Secondo il Prof. Pietro Bovati, vice-rettore del Pontificio Istituto Biblico, una rilettura dell’Antico Testamento dal punto di vista del diritto penale ci può dare molti e notevoli spunti sul tema della giustizia. Naturalmente il sistema penale dell’Antico Testamento era radicalmente diverso da quello cui facciamo riferimento oggi. Tuttavia, la Bibbia e l’Antico Testamento sono a parere del nostro autore strumenti preziosi nell’indicarci una dinamica globale, “un esercizio sapiente della pena da modulare e applicare con libertà e inventiva”. Attraverso un’analisi accurata dei testi sacri biblici, Bovati è riuscito ad individuare due modi di rendere giustizia, nei quali sanzioni e perdono sono articolati diversamente.
La procedura penale del giudizio (mišpat): Il primo metodo di attuazione di giustizia è costituito dal sistema processuale pubblico, sul quale sono sostanzialmente ricalcate le nostre attuali procedure. Punto di partenza è la contestazione del reato e l’investitura di un magistrato competente. Il Codice Deuteronomico prescriverebbe in diversi passi la necessità che le indagini per appurare i fatti e accertare l’attendibilità dei testimoni siano accurate. Dai testi di Geremia e Daniele, sarebbe invece possibile evincere la presenza di una sorta di dibattimento tra accusa e difesa, che si concludeva con il verdetto del giudice.
A questo punto occorre sfatare un luogo comune, e cioè l’opinione diffusa che l’Antico Testamento sia portatore di una mentalità giuridica primitiva, incentrata sullo strumento della vendetta. In questo modo, per lungo tempo si contrapponeva in funzione antiebraica l’universo giuridico dell’Antico Israele, fondato “sull’istintualità e la violenza”, a quello cristiano, basato sulla ragione e sul diritto. Questa posizione è stata anche il frutto di un equivoco linguistico. Il testo biblico attesta ripetutamente la necessità di una risposta al crimine, e questo “rispondere” al male è espresso in ebraico con il verbo nqm, che siginifica anche “retribuire, contraccambiare il danno, reagire al torto subito infliggendo un male”. Le traduzione greche giunte fino a noi, non disponendo di un esatto equivalente hanno finito per rendere la radice ebraica con il concetto di “vendetta”, significato che si è poi tramandato sino a noi attraverso le versioni latine. Mentre in alcuni casi il senso della radice ebraica nqm era effettivamente quello di vendetta, ossia di una reazione privata e sproporzionata al torto, in tanti altri casi il suo significato doveva essere reso con “ristabilimento del diritto”, “punizione”, “risarcimento della vittima”, “riparazione del torto” o significati simili. L’unico vero filo conduttore di questo sistema penale era quindi quello della necessità di una risposta all’atto criminoso.
Diverso problema era quello della sanzione che doveva essere applicata. Secondo i Codici penali ebraici essa avrebbe dovuto essere comunque giusta, cioè proporzionata ed equa. La legislazione dell’Antico Testamento costituisce quindi un freno alla pura vendetta privata. Prima che esistesse la Legge, l’essere umano veniva rappresentato con la figura di Lamech, che difendeva la sua vita con la minaccia di una “rappresaglia sproporzionata”:
“Ada e Zilla, ascoltate la mia voce;
mogli di Lamech, porgete l’orecchio al mio dire:
Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura
E un ragazzo per un mio livido.
Sette volte sarà vendicato Caino,
ma Lamech settantasette” (Gen 4,23-24).
La Legge introduce la regola della esatta corrispondenza tra reato e pena, paradigmaticamente espressa nella cosiddetta “regola del taglione”, che in una delle sue formulazioni recita:
“vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido” (Es 21, 23-25).
Ma la Bibbia non dice in questo modo che all’offensore debba essere inferto lo stesso danno che ha provocato, e anche quando doveva avere effettivamente luogo il “taglione”, cioè il taglio di un organo corporeo, al delinquente non veniva inflitto lo stesso danno fisico che aveva procurato. Questo è evidente nella sproporzione che esiste tra l’azione del furto e il taglio della mano. La Scrittura non fissa quindi un rigido parallelismo applicativo, ma piuttosto interpreta la situazione. Era previsto ad esempio che quando un uomo colpiva l’occhio di uno schiavo e lo accecava, dovesse dargli la libertà in cambio di quell’occhio. E così, chi uccideva un capo di bestiame altrui, doveva compensare l’offeso con uno dei suoi capi.
Ciò spiega anche le ipotesi in cui la pena di morte veniva comminata per fatti che non avevano causato la morte di alcuno (la bestemmia, un reato): anche in questo caso lo scopo non era la vendetta, ma piuttosto la deterrenza.
La procedura della lite (rîb):Accanto al procedimento penale che fa capo al giudice, e in antagonismo ad esso, vi era nell’Israele biblico un diverso modo di procedere, che aveva per oggetto il ristabilimento del diritto violato senza che si rischiasse la morte del reo.
