Il tema che mi è stato assegnato si presta a molte declinazioni. Sono sicuro che ciascuno di Voi avrà al riguardo almeno una mezza dozzina di idee e forse – se non sicuramente – migliori di quelle che ho io. Per questa ragione desidero procedere in molto molto diretto nella presentazione immediata delle quattro convinzioni che mi sono fatto al riguardo. In un secondo momento, proverò ad argomentarle. E poi apriamo un dibattito tra di noi.
La prima e la più importante tra le mie convinzioni – una sorta di “metaconvinzione” – è la seguente: si possono vedere gli spazi o meglio lo spazio reale dell’evangelizzazione oggi, nel nostro Paese, solo se si mette in campo una sincera disponibilità a lasciarsi interrogare da quello che abbiamo davanti agli occhi in merito alla religiosità dei nostri concittadini. È vero che i numeri delle indagini non possono dire tutto, ma dicono molto. Segnalano una tendenza, una linea di sviluppo. Ma se non si parte da qui, il rischio è di girare a vuoto a proposito del tema dell’evangelizzazione. Qui è richiesta, a mio avviso, una maggiore obbedienza al magistero del reale. Cosa che normalmente preti e vescovi, statisticamente, non professano!
La seconda è che, in merito alla religiosità in Italia, i fenomeni più vistosi e rilevanti sono due:
a) il crescente ateo-agnosticismo delle nuove generazioni (Generazione Y [1980-1995], Generazione Z [1995-2000], Generazione alfa [2000-])
b) e (per usare le parole di Jesus) lo “scisma” delle donne, ovvero la montante disaffezione dell’universo femminile rispetto alla comunità cristiana (fenomeno diffusamente transgenerazionale con punte maggiori a partire dalle donne appartenenti alla Generazione X [1964-1980]).
La terza convinzione riguarda le radici di questi due fenomeni:
a) da una parte, insieme con papa Francesco, è tempo di riconoscere l’interruzione di una rottura nella trasmissione intergenerazionale della fede, rottura sostanzialmente legata alla radicale trasformazione antropologica degli adulti attuali e della categoria di adultità;
b) dall’altra, insieme all’indimenticabile cardinale Martini e a papa Francesco, va presa coscienza al più presto del nocivo ritardo da parte della comunità cristiana ad immaginare un cristianesimo diverso da quello attualmente praticato, che è un cristianesimo pensato per uomini e soprattutto per donne con quella visione della vita in vigore sino agli anni ’90 del secolo scorso (quando, tanto per intenderci, noi maschi si moriva sui 55 anni di età, mentre oggi a quell’età non ti fanno neppure monsignore… perché troppo giovane!). Non possiamo più andare avanti con ciò che io chiamo “il cristianesimo della consolazione”.
La quarta convinzione è la necessità di una conversione reale dell’azione pastorale concreta, un cambio di paradigma nel gesto del dare il buon cibo del Vangelo (pastorale=pastore= pasto) agli uomini e alle donne che abbiamo oggi concretamente davanti. Da questo punto di vista, si tratta di rivisitare e ridisegnare l’intero spazio ecclesiale nella logica dell’evangelizzazione. Il cristianesimo che oggi serve è “un cristianesimo dell’innamoramento, dell’amicizia, del contagio, del riflesso”.
Questo è il menu, cari signori! Iniziamo con le pietanze. E dunque dall’argomentare la convinzione numero 2.
I grandi spostamenti della religiosità italiana: nuove generazioni e donne
Ho già accennato a quelle che rappresentano le grandi evidenze dei rilievi sociologici sulla religiosità italiana: l’ateo-agnosticismo delle nuove generazioni e la disaffezione delle donne all’universo ecclesiale.
