne del culto imperiale, è stato messo a morte il fedele cristiano Antipa (Ap 2,13); la citazione di un unico nome fa pensare ad un caso isolato, ma da molti altri particolari si può facilmente risalire ad un diffuso clima di convivenza difficile. La comunità cristiana comincia a presagire lo scontro tremendo con il potere imperiale romano.
Il paganesimo. Ma, in quest’epoca, il pericolo più grave è rappresentato dal paganesimo intellettuale e dalla cultura ellenistica molto diffusa nella zona di Efeso, soprattutto con connotazioni religiose di esoterismo e magia. Numerosi sono i filosofi e gli insegnanti popolari che nel colto ambiente efesino aprono scuole di pensiero e parlano comunemente di teologia, ma con un’impostazione che non si adatta affatto al vangelo di Gesù Cristo, valutato spesso come una «stoltezza per i Greci» (cf. 1Cor 1,22). Molte idee di questo ambiente vengono conosciute dai cristiani dell’ Apocalisse e non sempre essi sono in grado di valutarle e di respingerle; talvolta, forse spesso, si deve assistere a pericolose deviazioni dottrinali e a compromessi vergognosi con la cultura dominante, che riesce anche ad imporre le sue idee religiose, perché ha innanzi tutto conquistato le persone con il suo stile di vita agiato e consumistico.
Il giudaismo. Oltre alla politica romana e alla cultura greca, la comunità cristiana si trova in grave difficoltà di rapporti anche con il mondo giudaico, che proprio in quegli anni si stava riorganizzando intorno al gruppo dei farisei, unico superstite culturale dopo la caduta di Gerusalemme dell’anno 70. Perduto il tempio, il sacerdozio e la città santa, non rimaneva al giudaismo che la Torah: solo una ferma ortodossia legata alla Legge poteva garantire la sopravvivenza della religione ebraica. La rigida riorganizzazione del giudaismo ad opera dei rabbini farisei, iniziata negli anni 80-90, porta alla separazione netta e polemica con tutti quei Giudei che avevano accettato come Messia Gesù di Nazaret. Dopo decenni di convivenza e, forse, anche di equivoci, in questi anni si giunge ad un forzato chiarimento: i giudeo-cristiani devono fare una scelta, o da una parte o dall’altra. Qualunque sia la loro scelta, la parte che rifiutano li considera settari o scomunicati. Una forte tensione già esisteva fra le autorità giudaiche di Gerusalemme ed il nuovo gruppo cristiano; ne sono esempi drammatici le sentenze capitali inflitte ad importanti esponenti della Chiesa: Stefano nel 36, Giacomo di Zebedeo negli anni 40, Giacomo parente del Signore verso il 62. Ma alla fine del I secolo lo scontro viene allo scoperto e diventa feroce.
I due gruppi, entrambi forti nella zona di Efeso, si contrappongono nella vita di tutti i giorni: i cristiani devono subire emarginazione ed angherie a causa di Giudei che hanno un forte influsso sociale; ma, a loro volta, considerano la comunità giudaica «sinagoga di satana» (Ap 2,9; 3,9), nella linea della teologia giovannea che considera i Giudei, avversari di Gesù, come «figli del diavolo» (cf. Gv 8,44). Il popolo di Dio non si identifica con una etnia, ma comprende tutti coloro che riconoscono in Gesù il Figlio stesso di Dio ed unico salvatore del mondo: proprio per questa distinzione teologica, la comunità cristiana si differenzia nettamente dal giudaismo nell’interpretazione delle Scritture. I cristiani, infatti, danno vita ad una propria esegesi biblica e sono chiamati con forza a rileggere gli avvenimenti contemporanei alla luce della loro fede. Soprattutto la caduta di Gerusalemme si presenta come un evento decisivo, terribile e significativo, che chiede di essere interpretato: alla luce della precedente distruzione della città santa ad opera dei Babilonesi, la Chiesa cristiana riprende le interpretazioni antiche che vi leggono un intervento punitivo di Dio contro coloro che hanno tradito e violato l’alleanza, mentre prendono sempre più coscienza di essere il popolo della «nuova alleanza» che Dio ha scritto nel cuore dell’umanità (cf. Ger 31,31-33).
