Si intitola «L’eredità di san Tommaso d’Aquino», l’articolo della “Civiltà Cattolica”, a firma del padre gesuita Ottavio De Bertolis, che qui anticipiamo con alcuni brani. Il modo in cui san Tommaso ha fatto interagire la Scrittura con la cultura del proprio tempo rimane ancora oggi un punto di riferimento nel dibattito sul rapporto tra fede e cultura. Nel quaderno 4173 della rivista, da poco disponibile, interventi sulle elezioni europee, la guerra a Gaza, Davos 2024 e la seconda sessione del Sinodo.
Quando riceviamo un’eredità, possono accadere molte cose, e molto diverse: possiamo, al limite, anche ignorare di averla, e così altri la incamerano al posto nostro (…). Così è anche per l’eredità di san Tommaso d’Aquino, in questo 800° anniversario della sua nascita. Siamo di fronte a un gigante del pensiero, dal quale ci separano però secoli di storia, civile ed ecclesiale. La sua riflessione si è infatti spinta a ogni angolo dello scibile umano, perlomeno di quell’epoca, e innumerevoli sono gli autori che in ogni tempo e fino ai nostri giorni si sono riferiti a lui, mostrando la perenne vitalità del suo slancio intellettuale e prolungando la capacità espansiva delle sue intuizioni e del suo ragionamento.
A volte il suo pensiero è stato rispettato e custodito, sviluppandolo rettamente, e altre volte invece è stato intorbidito, irrigidendolo in schemi piuttosto ideologici, con un tomismo come dottrina «ufficiale», dietro la quale però rimaneva poco dell’autentico pensiero tommasiano. La storia della recezione del pensiero di Tommaso, anche quando è stato distorto, è interessante tanto quanto la storia degli effetti del suo apporto autentico: si può davvero dire che egli rimane un autore assolutamente imprescindibile per chiunque voglia affrontare non soltanto il pensiero medievale, ma anche quello moderno e postmoderno, fornendo egli chiavi di lettura critica ancora oggi legittimamente proponibili. (…)
Più importante di tutte le eredità che Tommaso ci ha lasciate rimane tuttavia un altro aspetto della sua opera, la sfida che egli ha affrontato: l’elaborazione di una cultura cristiana, tanto necessaria anche per il nostro tempo. Naturalmente, egli qui si colloca sulla scia dei Padri della Chiesa e dei grandi dottori precedenti: in primis, di sant’Agostino. E tuttavia la sua opera acquista un significato ben più peculiare della loro. I santi Padri infatti elaborarono una cultura cristiana sulle rovine del mondo antico, cioè pagano, e gettarono così le basi per quella cristianità, cioè l’Europa, che doveva nascere dal collasso del vecchio mondo, fondendo in unità l’eredità dei tre colli portanti del mondo antico: il Partenone, il Campidoglio e il Golgota. In questo senso la loro opera è stata autenticamente creatrice di cultura e determinante per l’identità stessa di noi europei di oggi.
Tommaso invece scrive in un’epoca, il Duecento, nella quale, per la prima volta dopo secoli, vediamo irrompere nel continente una dottrina completa e sistematica, quella aristotelica, che fornisce una visione totale e perfetta del mondo, dell’uomo, della città, e che prescinde assolutamente da Dio, sufficiente a sé stessa. Il pericolo di una completa laicizzazione del pensiero, come potremmo dire oggi, era reale. Non regnat Spiritus Christi ubi dominatur spiritus Aristotelis, affermava Assalonne di san Vittore, e in effetti nelle Università – questa creazione tardomedievale, così diversa dalla precedente scuola cattedrale e capitolare e dal sistema del trivio e del quadrivio, ereditato dalla scuola antica – si incominciava a respirare quello spirito così innovativo e pericoloso.
La Chiesa avrebbe potuto chiudersi, arroccandosi a difesa di un passato ormai irrecuperabile, lamentando, con Guglielmo di Sant’Amore, i pericoli di questi «ultimissimi tempi». San Tommaso raccolse questa sfida: egli non battezzò Aristotele, come si sente a volte affermare, e questo per noi significa che, in quanto intellettuali, non dobbiamo battezzare chi non vuole essere battezzato. Piuttosto, egli capì Aristotele per quel che diceva, ed espresse il proprio pensiero in termini aristotelici, non ripetendo quanto lo Stagirita asseriva, ma creando, attraverso l’interazione tra Vangelo e testi antichi, un pensiero nuovo. Così, ad esempio, egli oltrepassa la categoria della sostanza, criterio esplicativo del reale sufficiente per Aristotele, attraverso la mediazione del testo dell’Esodo: «Io sono Colui che sono» (Es 3,14), che diventerà la chiave per l’elaborazione della sua metafisica, l’actus essendi, l’«atto di essere» ulteriore e fondante le singole, episodiche esistenze create.
In tal modo si possono mettere in evidenza al tempo stesso i germi del Vangelo – i semina Verbi –, presenti in ogni cultura, e l’autentica sete di Assoluto che essa esprime in chi tradizionalmente, e forse superficialmente, è visto come «lontano». Tuttavia si è anche in grado di capire perché costui non giunse, né poteva giungere, a esso. Uno dei motivi dell’incredulità contemporanea è infatti la scarsa porosità, o reciproca comunicazione, dei vari ambiti della riflessione umana con la fede stessa e con il linguaggio della Chiesa, in un mondo che così è diventato ormai schermato gli uni agli altri: per questo infatti a molti sembra che non si possa essere cristiani e uomini colti al tempo stesso, dovendo quasi scegliere tra essere abitatori del proprio tempo o nostalgici di una realtà che fu. Contribuire a ristabilire questa comunicazione, un vero dialogo tra culture, è invece fonte inesauribile di ricchezza per ogni comunità e sembra essere una priorità dei nostri tempi. Lo affermava già Paolo VI: «La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture. Esse devono essere rigenerate mediante l’incontro con la Buona Novella. Ma questo incontro non si produrrà se la Buona Novella non è proclamata».
Al contrario, il mondo moderno trova la propria cifra in Cartesio, il quale, all’inizio del suo Discorso sul metodo, dopo aver narrato la confusione in cui si trovava dopo aver frequentato tante e così diverse scuole, un giorno prese la decisione di intraprendere una nuova strada. Da qui inizierà un modo nuovo di rapportarsi all’esperienza, partendo dal soggetto. Il senso dell’unicità, dell’individualità e dell’irripetibilità della propria esperienza, già esaltato da Lutero con il libero esame delle Scritture e con la sottovalutazione della mediazione ecclesiale, trionferà successivamente, nella visione storicistica post-hegeliana, nella pretesa di ognuno di costituire in quel momento la vetta storica del pensiero, la manifestazione più matura dello spirito. Nel mito della storia come progresso si annida la presunzione che essa culmini nella propria interpretazione di essa o, nel linguaggio banale delle scuole, nello stato attuale della questione: la storia culmina nella propria storia. Alla supponenza dell’«io penso» preferiamo la gratitudine per quanti hanno pensato prima di noi. Non per ripeterli, ma per capirli e rigenerare così le loro intuizioni in un mondo anche molto diverso dal loro. Un’eredità che continua senza fine.