Per introdurre l’argomento mi pare interessante riportare un’osservazione contenuta nell’appena pubblicato Rapporto Annuale 2020 dell’Istat. È relativa alle abitudini religiose degli italiani nel recente travagliato periodo del lockdown, resosi necessario a causa della pandemia da Covid-19. L’Istat ha registrato questo:
«Molti anche quanti hanno pregato: il 42,8 per cento della popolazione di 18 anni e più ha pregato almeno una volta a settimana (il 22,2 per cento almeno una volta al giorno). Le donne lo hanno fatto più degli uomini (52,6 per cento contro 32,3 per cento) almeno una volta a settimana e anche le persone anziane di 65 anni e più (60 per cento). Viceversa una quota analoga pari al 48,3 per cento si è polarizzata in maniera del tutto opposta dichiarando, invece, di non avere mai pregato durante il lockdown. Quote più elevate di chi dichiara di non aver mai pregato durante il periodo di lockdown tra gli uomini (58,1 per cento) e i giovani fino a 34 anni (64,5 per cento)».
Il dato relativo alla quota di popolazione giovanile che dichiara di non aver mai pregato durante il lockdown appare davvero alta. Il dato non risulta, però, così sorprendente proprio alla luce di quanto, appena una settimana prima del lockdown, aveva fatto intravedere il libro di Franco Garelli Gente di poca fede. Lo stesso Garelli afferma a chiare lettere che oggi, in Italia, ci troviamo di fronte ad un consistente gap generazionale rispetto alla questione fede.
Seguiamo da vicino il suo ragionamento. Egli ricorda che in Italia abbiamo innanzitutto «la religiosità delle persone anziane, che è quella più elevata, fortemente ancorata alla fede della tradizione, con le donne in prima fila che si portano appresso gli uomini»; accanto a questa prima tipologia di religiosità, vi è poi quella «più essenziale e un po’ più spoglia delle persone in età adulta e matura»; e infine si staglia «l’evidente minor identificazione nella sfera religiosa della quota più verde della società (i 18-34enni)».
Ma quanto sono davvero distanti i giovani dagli adulti e dagli anziani in materia di fede? E quali caratteristiche in merito presentano rispetto alle altri due fasce di popolazione italiana?
All’argomento Garelli dedica uno specifico paragrafo del suo libro, intitolato L’ateismo giovanile (un titolo che fa impallidire il mio timido la prima generazione incredula), che segnala una linea di tendenza particolarmente indicativa circa le sorti future del cattolicesimo italiano.
I punti principali di questo paragrafo sono presto detti:
- l’ampiezza dell’ateismo giovanile,
- la riduzione della differenza di genere,
- la rilevanza del livello di istruzione nella non credenza giovanile.
Per il primo punto, lascio di nuovo la parola al sociologo torinese:
«Chi sono le persone più coinvolte nel fenomeno della non credenza? I giovani, tra i quali la tendenza a negare l’esistenza di Dio si sta rapidamente diffondendo […]. Attualmente il 35% dei 18-34enni dichiara di non credere in Dio, a fronte del 24% dei soggetti in età adulta (34-54) e del 18% di quanti hanno un’età più avanzata. La non credenza giovanile non solo è più estesa, ma anche la più spoglia di quella degli adulti e degli anziani. Perché da un lato nasce perlopiù dall’indifferenza per i temi religiosi, dall’altro è meno compensata dall’idea che il mondo sia abitato da una forza superiore non meglio definita».
Sulla questione della differenza di genere nella non credenza giovanile, i dati dell’indagine dicono che, per utilizzare il fortunato titolo di un altro importante testo di Garelli, accanto a piccoli atei crescono, crescono pure piccole atee. Si tratta, dunque, di prendere atto del fatto che il divario del genere femminile, rispetto a quello maschile, in termini di maggiore vicinanza all’esperienza della fede, nelle nuove generazioni tende fortemente a diminuire.
Anche l’ultimo punto merita una certa attenzione, in quanto, dalle pagine di Garelli, si viene a sapere che «la non credenza aumenta man mano che si passa dai livelli bassi a quelli alti di scolarità». E questo non è un’indicazione da poco in un Paese come l’Italia in cui il numero di laureate non solo è in crescita ma tende a superare ogni anno quello dei laureati; e in cui più in generale le nuove generazioni hanno maggiori possibilità di accedere a livelli più alti di studio rispetto a loro genitori e ancora di più rispetto ai loro nonni.