Insieme a questo fatto decisivo, che segna la separazione dal fariseismo giudaico, tutte le nuove scelte della comunità cristiana, siano liturgiche o esistenziali, richiedono chiarimenti e motivazioni, quindi rimandano ad una interpretazione delle Scritture.
I problemi all’interno della Chiesa
Non solo Romani e Giudei costituiscono un problema; anche all’interno della comunità cristiana esistono pericolose relazioni conflittuali. Gli studiosi che in questi anni si sono cimentati nella ricostruzione della comunità giovannea sono giunti a conclusioni diverse, ma tutti concordano nel riconoscere una varietà di sotto-gruppi in contrasto fra di loro. In mancanza di documentazione esterna, è comunque possibile riconoscere una situazione di forte tensione, che sta dietro (e forse causa) gli scritti giovannei. La terza lettera di Giovanni rivela la presenza di persone come Diotrefe, autorevoli nella comunità cristiana, che sono in contrasto con il Presbitero, la grande figura di maestro che è all’origine di tutte queste opere letterarie. Dalla prima lettera, inoltre, risulta anche chiaramente l’esistenza di un gruppo che si è separato dalla comunità per gravi divergenze dottrinali (cf. 1Gv 2,19): alcuni discepoli di Giovanni, membri della comunità, hanno contestato il maestro e, separandosi dalla sua comunità, sono divenuti sostenitori di una teologia cristiana ellenizzata e gnosticheggiante, che rifiuta la realtà dell’incarnazione e svaluta l’impegno del credente nella concretezza della carità.
Anche nelle lettere dell’ Apocalisse compare ripetutamente il problema di conflitti con gruppi ereticali: la questione fondamentale che emerge è la presenza dell’errore all’interno delle comunità cristiane. Si accenna talvolta ai Nicolaìti, come ad un gruppo distinto dalla comunità: la chiesa di Efeso è elogiata perché detesta le opere dei Nicolaìti, che anche il Cristo detesta (cf. Ap 2,6), mentre la comunità di Pergamo è rimproverata perché ha al proprio interno dei sostenitori della dottrina dei Nicolaìti (cf. Ap 2,15).
In che cosa consista questa dottrina non è detto chiaramente, ma attraverso altri rimproveri a persone che insegnano e compiono il male nelle comunità cristiane d’ Asia, si può ricostruire una particolare situazione. I cristiani di Pergamo, dove c’era il grande altare di Zeus, che Giovanni sembra identificare con il «trono di satana», hanno fra di loro eroi della fede come il martire Antipa, ma anche «sostenitori della dottrina di Balaam, il quale insegnava a Balak a mettere inciampi davanti ai figli d’Israele, incitandoli a mangiare carni immolate agli idoli e a darsi alla prostituzione» (Ap 2,14). Il riferimento simbolico ad un personaggio dell’ AT sembra colpire direttamente alcuni aspetti di un insegnamento perverso, relativo agli idolotiti e alla porneia, che sembra presente già nella comunità paolina di Corinto negli anni cinquanta.
Lo stesso tipo di errato insegnamento è sostenuto nella comunità di Tiatira da una persona che viene presentata da Giovanni con lo pseudonimo infamante di Gezabèle, l’antica regina idolatra che aveva traviato Israele e perseguitato il profeta Elia: «La donna che si dice profetessa e insegna e inganna i miei servi, incitandoli a darsi alla prostituzione e a mangiare carni immolate agli idoli» (Ap 2,20). I seguaci della sua dottrina sono ostinati e non vogliono convertirsi dall’atteggiamento che Giovanni definisce «prostituzione» e che noi possiamo intendere come sfacciato adattamento alla mentalità del mondo: essi pretendono di «conoscere le profondità di satana – come le chiamano» (Ap 2,24), ovvero dottrine esoteriche o rivelazioni segrete che rendono gli adepti indifferenti alle realtà concrete della vita, nel senso che possono fare tutto quello che vogliono.
Si può, pertanto, parlare di una diffusa mentalità di tipo giudeo-cristiano e gnostico insieme, una incipiente eresia per la quale gli elementi materiali sono insignificanti e quindi l’adattamento a tutti gli aspetti della vita pagana è visto come normale e giusto. Alcuni cristiani, non sappiamo se pochi o tanti, sono favorevoli a questa mentalità e professano un cristianesimo ellenizzato, mettendosi in disaccordo con l’insegnamento del grande maestro ed evangelista.
