Nella seconda meditazione di lunedì 2 marzo, agli esercizi spirituali in corso ad Ariccia, padre Bovati è partito dalla figura di Mosè per spiegare cosa significhi essere chiamati. Mosè è un pastore ed è un servo. Non ha consapevolezza che passerà da occuparsi del gregge di suo suocero Ietro alla guida del gregge del popolo di Israele. «Talvolta — ha spiegato il teologo — la Scrittura ci presenta la chiamata, la vocazione, proprio come una trasformazione di mestiere: da una occupazione materiale a una dedicazione spirituale. Così che ciò che è stato vissuto secondo la carne possa suggerire come un segno i valori dello Spirito».
Dio è sempre già all’opera per orientare la persona alla scoperta di una più alta dimensione del vivere, di una più utile donazione, un più utile servizio per i fratelli. Dio chiama nel vissuto, in quella storia concreta in cui si fa in qualche modo vedere, trapela qualcosa della chiamata. Dio chiama nel vissuto, anche nei suoi aspetti di senso e di fatica, che sono le condizioni — queste — per aspirare, forse inconsciamente, a una realtà superiore: quella che Dio, e solo Lui, è in grado di rivelare e di adempiere.
Mosè non sa dove sta andando e non si rende nemmeno conto di avvicinarsi a un luogo sacro quando è incuriosito dal roveto ardente sul monte Horeb. Non immagina il significato dell’arbusto bruciato dal fuoco senza consumarsi e cosa gli sarà rivelato. «Questi diversi aspetti di ignoranza, di non consapevolezza», ha sottolineato padre Bovati, «costituiscono la matrice essenziale per comprendere che cosa sia davvero in realtà la vocazione nella sua dimensione profetica, cioè che è sempre una rivelazione di Dio, non una lucida autoconsapevolezza, non un’autodeterminazione». Chiamandolo per nome Dio chiede infatti a Mosè una disponibilità personale, alla quale lui risponde dicendo: «Eccomi» e «intraprendendo un percorso di consapevolezza e obbedienza».
La chiamata di Dio avviene quindi «in una condizione umana, in una persona, impreparata; avviene come una sorpresa, come un evento inatteso e apparentemente capitato a sproposito». Sono inaspettate infatti la scelta di Davide, un ragazzo che suona la cetra e non un guerriero, per combattere Golia; o quella di Geremia, un giovane inesperto chiamato a profetizzare per le nazioni.
La sorpresa è in realtà il marchio di Dio, e anche la sproporzione tra ciò che si ritiene essere opportuno e persino necessario agli occhi degli uomini, e ciò che Dio sceglie come mediazione: come un servo per il suo operare salvifico.
Dal roveto arriva la voce di Dio. Un segno che la Bibbia non spiega esplicitamente, ma che per il gesuita può essere interpretato in due modi. Da un lato il roveto è la rappresentazione simbolica di Mosè: è un uomo, una realtà misera investita dal fuoco «simbolo privilegiato del Dio vivente». Un’unione che «invece di annientare la creatura debole e fragile, la promuove a una vitalità, a un compito che all’uomo appare impossibile». Dall’altro il roveto è «la realtà sofferente del popolo di Israele», mentre il fuoco è «la potenza crudele dell’oppressore egiziano, che però non è in grado di annientare questa fragile realtà di un popolo sottomesso, perché Dio è presente».
Nel Nuovo Testamento si mostra invece quale sia la valenza spirituale della vocazione per chi segue già il Signore. Nel Vangelo di Matteo Gesù chiede ai discepoli: «Chi volete che io sia?», per far emergere che Lui non è uno dei tanti profeti, ma che è «l’Unico, il Figlio, il Messia, l’Evento reale» e non un’attesa o una preparazione. «Tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivente», risponde Pietro. Una risposta che non viene dalla carne e dal sangue, dalle decisioni umane, ma viene per una rivelazione del Padre. Una risposta non collettiva, ma individuale.
La vocazione è sempre una scelta che nasce dal cuore dell’individuo e non è mai l’assenso a un gruppo, a qualche cosa che si determina in maniera collettiva, come una specie di ondata a cui uno partecipa senza una personale, decisiva responsabilità. Anche Pietro con l’adesione a Dio si trasforma. Non solo nel nome, ma nella sostanza: «Lui, debole, incerto, diventa la roccia su cui è poggiata la stessa Chiesa, diventa principio di solidità nella fede per aiutare i suoi fratelli a superare tutte le insidie del diavolo, tutte le potenze degli inferi che si scateneranno».
«A noi — ha concluso padre Bovati rivolgendosi alla Curia — ci è dato di essere come Pietro, ma dobbiamo seguire il Signore, seguirlo davvero» nel suo cammino della Passione e della Croce. L’invito è a pregare per chiedere il dono dello Spirito per essere davvero discepoli del Signore. Un desiderio esemplificato dal salmo 63, quello della «scelta di Dio», che dice: «Il tuo amore vale più di una vita», «in un rapporto di amore e di comunione che è davvero la nostra beatitudine».
di Michele Raviart