Da ultimo Garelli, nel paragrafo dedicato all’ateismo giovanile, ricorda anche una variazione diciamo così “geografica” del sentimento religioso degli italiani, maggiormente radicato nel Centro-Sud e nelle Isole, sempre meno forte nel Nord e nel Centro-Nord.
Aggiungo ancora il dato per il quale, come lo stesso Garelli registra, non è che questi giovani non abbiano frequentato il catechismo, non abbiano avuto un’iniziazione religiosa di base oppure non abbiano incrociato l’universo cattolico durante la loro infanzia e la loro adolescenza. Ancora oggi i livelli di partecipazione al catechismo dei sacramenti sono molto alti e molto numerose sono le attenzioni che ogni comunità parrocchiale dedica al mondo delle nuove generazioni, dall’oratorio ai campi estivi, e via dicendo. Il punto problematico è, come vedremo, altrove: è nel contesto socioculturale, da una parte, e nel mantenimento oltre il tempo massimo di una pastorale della consolazione, dall’altra, in cui oggi i giovani crescono e in cui vengono messi a confronto con la proposta cristiana di vita.
Qual è allora il primo dato sintetico circa la religiosità in Italia? Forse una sintesi la permette ciò che il volume sulla Condizione giovanile in Italia nel 2018, pubblicato dall’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica, afferma: per la maggior parte dei giovani italiani la fede è irrilevante.
Andiamo ora a dire qualche parola sull’altra evidenza già intravista circa la religiosità nel nostro Paese ma che va ancora meglio riconosciuta: quella della disaffezione delle donne rispetto alla Chiesa, ciò che prima ho definito il fenomeno delle piccole atee che crescono.
Per introdurlo mi faccio aiutare da ciò che Marco Politi ha identificato, in un saggio dedicato a papa Francesco lo scorso anno (ma ne è in arrivo un altro), come “la fuga delle donne”. Ecco l’osservazione con cui egli apre il capitolo omonimo:
«Il crollo è catastrofico. Dall’anno 2000 al 2016 il numero di donne attive negli ordini religiosi femminili è sceso da 800.000 a 659.000. L’esercito delle suore è cruciale per la presenza della Chiesa cattolica nella società contemporanea […] Senza la fanteria delle donne, che portino o meno il velo, la Chiesa sarebbe incapace di muovere un passo. Una perdita di 140.000 religiose in appena sedici anni costituisce un fenomeno allarmante».
Si può dunque parlare di una fuga delle donne e lo si fa partendo dalla forte crisi che attraversa la vita religiosa femminile, una crisi che i numeri appena citati rendono evidente al di là di ogni ragionevole dubbio. Purtroppo, non c’è solo questo. Politi, infatti, sottolinea che la questione del rapporto delle donne con la Chiesa è più ampia:
«Le donne si stanno disaffezionando alla Chiesa. Si disaffezionano le élite teologiche, si disaffezionano le fedeli di base che sono molto meno stimolate a collaborare in parrocchia, tanto è vero che sale l’età media delle catechiste o delle altre assistenti. Scalpitano le nuove generazioni di suore non più disposte a chinare il capo davanti al maschio-parroco soltanto per il fatto che ha il sacramento dell’ordine sacerdotale».
Insomma, tante, tantissime donne non si sentono più a “casa” nella casa del Signore. Ma chi sono queste donne e come manifestano questa loro crescente disaffezione per la Chiesa? Chi sono, insomma, queste donne in fuga?
Ho già citato il caso delle giovani donne, ma, accanto a “queste piccole atee che crescono”, ciò che meglio e più di altro sottolinea la fuga delle donne di cui parla Politi è più chiaramente la crescente disaffezione delle donne che transitano tra i 30 e i 40 anni verso la realtà della vita ecclesiale.