Giovanni, infatti, combatte decisamente a nome di Cristo tale mentalità, rimprovera le comunità tiepide e arrendevoli, elogia quelle fedeli e decise; tutte esorta alla costanza e alla coerenza. È facile dedurre da tale insistenza una situazione ecclesiale alquanto instabile, con la presenza preoccupante di cristiani tiepidi e insicuri, paurosi e incoerenti, indecisi e inclini al compromesso.
L’ambiente liturgico
In questa difficile situazione il libro dell’Apocalisse appare come un’autentica opera di nuova evangelizzazione, cioè l’annunzio del messaggio evangelico ad una comunità che è già cristiana, ma per disparati motivi entra in crisi di fronte a gravi novità che la sconvolgono. Tale opera trova nella celebrazione liturgica il suo proprio ambiente vitale che ne illumina il contenuto e ne chiarisce il senso, dal momento che è proprio l’assemblea liturgica la protagonista attiva di tutta l’esperienza che il libro vuole comunicare.
Nella liturgia, dunque, il gruppo di ascolto si impegna a leggere ed interpretare la propria storia nella luce del Cristo risorto: la comunità è invitata ad entrare nelle visioni proposte, a comprenderne il senso e ad applicarlo concretamente alla propria realtà. Possiamo così affermare che il libro dell’Apocalisse rappresenta l’impegno di comprensione della storia da parte di una comunità cristiana che nelle proprie assemblee liturgiche celebra la vittoria di Dio realizzata nell’ evento storico di Gesù, culminato nel suo esodo pasquale di morte e risurrezione: al punto che si potrebbe definire una specie di «haggada pasquale cristiana». Proprio per tale riferimento teologico, molto spesso le visioni riproducono scene di liturgia celeste: le immagini dell’ antico culto di Israele, infatti, ritenute «un’ombra e una copia delle realtà celesti» (Eb 8,5), sono adoperate come figura della realtà e le celebrazioni che vengono descritte nel cielo mirano a spiegare il compimento reale delle antiche figure. Tutto l’antico patrimonio liturgico della Bibbia diventa lo sfondo ideale per descrivere il mistero della salvezza operato da Dio in Gesù Cristo.
L’Apocalisse, quindi, in quanto opera radicata nella liturgia, è essenzialmente celebrazione del mistero pasquale, evento fondamentale che costituisce la chiave di lettura ed il principio dinamico di una storia totalmente nelle mani di Dio. Per questo l’opera è idealmente collocate «nel giorno del Signore» (1,10): giorno escatologico dell’intervento di YHWH, memoriale della Pasqua di Gesù, domenica della settimana, giorno della comunità cristiana che celebra la risurrezione di Cristo. Nel giorno di domenica l’assemblea liturgica incontra il Cristo risorto (è questo il senso della prima visione: 1,9-20), vive l’esperienza dello Spirito e comprende attivamente il senso della propria storia. Per questo l’opera è ricca di canti festosi, a differenza di molte altre apocalissi, piene di pianti e lamenti.
Inserite in questa dimensione orante, le pagine dell’Apocalisse non si presentano più come l’artificiosa descrizione di una realtà inaccessibile e strana, enigma stravagante per esegeti fantasiosi; mostrano invece la riflessione corale di una comunità che riconosce il dono della propria vita nuova, frutto dell’intervento «escatologico» del Messia, si impegna per riconoscere nel difficile presente la sua opera di Signore universale e anela al compimento finale, quando il suo dominio apparirà nella pienezza della sua forza salvifica.
L’esperienza di Patmos: momento scatenante
Il contesto «domenicale» dell’ Apocalisse è strettamente connesso con il soggiorno di Giovanni a Patmos: l’aspetto luminoso della vittoria di Cristo è infatti unito alla dimensione sofferente della situazione contingente in cui si trova a vivere la Chiesa. Come spiegare la presenza dell’autore su quest’isola?
E in quali anni collocarlo?
