Papa Francesco ha lanciato un messaggio forte e profetico nell’udienza dell’11 agosto scorso, quando, commentando la lettera ai Galati di Paolo (3, 19) ha risposto con la prospettiva dell’Apostolo alla domanda sul senso della Legge. C’è chi ha voluto interpretare le parole del Vescovo di Roma in senso ostile rispetto alla fede e alla religione ebraica. A tal proposito mi viene in mente il bel libro (peraltro apprezzato da Joseph Ratzinger) del rabbino statunitense Jacob Neusner, Un rabbino parla con Gesù (San Paolo 2007).
Il protagonista, dopo aver ascoltato il Discorso della montagna nella versione matteana (che si rivolge proprio a una comunità giudeo-cristiana), decide di tornarsene a casa e di non seguire il maestro di Galilea, perché, a suo avviso, egli sovverte la Legge e si mette al posto di Mosè, anzi addirittura di Dio stesso. La presa di distanza del rabbino dal Nazareno avviene per il profondo amore e il radicamento indissolubile nella propria tradizione.
Così come, nelle recenti prese di posizione da parte ebraica verso quanto affermato dal Papa, non si può non leggere un’adesione appassionata e fedele al proprio credo. Tale posizione, come quella espressa dall’apostolo all’inizio del cristianesimo e da papa Francesco nell’oggi della storia va inquadrata e interpretata nell’orizzonte della fedeltà di Dio all’alleanza col suo popolo, che non è e non sarà mai revocata. Pertanto la fede cristiana autentica è ben lungi dal ritenere obsoleta la fedeltà ebraica al Dio della Torah. La catechesi del Papa, infatti, ha posto l’accento proprio sull’Alleanza che precede la Legge, di cui le Dieci parole (comandamenti) costituiscono le clausole, ma non l’essenza della relazione fra Dio e il popolo. Obsolete, caso mai, sarebbero le dieci indicazioni pratiche se fossero staccate dall’Alleanza da cui si sono originate. Inoltre, nel quadro propriamente paolino, l’alleanza fondamentale è quella abramitica, cui segue, non solo cronologicamente, la sinaitico-mosaica. In questa seconda prospettiva, nulla sarà perduto della Legge («In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto» – Mt 5, 18) e la Torah viene trasformata e certo anche superata nell’amore del Dio di Gesù Cristo, che è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.
Da questo punto di vista possiamo rileggere anche le profezie di quello che per noi è l’Antico Testamento e per i fratelli maggiori l’Unico Testamento, nelle quali rinveniamo diversi luoghi ove si esprime il distacco e la distanza da un’ossequio meramente formalistico della legge e del culto, che vanno innestati nel ‘cuore’ dell’uomo (Gr 31, 33). Un distacco che progressivamente si è andato realizzando fino a compiersi nell’insegnamento di Gesù e di Paolo.
Il pensatore francese Jean-Luc Nancy, scomparso di recente, ci ha insegnato a «dare corpo alle differenze» e credo che la disputa di questi giorni abbia consentito proprio un processo nel quale, insieme alla comune radice, che ci porta («Non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te» – Rm 11, 18 – parola di Paolo ripresa da quel grande pensatore ebreo che è stato Franz Rosenzweig), si è segnata una distanza, che non impedisce, ma dovrebbe favorire il dialogo, esponendosi anche al fraintendimento, ma nel riconoscimento della dignità e comune appartenenza al popolo che Dio ha chiamato e con cui si è voluto alleare. «Andiamo per il nostro popolo!», disse Edith Stein alla sorella mentre entrambe affrontavano il martirio a causa della loro fedeltà alla Torah, mai rinnegata anche nella conversione cristiana.