Stiamo tenendo un corso a Roma su «discernimento comunitario e sinodalità» alla scuola di formazione teologica per i futuri educatori/formatori dell’Istituto di Scienze Religiose Mater Ecclesiae dell’Angelicum. È frequentato da studenti provenienti da diverse culture del mondo. Abbiamo proposto loro un laboratorio sui modelli di discernimento comunitario in uso nei paesi di origine, o conosciuti nel ministero pastorale. Siamo rimasti stupiti per la ricchezza dei contributi. Una studentessa vietnamita, religiosa domenicana ha scritto: «il cammino sinodale che coinvolge tanti fratelli, è possibile perché la verità e spaziosa, e si prende tempo». Ha colto bene il compito teologico di andare «oltre». Una sorta di profezia.
Scopriamo oggi il limite della verità come «definizione», che per tanto tempo ha caratterizzato la teologia. Non è più possibile alzare steccati per delimitare uno spazio dentro il quale mantenere alcuni e separare gli altri. Lo spazio come qualcosa di acquisito, conquistato e da difendere, per addomesticare il mistero, chiudere gli occhi ai problemi reali e dimenticare la misericordia. Anche perché oggi l’umanità non accetta alcun recinto e vani sono gli sforzi di chi vuole tornare al passato e rinchiudersi in argomenti antropologici come quello del teologo francescano Alfonso De Castro, consulente al Concilio di Trento, che distorceva le parole di Mt 7,6: «Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle ai porci». Si riferiva ai laici e al popolo di Dio considerati indegni di avvicinarsi alla Scrittura. Ma già da allora all’interno dello stesso Concilio, il Cardinale Cristoforo Madruzzo, vescovo di Trento e tanti altri padri conciliari, rispondevano che il popolo di Dio era capace di tenere viva la rivelazione autentica e degno di nutrirsi della Parola di Dio.
La teologia sinodale si mette al servizio dell’annuncio e suo specifico compito è quello di avviare processi a lungo termine, mediante l’approfondimento, senza pregiudizi. Non può rinunciare ai principi fondamentali epistemologici del pensare teologico che la costituiscono come scienza propria: la corrispondenza fra Dio rivelato e la realtà di Dio in sé (non si può perdere la fede, abbandonare il kerygma, dopo aver fatto lo sforzo teologico); l’ordine o gerarchia delle verità; il nesso dei misteri o analogia della fede; la sinfonia delle verità.
«La corrispondenza fra Dio rivelato e la realtà di Dio in sé», ha un sapore antico, ha le radici nel popolo di Israele. È l’attaccamento a Dio e la fedeltà piena. Oltre a conformare nella mente dei teologi il ruolo di conservazione e di difesa della fede, dopo il Concilio Vaticano II acquista soprattutto la caratteristica di responsabilità e servizio all’annuncio per essere all’altezza del compito affidato dalla Chiesa. Acquista particolare rilevanza la persona del teologo come credente. Chi si occupa di teologia e non crede è uno studioso e un pensatore, non un teologo. Sono vere le parole di Evagrio Pontico: «Se sei teologo pregherai veramente, e se preghi veramente sei teologo». «Annuncio e dialogo sono la chiave della teologia» (Papa Francesco).
Un aspetto importante di trasformazione della teologia è l’ammissione della «complicazione» nell’acquisizione della verità. La rivelazione stessa è complicata, cioè ha pieghe che devono essere aperte per diventare comprensibili. La realtà è complicata, piena di pieghe che possono essere distese. Ma la teologia oggi deve accettare anche la «complessità», cioè l’impossibilità di giungere in poco tempo e facilmente alla spiegazione e a trovare soluzioni, alla luce della rivelazione. Ci sono nodi inestricabili da accettare. Sono state chiare le parole della religiosa mercedaria giapponese Shizue Hirota, nominata nella commissione preparatoria del Sinodo: «La Chiesa deve diventare capace di sentirsi più a suo agio con le “domande aperte”; riuscire a “vivere con domande senza risposta e problemi irrisolti, ma sentendosi comunque in pace” deve diventare parte essenziale della sinodalità». La ricerca e gli studi ecclesiastici non devono soltanto assolvere al compito di presentare la rivelazione nei contesti culturali, ma contribuire attivamente in uno sforzo di ricerca per migliorare il mondo complesso: la fratellanza, la promozione umana, il creato.