La Scrittura ebraica utilizza il termine rîb, che significa accusare o litigare, e che oggi possiamo forse rendere meglio con il concetto di lite, seppure con un certo grado di approssimazione. Il rîb o “lite giuridica” era un’azione intrapresa da un soggetto contro un altro su una questione di diritto. L’esito della controversia e l’attuazione della giustizia dipendevano però interamente dalle parti, senza l’intervento di un terzo arbitro. Il luogo classico di svolgimento del rîb era la famiglia, e l’esempio concreto più funzionale al nostro discorso è quello della storia di Giuseppe e dei suoi fratelli, come noi la conosciamo attraverso il libro della Genesi. Come sappiamo, i fratelli maggiori di Giuseppe tentarono di uccidere il loro fratello minore, e lo vendettero poi a degli stranieri come schiavo.
Di fronte a una colpa di questo genere, il capofamiglia aveva il dovere di intervenire con una iniziativa di parola che aveva la forma dell’accusa. Non si trattava tuttavia di una denuncia alle autorità, ma piuttosto di un rimprovero indirizzato al colpevole. Lo scopo era quello di convincere il reo dello sbaglio e di indurlo a confessare la colpa, a mostrare dispiacere e a esprimere i segni del suo ravvedimento. Era necessario un discorso duro ma saggio, che potesse essere accettato anche dal suo destinatario. L’accusatore, che intraprendeva e gestiva la procedura della lite, si opponeva al colpevole ma al tempo stesso cercava di recuperarlo.
Quando Giuseppe, divenuto viceré in Egitto, riconosce i suoi fratelli fra gli stranieri venuti in cerca di grano, non cerca immediatamente di farli condannare, né li perdona passando su tutto ciò che era successo. Non può imporre in maniera unilaterale e prematura il perdono, ma cerca di guidarli lungo un percorso di graduale maturazione della coscienza. Questo è il momento dell’accusa, della dimostrazione della propria collera e dell’inflizione del castigo. Quest’ultimo è proporzionato sia alla colpa commessa, sia alla condizione personale del colpevole.
Giuseppe fa imprigionare i suoi fratelli, accusandoli di un fatto non commesso, per fargli comprendere cosa significhi essere puniti ingiustamente.
La pena era quindi collocata all’inizio del procedimento, come strumento per parlare al colpevole e per suscitare in lui una risposta. Del resto, se colui che aveva la responsabilità del colpevole non fosse intervenuto, avrebbe solo dimostrato il suo disinteresse. Se di fronte al male egli non avesse reagito, il colpevole non avrebbe capito il suo sbaglio.
L’accusato era chiamato a rispondere di quello che aveva fatto, ma non metteva la sua vita in gioco per quelli che erano i suoi comportamenti passati.
Dice il profeta Isaia:
“Su, venite e confrontiamoci, dice il Signore.
Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve.
Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana.
Se sarete docili e ascolterete, mangerete i frutti della terra.
Ma se vi ostinate e vi ribellate, sarete divorati dalla spada” (Is 1,18-20).
Finché la propria colpa veniva negata l’accusa rimaneva. Se interveniva la confessione, questa era “mediatrice di relazione nella misura in cui riconosce[va] che si [era] fatto torto ad una persona, e proprio alla persona che sta[va] di fronte in veste di accusatore.” Chi confessava diceva: “ho peccato contro il Cielo e contro di te” (Lc 15,21), ed esprimeva così indirettamente anche la sua ammirazione verso l’accusatore, che non si era vendicato ma aveva preferito farsi carico di ristabilire un rapporto veritiero, e che aveva sofferto per giungere alla verità. La confessione finale diveniva richiesta di perdono, sapendo che il perdono non era dovuto.
I fratelli maggiori di Giuseppe, invece di confessare, a lungo si auto-giustificano, anche se in segreto si rendono conto che i loro guai derivano da quel misfatto contro il fratello minore. Nei gesti che accompagnano le loro parole, Giuseppe ravvisa infine i segni del pentimento. Giuda, uno dei fratelli di Giuseppe, chiede pietà offrendosi in schiavo al posto del piccolo. Infine, Giuseppe si rivela ai suoi fratelli.
Per sottolineare la veridicità del pentimento, il colpevole compiva i gesti rituali che nella tradizione biblica vengono chiamati atti penitenziali. Egli piangeva, digiunava e rimaneva mesto in disparte. Ma per Dio il pentimento reale si esprimeva “nella decisione di operare secondo giustizia”. Infine, l’offeso dimostrava la sua disponibilità a perdonare, e porgeva la possibilità di una riconciliazione.
È chiara la diversità fra il processo giudiziale e il rîb. Nell’Antico Testamento non sono molti i casi in cui un uomo ha sufficiente saggezza e bontà da ricorrere alla riconciliazione. Si tratta di un compito difficile. Ma se la Genesi inizia con la storia di Caino, essa termina con la storia di Giuseppe.
Conclusione: Il rîb era strumento di giustizia all’interno del gruppo famigliare o all’interno di una stessa comunità. “Siamo abituati a considerare il passaggio dalla lite (privata) al giudizio (pubblico) come un progresso civile”. Ma forse occorre adottare anche una diversa prospettiva, e chiedersi se la decisione giudiziaria non sia il primo passo della lite, cioè della riabilitazione. Nel campo del diritto penale, in particolare, la nostra civiltà viene giudicata anche in base alla speranza che è in grado di dare al carcerato.
Luigi Cominelli