Vedete, è certamente vero che, a livello di popolazione italiana nel suo complesso, le donne sono più religiose degli uomini, ma, se si prendono in considerazione solo le differenti generazioni di donne attualmente presenti, si noterà che tra quelle più anziane e quelle più giovani esiste un cambiamento nell’ambito dell’esperienza della fede molto netto; anzi è a questo livello che normalmente si registra il mutamento più alto rispetto a tutti gli altri indici di misurazione della religiosità della popolazione italiana. Il punto di rottura appare essere la generazione di donne nate intorno agli anni Settanta.
A partire dalla generazione di donne degli anni Settanta, le differenze intorno alla credenza e alla pratica religiosa tra gli uomini e le donne tendono perciò sensibilmente ad attenuarsi (è un fenomeno rilevato dalla rivista Il Regno già nel 2011), sino a quasi scomparire con la generazione di donne nate dopo il 1980.
Dagli annuali report dell’Istat, poi veniamo a sapere che, in riferimento alla frequenza alla Messa, rispetto alla media generale di frequenza delle donne, decisamente e sempre più alta rispetto a quella del mondo maschile, lo scarto maggiore, all’interno della popolazione femminile nel suo complesso, si assesta proprio tra coloro che transitano tra i 18 e i 44 anni. La ripresa della partecipazione poi di molte donne quarantenni, in occasione dell’iniziazione cristiana dei loro figli, non segna quasi mai un’inversione di tendenza. Questo implica un fatto molto semplice: le chiese italiane sono attualmente e normalmente frequentate soprattutto da donne adulte e anziane e il ricambio non appare affatto assicurato proprio dalle nuove generazioni di donne. Tutto ciò peserà moltissimo per quel che riguarderà la disponibilità di nuovi agenti pastorali.
Il crescente aumento dei matrimoni civili e delle coppie di conviventi si deve inoltre esattamente a questo cambiamento delle nuove generazioni di donne, essendo normalmente molto preponderante la parte della donna nella decisione della coppia di contrarre matrimonio religioso o meno, o di non contrarlo affatto.
Ancora un punto: in relazione all’orientamento etico personale e alle questioni connesse alla presenza pubblica del cristianesimo nella società, la maggiore o minore distanza rispetto alle posizioni ufficiali della Chiesa è, per la popolazione italiana, stabilita quasi unicamente dall’anno di nascita (è una delle tesi centrali dei tanti testi di Garelli). Più si è giovani maggiore cresce la distanza, mentre si riduce nel caso di persone adulte e anziane. La differenza di genere non porta alcuna modifica. A decidere la propria posizione è infatti unicamente l’età e in parte anche il livello d’istruzione. Ma a tale proposito, lo dicevo prima, non si dovrebbe dimenticare che le donne italiane sono quelle che possono vantare, rispetto ai connazionali di sesso maschile, un patrimonio d’istruzione tra i più alti al mondo.
E poi l’ultimo punto: avremo ancora suore italiane nel prossimo futuro? C’è, infatti, da registrare, come già accennato da Politi, che è esattamente il mondo delle suore quello che negli ultimi cinquant’anni ha perso più componenti e attualmente l’età media delle consacrate italiane è molto alta.
Cosa dire? Mi pare che sia opportuno ripeterci ciò che Jesus ha detto, nel mese di giugno del 2019: quello delle donne potrebbe rappresentare lo “scisma” del XXI secolo.
Cambiamento d’epoca
Come dare ragione a tutto ciò? Che cosa ci dice in merito al tema dell’evangelizzazione del futuro e del futuro dell’evangelizzazione? Veniamo alla mia terza convinzione.
So da me che l’espressione è super abusata ma il punto è che non possiamo non prendere coscienza che siamo in un reale cambiamento d’epoca e non più in un’epoca di cambiamento. Ed il punto è prendere atto che tale cambiamento d’epoca produce una radicale trasformazione del senso della vita
Insomma, non possiamo pensare al presente e al futuro della Chiesa in Italia senza cogliere il radicale cambiamento che ha toccato il modo di essere al mondo della popolazione adulta. Il riferimento specifico è qui agli adulti appartenenti alla generazione nata dopo la Seconda guerra mondiale e alla generazione successiva: in sostanza a coloro che appartengono alla Baby Boom Generation (1946-1964) e alla Generation X (1964-1980).
