La questione del genere nella Chiesa: facciamo ordine, partendo da un errore e una trappola. Reciprocità, questa è la parola chiave

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Il dibattito sul ruolo della donna nella Chiesa è vittima dello stesso errore epistemologico che segna la riflessione contemporanea sulla questione del genere: maschio e femmina come elementi separati e contrapposti. Uno schema “binario” che porta solo a polarizzazione, rivendicazione e conflitto, dentro e fuori la Chiesa.

Questa visione dualista ha due matrici: una essenzialista e metafisica, che è stata poi messa in discussione in modo reattivo da una moderna, tecnicista e digitale, anch’essa problematica.

Solo riconoscendo i limiti di entrambe le prospettive si potrà affrontare umanamente la questione, nella società e nella Chiesa, perché tutto è connesso.

Secondo la prima matrice, l’uomo e la donna avrebbero “per natura” caratteristiche opposte, traducibili in dicotomie come ragione/emozione, privato/pubblico, cura/lavoro. La donna sarebbe fatta per la casa e la cura, mentre l’uomo per il lavoro e la vita pubblica. Questa narrazione ha storicamente giustificato paternalismo, oppressione e sfruttamento. Nel migliore dei casi ha prodotto l’ideale della “complementarietà”: la donna va valorizzata per il contributo che può portare. Niente di sbagliato, si potrebbe dire. In realtà è una trappola che ribadisce una divisione di ruoli, di funzioni, dove ciascuno fa “il suo”, al limite senza nemmeno venire in contatto con l’altra parte. E “il suo” della donna è sempre subordinato e residuale.

La seconda impostazione risente dell’influenza di un pensiero tecnico e macchinico (le macchine si definiscono per la loro funzione, le donne anche), poi calcolante e modellato sullo schema binario dei dispositivi (on/off) o sul codice binario del linguaggio digitale (0/1). Lo schema è o/o, senza gradazioni intermedie. E da qui la reazione verso il “non binario”. Questa versione ipertecnologica delle differenze di genere è il rigetto di quella classica e risente di una razionalità sempre più astratta, strumentale e computazionale. Molti autori, da Paul Valéry a Bernard Stiegler, hanno parlato di “miseria simbolica” a proposito di questo impoverimento. La reazione a una impostazione riduttiva risente degli stessi limiti, perché non esce dalla stessa cornice: semplicemente la assume per ribaltarla. E la negazione di un errore non è per forza una verità. Quindi non saranno le “identità non binarie”, dove implicitamente si assume lo stesso linguaggio macchinino, astratto, oppositivo, a liberarci dalla gabbia del binarismo. Anche perché la controproposta è la “fluidità”, l’indifferenziato, in nome di una libertà senza limiti: per poter essere tutto non sono niente. Per non essere schiava della biologia la cancello. Siamo tra due estremi: da una parte conta solo la biologia, e tutto è già scritto; dall’altra parte la biologia non conta niente, e tutto è da scrivere a piacere. I conservatori da una parte, i progressisti dall’altra. Lotta sterile.

Anche le altre categorie evocate dal dibattito, come parità, ribellione, competizione tendono a cadere in una presunta equivalenza indifferente alle differenze o in una reazione che vuole solo invertire i termini della questione.

Nella Chiesa non si tratta oggi di rivendicare più spazio dentro un’organizzazione basata su un’antropologia essenzialista e dualista, ma di mettere in discussione questa impostazione.

Serve un pensiero differente. La parola chiave è reciprocità, ovvero reciproca implicazione e capacità di trasformarsi a vicenda, anziché contrapporsi, competere, rivendicare. Nel processo di diventare se stessi, l’altro è fondamentale, non come minaccia o antagonista, ma come interlocutore, co-costruttore. Ogni individuazione è sempre una coindividuazione: diventare se stessi con altri, dando forma a una relazione, all’ambiente, alla collettività. Mai senza l’altro, direbbe Michel de Certeau.

Per la cultura contemporanea “non binaria” le differenze sono frutto di autoaffermazione, secondo i dettami dell’ iperindividualismo. In una visione antropologica generativa, le differenze si radicano e fioriscono nella relazione.

Per i cristiani, l’immagine più bella di questa relazionalità costitutiva delle differenze viene dalla sapienza delle Scritture, capace di ispirare un’antropologia liberante per ripensare il rapporto tra maschile e femminile, compreso il ruolo della donna nella Chiesa.

Nella Genesi, Dio crea l’essere umano a sua immagine, maschio e femmina. Adam, «fatto di terra», si percepisce come uomo solo vedendo Ishà, la donna.

È sempre nella relazione con l’altro che capiamo chi siamo, che cogliamo la nostra unicità. L’indifferenziato viene prima, e la pienezza della realizzazione umana è una differenziazione in relazione.

Una differenziazione nella reciprocità e non nella contrapposizione, nel dinamismo trasformativo aperto alle mille sfumature dell’unicità e non nella staticità di identità standard definite “per natura”, o nel rifiuto di ogni identità.

La dualità è un processo dinamico, dove essere e divenire stanno insieme; non è un confronto/scontro tra identità fisse e predefinite, ciascuna con il suo ruolo.

Anche la riflessione sulla donna all’interno della Chiesa è malata di dualismo. Da una parte le idee essenzialiste su che cos’è la donna e quali sono le sue caratteristiche (la ricettività, la cura, il genio femminile) e quindi i suoi compiti: ancillari, di servizio, tutt’al più con qualche “quota rosa”. Non che non ci siano degli aspetti qualificanti il femminile, ma sono sempre tensione con altri e non sono mai esclusivi: la dimensione della cura, dell’ascolto, della costruzione di prossimità sono parimenti maschili e femminili, anche se vengono declinati diversamente, secondo l’unicità di ciascuno.

