La terza e ultima predica di Avvento di padre Pasolini dedicata al tema della «piccolezza». La grandezza di Dio è l’umiltà di andare incontro all’umanità

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Il Natale del Figlio di Dio, Lui che in principio era il Verbo e che si fa piccolo e fragile come un infante che ancora non parla: la forza, anzi la grandezza della piccolezza è racchiusa tutta qui. Lo ha sottolineato il predicatore della Casa pontificia Roberto Pasolini nella sua terza e ultima meditazione d’Avvento, proposta alla Curia romana questa mattina, venerdì 20 dicembre, in Aula Paolo vi . L’argomento scelto per le tre riflessioni è “Le porte della speranza. Verso l’apertura dell’Anno Santo attraverso la profezia del Natale”.

La misura nascosta

Dopo essersi soffermato — nelle prime due prediche del 6 e del 13 dicembre — sulle porte dello stupore e della fiducia, oggi il sacerdote cappuccino ha esortato ad attraversare la soglia «della piccolezza»: chiave di accesso del Regno di Dio, essa non è un limite o una mancanza, ma è forza «umile e silenziosa» come quella del seme che, nel buio della terra, germoglia e cresce. Misura nascosta della vera grandezza di Dio, Colui che con fiducia si abbassa a livello dell’altro per accompagnarlo nella crescita, la piccolezza è «parametro» del Signore, è «il luogo in cui le Sue scelte e promesse possono realizzarsi», nonché «una scelta consapevole», guidata dal «desiderio di creare relazioni autentiche, dove si riconosce all’altro il diritto di esistere, respirare ed esprimersi liberamente». In tal senso, essere piccoli significa aprire «spazi di incontro, permettendo a ciascuno di essere sé stesso senza sovrapporsi all’altro o annullare la sua unicità».

Per approfondire questo tratto più delicato e decisivo di Dio, padre Pasolini ha offerto una rilettura attenta e nuova della parabola del giudizio finale, narrata dall’evangelista Matteo (25, 31-46): nell’accezione più consolidata, il testo afferma che, alla fine dei tempi, il Signore giudicherà l’umanità secondo il parametro dell’amore fraterno. Ma nel suo significato più profondo, ha spiegato il predicatore, la parabola dice che un giorno tutti i popoli, anche quelli non evangelizzati, potranno entrare nel Regno di Dio «attraverso la carità esercitata verso i fratelli più piccoli del Signore».

Da ciò deriva «una grande e grave responsabilità per i cristiani»: la necessità non solo di «fare del bene agli altri», ma anche di «consentire agli altri di farlo, esprimendo così il meglio della loro umanità» e facendo della piccolezza «il criterio di conformità e di fedeltà» a Dio. Il primo significato della parabola del giudizio universale, ha ribadito padre Pasolini, è dunque proprio questo: «Prima di fare del bene, è bello e necessario ricordarsi di farsi (più) piccoli».

Un atto di evangelizzazione

Dio infatti — ha aggiunto il francescano cappuccino — non desidera solo che i suoi figli sappiano amare, ma anche che sappiano lasciarsi amare dagli altri, offrendo loro «l’occasione di essere buoni e generosi». Si tratta di un modo di amare «più profondo», ha continuato padre Pasolini, in quanto lascia il posto all’altro per consentire alla sua umanità di «manifestarsi nel modo migliore». In sostanza, si ama il prossimo soprattutto quando ci si accosta a lui «con disarmante mitezza» e gli si consente di «incontrare e accogliere la nostra fragilità», mettendo in pratica «l’arte più difficile che non è amare, ma lasciarsi amare». Intesa quindi come «stile di vita» e di umanità estremamente generativo, la piccolezza diventa «atto di vera evangelizzazione», perché mette l’altro nella condizione di incarnare i gesti dell’amore fraterno.

Come esempio di tutto ciò, padre Pasolini ha citato san Francesco d’Assisi che fece della piccolezza «il criterio di sequela» del Signore e «parte della nostra identità più profonda». Ciò accadde, in particolare, nell’incontro tra il Poverello e il sultano Malik-al-Kamil: dopo quel dialogo, quest’ultimo non si convertì, ma comunque accolse Francesco e lo accudì, cogliendo l’occasione, offertagli dal santo, di esprimere il meglio di sé. «I cristiani non hanno il “monopolio” del bene», ma devono permettere anche agli altri di praticarlo.

Il predicatore si è soffermato, poi, su un altro aspetto fondamentale della parabola del giudizio universale: essa, ha affermato, invita a sospendere tutti i giudizi umani che si tendono a dare prima del tempo, ovvero prima del giudizio finale del Signore. Per questo, ha aggiunto, più che della parabola del «giudizio universale», bisognerebbe parlare della parabola «della fine di ogni giudizio», perché se smettiamo di giudicare il prossimo — cosa che non spetta a noi —, allora potremo concentrarci su ciò che conta davvero: essere sempre «più gratuiti, uscendo dalla logica “economica” per cui facciamo le cose in vista di un ritorno».

La gratitudine non si compra

Restando lontana da aspettative e dinamiche opportunistiche, l’umanità riuscirà a percorrere l’unica, vera strada: quella di «una completa gratuità», smettendo di compiere quei gesti con cui tende a comprare la gratitudine degli altri e uscendo dall’abitudine del confronto con la quale misura la propria statura. Solo in questo modo, ha evidenziato ancora padre Pasolini, sarà possibile aprirsi a «una felicità profonda e concreta», superando la paura di non valere niente e cominciando a donare sé stessi, «permettendo agli altri di fare altrettanto con noi».

Valore del bene inconsapevole

È «il bene inconsapevole», perciò, la vera chiave per entrare nel Regno di Dio, quel bene che avremo fatto senza rendercene contro, ma che gli altri sapranno riconoscere. Allora, alla fine dei tempi — ha rimarcato il predicatore — la «grande sorpresa» sarà scoprire che Dio «non aveva alcuna aspettativa su di noi, se non il grande desiderio di vederci diventare simili a Lui nell’amore». Quel giorno, non conterà «la quantità di azioni buone o cattive compiute, ma se, attraverso di esse, saremo riusciti ad accettare e a diventare noi stessi fino in fondo».

In prossimità del Natale e del Giubileo, infine, padre Pasolini ha invitato a «scegliere di incarnare la piccolezza per condividere la speranza del Vangelo» in un mondo che sembra «ostile o indifferente», ma che in realtà attende solo di incontrare «il volto misericordioso del Padre nella carne fragile, ma sempre amabile, dei suoi figli».

«Attraversare la porta santa del Giubileo con grande sincerità — ha ribadito —, senza la preoccupazione di dover esibire un profilo diverso da quello che la Chiesa ha saputo maturare lungo i secoli, potrebbe essere davvero una grande speranza».

La meditazione si è conclusa con la preghiera per l’Anno Santo, affinché la grazia del Signore trasformi gli uomini in «coltivatori operosi dei semi evangelici», nella «attesa fiduciosa dei cieli nuovi e della terra nuova».