Nel giro di pochissimi anni, la condizione adulta è passata dal rappresentare il tempo dei doveri familiari e sociali (primo fra tutti quello di mettere su famiglia e fare figli), il tempo delle fatiche e delle frustrazioni, tra lavoro e presa in cura della prole, ed ancora il tempo dell’inesorabile incontro con l’esperienza dell’indebolimento delle energie e dunque dell’invecchiamento e della morte, al tempo in cui la domanda umana di vita e di libertà trova il suo terreno più fertile. E aggiungiamo che la questione riguarda le donne in misura doppia per gli uomini: se prima del cambiamento d’epoca la loro era una vita adulta doppiamente faticosa, dopo il cambiamento d’epoca essa è ora doppiamente emancipata, liberata, “esplosa”.
Del resto, è proprio l’accadere di una reale emancipazione, l’effetto sui soggetti appartenenti alle generazioni prima citate degli sviluppi della medicina e della ricerca farmaceutica, delle nuove attenzioni all’igiene e alla salute personale e collettiva, dell’aumentata longevità (abbiamo guadagnato 30 anni di vita in più, venti dei quali in buona forma), dell’aumento delle risorse di cibo e di denaro, della diffusione dei tanti ritrovati tecnologici dentro le mura domestiche, gli spazi di lavoro e nel largo raggio della sfera sociale, senza dimenticare l’effetto dell’abbattimento di tanti pregiudizi, la maggiore scolarizzazione della popolazione nel suo insieme ed infine le immense possibilità dischiuse da internet.
Diventare adulti non implica più l’accesso ad una sorta di tunnel asfittico, buio e monodirezionale nel quale al maggiore numero dei passi che vi si compiono corrisponde una crescente riduzione delle opzioni che restano possibili al soggetto, sino all’unica destinazione finale del cimitero. Diventare adulti significa, oggi, accedere ad una sorta di prateria dai confini difficili da identificare, in cui non sembra esservi più quasi nulla di precluso, a condizione di avere a disposizione del denaro. E sebbene non manchino malattie che mettono paura – come quella neurodegenerative – la possibilità di una dichiarazione anticipata di trattamento già rassicura parecchio. Così come l’idea di dover morire non si presenta più come la questione ultima e radicale dell’esistenza, viene piuttosto ormai generalmente rubricata e digerita come l’ultima questione cui a suo tempo si troverà facile soluzione, come già lasciano intendere i modi attuali di dire la morte altrui: si è spento, è scomparso, è andato via, è venuto a mancare, si è addormentato, non è più, ha compiuto l’ultimo transito, è andato alla casa del Padre ed altri ancora. Non solo: ormai, indipendentemente dall’età in cui si muore, al presente si muore sempre “giovani”. E qui accediamo ad un altro elemento decisivo del cambiamento radicale del senso della vita umana.
Insieme, infatti, alla condizione degli adulti presenti al mondo, cambia l’immaginario dell’essere adulto: cioè il significato ed il valore propri della categoria di “adulto”.
Si passa così dal considerare l’ingresso nella condizione adulta come l’esito normale del processo di umanizzazione di ogni cucciolo d’uomo, ovvero come l’assunzione consapevole di quel tratto di cura, di generatività, di responsabilità, di prossimità, di volere il bene dell’altro che definisce la nostra specie ed in cui in ogni caso si realizza la piena umanità di ciascuno (solo l’adulto ha pieno titolo di “umano”), al considerare che solo la giovinezza possa garantire tale promessa. Giovinezza qui non indica qualche capello bianco in meno o qualche ruga in meno. Giovinezza è qui potenza, prestanza fisica, carriera, libertà senza limiti, godimento permanente del mondo e della vita, Viagra, stop definitivo ad ogni spiritualità da Salve regina!
