“Nelle città di questi popoli… non lascerai in vita alcun essere che respiri, ma li voterai allo sterminio” (Dt 20,16-17). “Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, mettiti con lui ad aiutarlo” (Es 23,4).
Tra questi due estremi si muove la legge giudaica, disegnando l’agire dell’uomo come un arco che oscilla tra due opposti: lo sterminio (cherem) dei nemici, estendendo il concetto di nemico anche alle donne e ai bambini, e perfino agli animali, e invece l’aiuto generoso, che destruttura il concetto stesso di nemico. Talvolta la guerra appare come soluzione, altre volte è essa stessa il problema.
Conosciamo le violenze del Primo Testamento. Quelle che Dio condanna non sono motivo di sorpresa. Siamo invece esterrefatti di fronte a quelle commesse per obbedire a Dio. La conquista di Canaan è il caso più tipico. Da altre narrazioni sappiamo che storicamente lo sterminio non ebbe luogo, che Israeliti e Cananei rimasero a lungo mescolati e che Gerusalemme, enclave cananea, fu conquistata da Davide più di due secoli dopo. Tuttavia l’ordine di uccidere rimane.
Per capire dobbiamo lasciare che il libro ci accompagni, lasciar parlare lo scandalo della violenza, senza rimuoverla o negarla, tantomeno giustificarla come appartenente a una fase remota della rivelazione d’Israele.
Se l’ispirazione profetica va chiaramente verso l’annullamento della violenza, nella storia è difficile registrarne una progressiva attenuazione: le guerre dei Maccabei sono tra le più sanguinose.
Di fronte allo scandalo, esiste una serie di risposte di ordine storico-critico la cui affermazione principale si può riassumere così: l’ordine di sterminio non è un comando di Dio, non è inserito dentro gli schemi biblici delle rivelazioni.
Redatte sei o settecento anni dopo gli eventi che narrano, le regole della guerra trasmettono non un ordine del Signore, neppure un resoconto storico, ma una ricostruzione dei redattori, un gruppo di leviti nazionalisti che, al tempo della riforma del re Giosia (VI secolo a.C.), intendono legittimare il possesso di quella terra e fondare storicamente una pretesa teocratica.
Il tipico intervento di Dio nella storia d’Israele non agisce come aumento della potenza militare, ma come capovolgimento inatteso; non giunge nella consequenzialità degli eventi ma negli interstizi, nei tempi di crisi, e non come vittoria del più forte e del meglio armato, bensì come successo insperato del debole, come forza della fragilità (si vedano le storie dei Giudici, Davide e Golia, Giuditta e Oloferne). Nella storia di Israele Dio appare dalle brecce, là dove si interrompe la logica degli eventi: non nell’arte della guerra ma come alternativa frutto di una nascita miracolosa (Sansone), della bellezza di una donna (Giuditta), della fionda di un pastore (Davide).
Ma perché la storia della salvezza percorre un cammino così difficile, oscillando tra seduzioni di violenza? Perché la salvezza è un tragitto incompiuto, che avanza e progredisce in Israele attraverso i secoli, ma che ricomincia anche da capo in ogni epoca. L’evoluzione è chiara, ma riparte a ogni stagione, con ogni uomo, dentro le fessure della storia personale, tra continuità e discontinuità. Se la Bibbia fa scandalo, è uno scandalo che palesa la verità sull’uomo: le sue tentazioni, le sue immagini deformate di Dio, l’amore per la forza, le scelte difficili.
Il tragitto si compie in Gesù: neanche dalla sua storia la violenza è rimossa, né quella contro di lui, né quella che potrebbe scatenarsi in sua difesa se egli stesso non vigilasse. La storia subisce un’accelerazione: Gesù intende superare il concetto stesso di nemico, perché una società fondata sul concetto di nemico non è una civiltà, ma una barbarie. Per lui la pace conta più della vittoria, e la vittoria non è sul nemico ma sull’inimicizia. Gesù riesce a immaginare un nemico amato. È la vittoria assoluta.
La Bibbia ci accompagna lungo un arco completo, dalle violenze commesse dal popolo alla violenza subita dal Messia. Una cosa resta impressa in modo indelebile: l’eccesso come costante. L’eccesso d’ostilità trova risposta adeguata solo in un eccesso d’amore.
Il Dio che aveva preso atto della violenza dell’uomo non ha potuto cominciare a sopprimerla che venendo non a giudicarla, ma a sottomettervisi. È nella violenza attraversata e perdonata che risiede il massimo grado di mitezza, fino all’inaudito, se a sopportarla è Dio stesso. Così Gesù inaugura l’accelerazione della storia: Dio stesso attraversa la violenza, per convertirla dall’interno, rivelando che l’amore è più forte della morte.
E risplende la dolcezza di Dio, più forte della sua forza.