Il fatto di svincolare l’amore a Dio e al prossimo dallo stato della perfezione e di descriverli come mezzi abituali della vita teologale costituisce un elemento di novità che traduce nella concretezza del vissuto cristiano il principio dell’universale chiamata alla santità.
Il capitolo V della Lumen gentium si chiude con un ampio paragrafo sulle vie e i mezzi della santità. Anche a una prima lettura, si avverte immediatamente l’impostazione legata al primo schema de Ecclesia, che trattava l’universale vocazione alla santità nel capitolo sui religiosi, evidenziando, tra i mezzi per giungere alla santità, i consigli evangelici. La prima formulazione del testo era costruita sulla netta separazione tra il comandamento della carità, riservato a tutti, e i consigli evangelici, «i quali, pur non costituendo la perfezione, tuttavia conferiscono alla carità il massimo fervore», e quindi una possibilità ulteriore nella via della santità.
In altre parole, il testo non cancellava la sottile tentazione di considerare la condizione dei religiosi superiore a quella di chi vive il precetto della carità nelle condizioni ordinarie della vita. Il paragrafo, in effetti, terminava con l’affermazione che la Chiesa gioisce per i tanti uomini e donne che in ogni tempo, della sua storia hanno vissuto i consigli, dedicando sé stessi all’amore di Dio e del prossimo.
Il testo emendato sfuma questa giustapposizione, sottolineando la carità – così si esprimeva la relatio – come «principale e necessaria via alla santità, in cui tutte le altre sono incluse e superate». Il testo costituisce un passaggio di grande forza suggestiva, che vale la pena rileggere per intero: «”Dio è amore: chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4,16).
Ora, Dio ha riversato il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (cf Rm 5,5); perciò il dono primo e massimamente necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo a motivo di lui. Ma perché la carità come il buon seme cresca e fruttifichi nell’anima, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e, con l’aiuto della sua grazia, compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucaristia e alle azioni liturgiche, applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di sé, al servizio dei fratelli e all’esercizio di ogni virtù.
La carità, infatti, vincolo di perfezione e pienezza della legge (cf Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine. Perciò il vero discepolo di Cristo si distingue per la carità sia verso Dio che verso il prossimo» (LG 42/a).
L’ampiezza della descrizione, non più funzionale al sui consigli evangelici, ribalta la logica che ha regolato la vita cristiana per secoli: non i pochi che scelgono la via della perfezione attraverso i consigli evangelici sono chiamati alla santità, ma tutti, in ragione dello Spirito donato nel battesimo che rende ciascuno capace di vivere il comandamento dell’amore. Certo, questo non avviene automaticamente e senza fatica: il Concilio ricorda che il seme della carità cresce e fruttifica a condizione di un ascolto docile della parola di Dio, di una vita improntata alla volontà di Dio non a parole ma con le opere, di una partecipazione frequente all’eucaristia, di una preghiera costante e di un esercizio continuato nelle virtù, attraverso l’abnegazione di sé e il servizio dei fratelli. Ma il fatto di svincolare questi elementi dallo stato della perfezione e di descriverli come mezzi abituali della vita teologale costituisce un elemento di novità che traduce nella concretezza del vissuto cristiano il principio dell’universale chiamata alla santità. In questo modo, le mille e mille variabili dell’amore a Dio e al prossimo aprono a una infinità di percorsi di santità.
In questa direzione si spiega il tema della spiritualità come conformazione a Cristo, modello di ogni santità e misura di ogni amore a Dio e al prossimo: «Poiché Gesù, Figlio di Dio, ha manifestato la sua carità dando la vita per noi, nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per lui e per i fratelli (cf 1Gv 3,16, Gv 15,13)». Per questo la forma più alta di santità è il martirio; e se «questo dono insigne e questa suprema prova di carità è concesso a pochi, tutti devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce tra le persecuzioni, che non mancano mai nella Chiesa» (LG 42/b).
Nella logica della carità sono inquadrati anche i consigli evangelici, che – dice il testo – favoriscono in modo speciale la santità della Chiesa. Ma se queste vie sono riconosciute e lodate dalla Chiesa, il principio che regola la vita cristiana è che «tutti i fedeli sono invitati e tenuti a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato». Il principio giova anche alla comprensione dello stato religioso: non una condizione di superiorità rispetto ai battezzati, ma la manifestazione della inesausta azione dello Spirito che suscita sempre nuove modalità di attuare il comandamento dell’amore a Dio e al prossimo, che rimane l’unico principio della multiforme santità cristiana.