È così che accade una sorta di “rivoluzione copernicana” delle età della vita: il “corpo celeste” attorno a cui ruotava, sino a quarant’anni fa, ogni fase dell’esistenza umana era l’adultità, dalla quale proveniva il senso stesso dell’essere al mondo degli uomini e delle donne ed in particole dei loro cuccioli; quel posto centrale, luminoso e illuminante, deputato alla donazione di senso all’esistenza dei terrestri, è oggi occupato dalla giovinezza. Dal mito della giovinezza, che ha conquistato il cuore degli adulti.
E va da sé che, al posto della cura, della generatività, si impone un tremendo narcisismo (“nar-cinismo”, dice Colette Soller, “egolatria”, dice papa Francesco), individualismo, egoismo. Soprattutto tra gli adulti. I quali, poi, sostanzialmente si “rimbecilliscono” cioè non sono più aderenti al reale (alla lettera, “imbecille” è colui che non ha un sostegno idoneo al pavimento) e c’è gente in giro che crede alle lozioni contro la caduta dei capelli, quando l’unica cosa in grado di arrestare la caduta dei capelli è il pavimento! Oppure crede che esista una cosa come la maionese light: un cibo pieno grasso che ti fa dimagrire! Ed il punto più doloroso – come hanno visto in modo pertinente Benedetto XVI e papa Francesco – è che in tali condizioni salta ogni prassi educativa nelle famiglie! Solo un adulto “adulto” può educare: un adulto diversamente giovane non può fare nulla! E mentre cessa l’impegno educativo, gli adulti non vogliono crescere e si rincitrulliscono, i giovani non possono crescere e si deprimono oppure spaccano tutto.
Ma ciò che a noi interessa di più è il contraccolpo sull’esperienza cristiana della vita che proviene da un tale cambiamento d’epoca. Siamo oltre la cristianità. Oggi – per riprendere espressioni di papa Benedetto XVI citate anche da papa Francesco – la fede non è più un presupposto ovvio del vivere, anzi spesso viene marginalizzata e pure derisa.
E questo è di per sé ovvio: la fede cristiana è essenzialmente apertura all’altro. Dio non dice al credente: “Tu mi appartieni”. Dio dice al credente: “Tu appartieni agli altri”. Questa è la felicità: fare gli altri felici. Questa è la gioia: dare gioia. Questa è la verità dell’umano che il Vangelo ci consegna. Adulti autocentrati, autoriferiti, egotici, non sono quasi per nulla in grado di sintonizzarsi con la parola di Gesù. Almeno ad un livello immediato, almeno non nella misura del passato recente. Non siamo più in presenza di un adulto naturaliter chistianus. E la marginalizzazione della fede accade proprio nel “corpo” dell’adulto. Quel “corpo” che è sempre il vero tabernacolo di Dio per i nostri piccoli. E che è sempre più vuoto di Dio…
È qui che si può inquadrare il grande tema ecclesiale, intorno a cui giriamo da almeno due decenni: la rottura intergenerazionale della trasmissione della fede!
Che ha due facce. La prima riguarda le famiglie. Stando ai dati raccolti ancora nello scorso anno: nelle famiglie si prega poco o nulla, nelle famiglie si legge il vangelo poco o nulla, nelle famiglie si parla di Gesù poco o nulla. Mi dispiace essere così duro.
Tempo fa, feci io stesso un’indagine tra alcuni giovani a Roma. E chiedevo: avete visto mamma e parà pregare? E più quei ragazzi stavano in silenzio, più aumentava la mia disperazione. Ad un certo punto uno di loro si alzò e mi disse: “A dire il vero, quando la Roma gioca fuori casa, papà si avvicina al televisore e secondo me prega!”. Incoraggiata da una tale rivelazione, una ragazza aggiunse che la madre, la domenica mattina, prima di salire sulla bilancia, recitava un Gloria al Padre!
Senza preghiera in famiglia, non c’è trasmissione della fede. La trasmissione della fede richiede il “corpo” dei genitori!
La seconda faccia della questione riguarda il fatto che le attuali forme di trasmissione della fede, le attuali forme dell’evangelizzazione (catechesi, liturgia, attività, oratorio, scansione anno liturgico) si reggono sostanzialmente su una mentalità pastorale la quale non ha sostanzialmente fatto per nulla i conti con lo slittamento di segno e di senso della condizione degli adulti e della categoria dell’adultità.