L’informazione più antica ci viene da Ireneo, che data l’Apocalisse «alla fine del regno di Domiziano» (Contro le eresie, V, 30,3). Domiziano regnò fino al 96 e tale data non è troppo tardiva, dal momento che lo stesso Ireneo afferma per due volte che Giovanni, il discepolo del Signore, visse fino al tempo di Traiano (98-117). Lo storico Eusebio conferma questa data:
«Dopo Domiziano, che regnò quindici anni, ottenne l’impero Nerva. Per una legge del Senato romano furono allora abrogati tutti gli odiosi decreti di Domiziano e quelli che erano stati ingiustamente esiliati rimpatriarono e ricuperarono tutti i loro beni. Questo ci raccontano gli storici, che hanno descritto gli avvenimenti dell’epoca. Così, secondo una tradizione tramandata dai nostri antenati, anche l’apostolo Giovanni dall’isola della sua relegazione ritornò al domicilio di Efeso» (Storia Ecclesiastica III,20,8-9).
Eusebio, inoltre, nella sua Cronaca colloca l’esilio a Patmos e la composizione dell’Apocalisse nel 14° anno di Domiziano, cioè nell’anno 94/95.
Il testo stesso non dice quando, ma esprime il motivo per cui Giovanni si trova nell’isola: «Per (dià) la parola di Dio e la testimonianza di Gesù» (Ap 1,9b). Con tale espressione non viene indicato il fine per cui si è recato a Patmos, ma piuttosto la causa che lo ha costretto sull’isola: questo, infatti, è il senso comunemente inteso dalla tradizione antica.
Probabilmente l’isola di Patmos veniva usata dai Romani come bagno penale: il diritto penale romano conosceva bene la deportatio in insulam, ma il semplice confino era una pena riservata alle grandi personalità; se Giovanni era considerato un personaggio illustre, allora può essere stato condannato al confino; ma in caso contrario deve essersi trattato di una condanna ai lavori forzati o, quanto meno, alla detenzione in isolamento.
Questa data tradizionale da alcuni studiosi non viene accettata e, sulla base di presunti riferimenti a situazioni storiche anteriori, viene ipotizzata un’altra data di composizione. Il periodo che questi autori, in genere, ritengono più congeniale per la prima stesura dell’Apocalisse è il momento della crisi neroniana, con la prima violenta persecuzione anti-cristiana nel 64, la caduta di Nerone ne168 e la crisi dell’anno 69 con il rapido succedersi di quattro imperatori.
In ogni caso è difficile immaginare nell’ambiente e nella situazione di Patmos la reale stesura dell’opera apocalittica: forse il dramma del confino sull’isola ha offerto l’ambientazione propizia per la riflessione cristiana sul senso della storia. Infatti la stessa indicazione iniziale «mi trovai nell’isola chiamata Patmos» (Ap 1,9) permette di dedurre che, nel momento della stesura letteraria, l’autore non si trovi più sull’isola. È quindi possibile distinguere due tipi di date: quella dell’esperienza mistica a Patmos e quella della composizione letteraria definitiva. Con un po’ di fantasia possiamo immaginare un precedente, forse lungo, lavoro comunitario e liturgico che, nel momento della condanna sotto Domiziano, ha trovato la sua autenticazione e nel periodo seguente ha portato rapidamente alla stesura del testo definitivo. Oppure, datando il confino sull’isola alla fine del periodo neroniano, si può immaginare che le intuizioni avute in quell’occasione siano maturate nella riflessione liturgica, portando lentamente alla composizione letteraria verso la fine del primo secolo.
Un pressante invito alla resistenza
Per esprimere il messaggio cristiano ad una comunità in difficoltà Giovanni ha scelto il genere letterario apocalittico, perché ai suoi tempi si presentava come uno strumento conosciuto e largamente diffuso, spesso adoperato per consolare i fedeli in momenti di travaglio, per spiegare il senso degli avvenimenti e per rinforzare la speranza in tempi migliori.
I modelli letterari e simbolici a cui si ispira l’ Apocalisse sono costituiti dai libri biblici dell’AT: ma fra tutti emergono Ezechiele e Daniele.
Come il profeta Ezechiele in esilio, Giovanni sperimenta la presenza potente di Dio che lo chiama ad essere profeta per proclamare la fine della città corrotta e annunciare la costruzione di una nuova Gerusalemme ad opera di Dio: il maestro cristiano, infatti, vede la distruzione della città santa ad opera dei Romani come il segno della fine dell’antico mondo rovinato dal male e giudicato da Dio, mentre la comunità cristiana gli appare come l’immagine della nuova realtà, resa possibile dall’intervento escatologico di Dio in Cristo.