La teologia sinodale è per amare e non per difendersi. Il metodo teologico sinodale dovrà puntare sempre più al «nesso dei misteri» o «analogia della fede», che è il principio epistemologico più amato dai Padri della Chiesa e dalle tradizioni liturgiche. È il principio cristocentrico per eccellenza. Predispone la mente del teologo a cogliere le connessioni: tra l’antico e il nuovo testamento, tra le verità centrali e quelle periferiche, tra le ricchezze culturali dei popoli e la rivelazione, tra le vicende storiche della vita attuale e la salvezza. Il magistero di Papa Francesco ha messo in evidenza che «tutto è connesso», tutto è in relazione. Questo principio contrasta l’egoismo di chi pensa di poter guardare soltanto ai propri interessi particolari. È il principio cardine per allestire i «cantieri di Betania». Infatti le connessioni sono l’espressione del sentire comunitario del popolo di Dio in cammino, specialmente nelle sofferenze, ma anche nelle gioie, il legame tra le vicende della sua vita e il mistero di Cristo e la salvezza futura. Il compito del teologo oggi è quello di non mortificare la capacità popolare di fare «nessi», di valorizzarla e anche di purificarla cogliendone la profezia. I profeti parlano direttamente con Cristo, in un modo diverso dagli apostoli, ma realmente. Accogliere la profezia significa accogliere il sentire del popolo, e la sinodalità più genuina è una speciale esperienza comunitaria nel profetare. «Fossero tutti profeti nel popolo del Signore» (Num 11,29). Grazie al teologo il popolo di Dio entra nella teologia non soltanto come fruitore ma come protagonista per una speranza viva. «La teologia in senso stretto non è profetica, ma può diventare realmente teologia quando viene nutrita e illuminata da un impulso profetico» (J. Ratzinger, 2017).
«Quando la profezia viene a mancare a occuparne il posto è il clericalismo, con i suoi schemi rigidi della legalità» (Papa Francesco, 2013). Facciamo esperienza che il clericalismo è assenza di sinodalità e di speranza. Una sana e bella teologia è un antidoto al clericalismo, e fa dei teologi degli «etnografi spirituali» dell’anima dei popoli (Papa Francesco 2019).
La «sinfonia della verità o della fede» è un principio epistemologico della teologia molto antico caro all’oriente cristiano e valorizzata dal teologo H.U. von Balthasar e dal magistero di San Giovanni Paolo II, alla luce del Concilio Vaticano II, specialmente in occasione della redazione del Catechismo della Chiesa Cattolica. Predispone i teologi a cogliere il «sensus Ecclesiae» del popolo di Dio, nelle diverse sensibilità e culture. Oggi la comprensione della sinfonia fa spazio alle teologie asiatiche che la espandono verso «l’armonia delle verità», basata sull’«ottimismo del cuore», che cogliendo le relazioni di tutti gli esseri viventi riafferma che l’umanità è «capace di Dio». Nella condivisione emerge l’«inesauribile novità di Dio» (Benoît Vermander, 2017). Fa spazio anche alla teologia africana, «deorsum sursum» (Jean-Marc Ela), una teologia dal basso che parte dal Magnificat, quando Maria canta il Dio vivo degli affamati che rovescia i potenti dai troni, una teologia dal sapore sinodale che «libera Dio».
Siamo fiduciosi che la teologia sinodale sarà all’altezza del suo compito, e lo svolgerà come servizio. La nostra speranza è riposta nei teologi giovani, specialmente donne. In quelli che sembrano liberi da disagi emotivi che accompagnano il senso di obbligatorietà di definire e controllare, perché non vogliono eludere il tempo, l’incontro con gli altri, l’impatto con la realtà complessa. Sono più capaci di accogliere le scariche emotive, i sogni e le visioni del popolo di Dio. Nati nel mondo digitale, sanno bene che tutto è connesso e che ora è necessario camminare insieme.