La mentalità pastorale vigente, e di conseguenza le forme relative della trasmissione della fede, trova il suo fulcro nel riconoscimento del destino oneroso connesso alla vita adulta, un riconoscimento che aveva più che buone ragioni sino ad anni abbastanza recenti.
È in esso che si colloca la grande scommessa degli operatori pastorali che ci hanno preceduto: non sarà che proprio un tale destino oneroso della condizione adulta non possa già da sé aprire ad un possibile apprezzamento delle parole e delle promesse della religione cristiana? Non potrà e non dovrà esattamente quest’ultima assumersi il compito di dare una qualche luce di speranza, di consolazione e di verità agli adulti?
La scommessa era proprio questa: solo il cristianesimo – con un marcato accento sulla promessa della vita eterna e del paradiso, sull’esempio di Cristo che soffre, sull’imperativo a fare i buoni dinanzi a un Dio che è misericordioso ma soprattutto giusto, su una grande spiritualità mariana, sui sensi di colpa, ecc… – può garantire di vivere l’esperienza adulta senza isterie, frustrazioni ed eccessivi rimpianti (specialmente per le donne!).
Di conseguenza la mentalità pastorale che abbiamo ereditato e che ancora governa le economie dell’agire ecclesiale contemporaneo deriva dalla fissazione e dall’illustrazione del valore aggiunto che la religione cristiana offre alla vita adulta esattamente rispetto ai suoi elementi di maggiore criticità e diciamo pure di più intensa sofferenza e frustrazione. Era ed è una pastorale dell’accompagnamento, della consolazione, del lutto, del trauma!
L’azione concreta della vita ecclesiale è, in altri termini, ancora oggi sorretta da una sensibilità dell’umano che andava in certa misura bene quando i maschi morivano sui cinquant’anni, le donne erano tutte “casa, chiesa e cucina” (oggi sono in posti importantissimi, pensate solo ad Angela Merkel), gli omossessuali venivano marginalizzati se non addirittura puniti per legge, la povertà, l’ignoranza, la frustrazione complessiva stavano all’ordine del giorno di ogni famiglia e le conoscenze medico-sanitarie diffuse e messe in atto non erano poi ancora così distanti da quelle del Medioevo, nonostante i secoli trascorsi.
Qui si deve cambiare. Ed è cosa che emerge proprio dalla lontananza dalla Chiesa che si verifica nelle nuove generazioni e nelle donne delle generazioni più recenti.
Verso un cristianesimo dell’innamoramento
Giungiamo alla quarta convinzione: non possiamo non cambiare. E va da sé che qui ci muoviamo tutti su un terreno molto aperto.
Dal mio punto di vista, una cosa pare chiara. E cioè che lo spazio dell’evangelizzazione è quello del senso da dare oggi alla vita adulta che è poi il cuore della vita umana. Senza dimenticare che il mercato, insieme agli altri poteri forti, ha tutto l’interesse a promuovere quel radicale rimbecillimento della popolazione adulta, cui sono connessi l’eclissi dell’educativo e l’indebolimento delle nuove generazioni, legato al mito del giovanilismo. Adulti rincitrulliti, insoddisfatti, che credono di poter ringiovanire sono clienti e consumatori perfetti!
Serve allora pensare all’opera dell’evangelizzazione come una “sfida” posta al cuore dell’immaginario adulto contemporaneo: in grado di rilanciare efficacemente la verità del Vangelo sull’umano nella sua destinazione agli altri, alla cura, alla prossimità, alla generatività.
Per fare questo serve il passaggio da una pastorale della consolazione ad una pastorale dell’innamoramento.
La pastorale dell’innamoramento si contraddistingue essenzialmente dalla decisione di riportare al centro dell’essere e dell’agire ecclesiali la creazione e la cura delle condizioni che permettono a chiunque di diventare “cristiano” e recuperare la bellezza dell’essere adulto, nella verità di questa parola.