La situazione in cui nacque il libro di Daniele, inoltre, è per molti tratti simile a quella dell’Apocalisse e tale somiglianza ne spiega gli stretti rapporti. La comunità dei fedeli, durante la persecuzione di Antioco IV Epifane (167-164 a.C.), si era trovata di fronte ad una situazione tragica: un tiranno prepotente ne minacciava la fede, la città santa ed il suo tempio erano profanati, le autorità religiose di Israele corrotte e conniventi con il potere avversario non davano nessun affidamento; solo un piccolo gruppo di devoti si opponeva al nemico per difendere la fede, appoggiandosi unicamente alla potenza di Dio. Le visioni di Daniele miravano appunto a confortare questi fedeli e ad incitarli nella resistenza, assicurando loro un imminente intervento divino.
Alla fine del I secolo d.C. 9iovanni si accorge che la sua comunità sta vivendo una situazione storica molto simile a quella dei chassidim dell’epoca maccabaica: è minacciosa l’ombra del tiranno romano che pretende di essere adorato come una divinità, il fascino della cultura pagana conquista molti fedeli, mentre Gerusalemme non esiste più e la classe dirigente di Israele è ormai decisamente contraria al gruppo cristiano. Se il dramma della storia si ripete, deve anche ripetersi la coraggiosa testimonianza dei fedeli, con la loro resistenza pacifica, fondata unicamente sulla fiducia in Dio. Un punto molto importante, però, distingue la visione teologica di Giovanni dagli apocalittici del giudaismo: essi, infatti, attendevano per il futuro l’intervento decisivo di Dio e lo annunciavano imminente; mentre la comunità giovannea afferma con solennità che l’intervento decisivo e definitivo di Dio nella storia si è già realizzato con Gesù di Nazaret, morto e risorto, Signore della storia, vivo nella sua Chiesa.
In questa prospettiva teologica il profeta Giovanni affronta la concreta e difficile situazione della sua comunità, alle prese con la tentazione idolatrica del sincretismo. L’autore, infatti, vede un pericoloso collegamento fra struttura imperiale e benessere materiale: il culto all’imperatore significa gratitudine al «benefattore» che garantisce una vita agiata e la struttura sociale delle corporazioni legate alla religiosità ellenista comporta anche per i cristiani la necessità di partecipare ai banchetti idolàtrici. Rompere con questa situazione significa mettersi contro il regime dominante e, quindi, escludersi dal commercio e dal profitto. Se i Nicolaìti optano per il compromesso finalizzato al benessere, Giovanni invece esorta con tutte le forze alla coerenza impegnata e loda la povertà come conseguenza di coraggiosa astensione dagli idoli. L’Apocalisse, pertanto, può essere vista come un pressante invito alla resistenza nei confronti dello stile di vita molle e decadente del consumismo romano.
Giovanni comunica un messaggio di assoluta emergenza e dà il segnale di un grave e immediato pericolo, lasciando trasparire anche lo stato d’animo della trepidazione: egli insiste perché teme di essere poco ascoltato, invita alla sapienza perché le scelte dei cristiani, spiritualmente mediocri, non erano guidate dalla fedeltà al vangelo di Cristo, esorta alla costanza, perché dovevano essere comuni i casi di defezione; non invita tuttavia a ritirarsi dal mondo, ma piuttosto ad una coerenza convinta, anche fino alla morte. L’Apocalisse, dunque, mira a infondere speranza in mezzo alla persecuzione e a rilanciare l’impegno morale dei cristiani, non lasciandosi vincere dalla tentazione del sincretismo e del compromesso.
Proprio per ottenere questo obiettivo di incoraggiamento e di rafforzamento della fede, l’ Apocalisse, in quanto «rivelazione di Gesù Cristo» (Ap 1,1), è fondamentalmente celebrazione della Pasqua, inno liturgico e annuncio della risurrezione avvenuta, evento centrale della storia di salvezza, anello di congiunzione fra l’inizio e la fine, passaggio necessario dalla maledizione del peccato alla benedizione della vita con Dio.