Si tratta di prendere atto che non esiste più o quasi alcun “inconscio cristiano collettivo” su cui fare leva per indirizzare i nostri contemporanei verso il Vangelo; si tratta di partire dall’idea – l’ho già detto prima – che non siamo più nell’epoca del naturaliter christianus o meglio dell’adulto naturaliter christianus.
Questo comporta che il luogo ecclesiale – il luogo dove i cristiani si ritrovano – diventi sempre di più luogo eminentemente generativo della fede: ci incontriamo tra di noi, in quanto innamorati di Gesù, e permettiamo ad altri di incontrarsi con Gesù e di innamorarsi di lui. Bisogna unire di più celebrazione della fede e generazione alla fede.
Dobbiamo pertanto passare dall’idea del “diventa adulto e sarai cristiano” all’idea del “diventa cristiano e sarai adulto, sarai umano”. È forse solo grazie alla fede in Gesù che oggi si può accedere all’adultità, in mezzo a questa società occidentale ipergiovanilistica: è in lui che splende la bellezza dell’umano – la cifra del dono, della cura, della dedizione e della donazione – che è poi la verità profonda dell’essere adulto.
In questa direzione va da sé che il primato andrà alla predicazione del Vangelo, all’iniziazione al gesto della preghiera e alla testimonianza di una gioiosa comunità di fratelli e di sorelle – comunità non solo a parole ma così vera da risultare effettivamente alternativa rispetto al modello antropologico attualmente dominante del tutto assestato sul piano dell’adorazione della giovinezza.
La pastorale dell’innamoramento è così contraddistinta:
- da un eccesso di Parola rispetto ad un eccesso di sacramentalizzazione
- da un eccesso di Preghiera rispetto ad un eccesso di moralizzazione
- da un eccesso di “stare insieme” rispetto ad un eccesso ecclesiale di “mordi e fuggi”
- da un eccesso di gioia rispetto ad un eccesso di spirito quaresimale permanente
Servono perciò cristiani e cristiane che, ritrovandosi pubblicamente insieme e celebrando insieme, siano in grado di “dire” a chiunque:
- Non esiste alcun investimento migliore per far fiorire tua esistenza che legarti alla parola del Vangelo.
- Non esiste strada migliore per vivere con pienezza la tua esistenza che esercitarti ogni giorno nella preghiera.
- Non esiste godimento più duraturo che quello di far parte di una comunità di fratelli e di sorelle.
- Non esiste gioia maggiore di chi ha incontrato Gesù, l’uomo vero, l’uomo perfetto, l’uomo veramente adulto, il quale ci addita la strada per uscire dalle catene del mito della giovinezza donandoci la chiave dell’autentica felicità umana: la gioia di dare gioia.
Un ultimo punto. Pensando ora al lavoro che vi spetta in questo Capitolo e quindi provando ad indossare i panni di un “paolino”, vorrei farvi dono, con molta semplicità, di qualche domanda.
Rispetto alle tante attività che già sono in essere, in vista di un qualche discernimento, vi invito a farvi queste due domande:
- che cosa, in ciò che noi facciamo, davvero irradia Gesù, cioè è trasparenza di lui?
- che cosa, in ciò che noi facciamo, davvero comunica o fa apparire qualcosa della gioia del nostro essere innamorati di Gesù?
Rispetto a ciò che, invece, potrebbe diventare oggetto di future attività, vi invito a chiedervi:
- come aiutare oggi la comunità cristiana a prendere consapevolezza del cambiamento in atto a livello antropologico-culturale e del necessario cambiamento di mentalità pastorale che ne deriva?
- possiamo fare qualcosa in più per aiutare la comunità cristiana a diventare “casa e scuola della Parola”?
- possiamo fare qualcosa in più per aiutare la comunità cristiana a diventare davvero “casa e scuola della preghiera”?
- possiamo fare qualcosa in più per aiutare la comunità cristiana a riscoprire quello che il papa dice in Evangelii gaudium, 24 a proposito dei discepoli del Signore che non solo prendono l’iniziativa, si coinvolgono, accompagnano, fruttificano ma che sanno anche festeggiare?