La concezione essenzialista, che di fatto relega “per natura” la donna in una posizione di marginalità rispetto ai processi della Chiesa, è molti passi indietro se rapportata a quanto le Scritture ci consegnano, dove il tema della femminilità si intreccia con la storia della salvezza in modo inscindibile, oltre che ricco e articolato: è per tramite di una donna che accade il miracolo e mistero dell’incarnazione, e dall’iniziativa di questa donna (onorata anche nel Corano) parte la rottura di tante convenzioni sociali del nome di un disegno più alto; è alle donne che viene consegnato il corpo di Gesù morto, ma anche l’annuncio della resurrezione; e sono le donne che seguono Gesù, insieme agli apostoli, portando il loro contributo alla trasformazione del modo di vivere la sequela – Susanna un nome tra le tante.

La Chiesa, istituzione divina e umana, ha fatto scelte legate a un tempo culturale e storico ormai mutato, che oggi possono e devono essere messe in discussione, senza per questo toccare i dogmi e generare scismi. Non discende dalle Scritture che la formazione dei sacerdoti debba essere confinata in spazi separati dal mondo e chiusi, dove le donne hanno accesso solo in posizioni subordinate. Papa Francesco ha affermato che il pastore deve avere l’odore delle pecore! Ambienti di soli uomini, separati dal mondo, possono diventare teatri di distorsioni e perversioni, come la storia tristemente ci insegna. Non imparare dagli errori sarebbe un grave peccato di omissione.

Basandosi su una rigenerazione profonda del rapporto uomo-donna nella Chiesa, ispirata alla ricchezza delle Scritture, si possono pensare modi nuovi di presenza femminile, che non si riducano alla rivendicazione di spazi dentro una mappa che mantiene le stesse coordinate. La sfida, non solo per la Chiesa ma per una cultura che scambia l’egemonia tecnoeconomica per libertà individuale, è come dare carne e forma alla verità antropologica della reciprocità.

I processi culturali non si cambiano tagliando teste o ribaltando i rapporti di potere, ma esercitando la forma più alta di libertà. Che non è scegliere tra ciò che c’è già, ma far esistere ciò che ancora non c’è. La chiamo libertà generativa. E non si genera mai da soli. Serve un cambiamento di sguardo che orienti i processi e faccia maturare trasformazioni. Non è passando da un “eccesso semantico” (tutto è già detto e scritto) a un difetto semantico (possiamo riscrivere tutto come ci pare) che ci si libererà e si porranno le condizioni per un mondo vivibile.

Anche la Chiesa, come la cultura contemporanea, ha spesso tradito una verità fondamentale che anche la scienza degli ultimi decenni ha ribadito con forza: tutto è in relazione, tutto è connesso con tutto. Separare, astrarre, è una forzatura che va contro la legge della vita (e della rivelazione). Compreso il separare, per non parlare del contrapporre, uomo e donna, maschio e femmina. Ripensare questo rapporto secondo una antropologia relazionale può portare un contributo non solo alla rigenerazione di una Chiesa in affanno, ma anche di una società dove il disagio (anche dei più giovani) è un dato in crescita e preoccupante.

Il ripensamento dentro la Chiesa non può essere quindi, almeno in prima battuta, una questione di ruoli.

La sfida è quella di una nuova reciprocità in tutte le fasi della vita della Chiesa, dalla formazione dei sacerdoti all’accompagnamento reciproco tra sacerdoti e famiglie.

Soprattutto, va riconquistata una dimensione troppo spesso dimenticata: quella del senso.

La prevalenza della funzione sul senso emerge per esempio dal fatto che i sacerdoti sono oberati di burocrazia e non hanno tempo per la prossimità, o dal fatto che le chiese moderne sono brutte: non basta un luogo per celebrare la messa (funzione), ma questo luogo deve comunicare bellezza, unità, apertura alla trascendenza (senso). Non basta celebrare la messa (funzione): una celebrazione sciatta contraddice ciò che vorrebbe rendere presente (senso). Dobbiamo abbandonare l’illusione che pratiche e procedure garantiscano la trasmissione della fede e recuperare, invece, la dimensione simbolica. Nella rivelazione tutto è simbolo. In un mondo “diabolico” (da dia-ballo, divido), dove anche la contrapposizione maschio/femmina risponde a questa logica di frammentazione, serve più simbolo (da sun-ballo: metto insieme, ricompongo in unità).

La trinità stessa è simbolo della relazionalità costitutiva, matrice della vita; di una unità nella differenza che è condizione di comunione; di una reciprocità nella paternità/filiazione – nella generatività – che è condizione di ogni dinamismo vitale.

Ricomporre senza cancellare le differenze, ma valorizzandole. Maschio e femmina non sono opposti, ma due facce del simbolo dell’umano. L’identità di genere non è una scelta individuale, ma una dimensione relazionale che fiorisce grazie alle relazioni con chi ci ha preceduto e con chi ci aiuta a capire chi siamo. L’individualismo radicale, che vede il genere solo come scelta individuale, è violento e distruttivo, anche nella Chiesa.

La cultura cristiana non deve tornare a un essenzialismo discutibile, ma riconoscere il valore simbolico del maschile e del femminile: un’unità fatta di differenze in relazione tra loro. La “miseria simbolica” del nostro tempo colpisce anche la Chiesa. Non si deve partire dalla rivendicazione di ruoli per le donne, ma da una rivoluzione copernicana: l’essere umano, maschio e femmina, al centro del mondo (per coltivarlo e custodirlo, non per sfruttarlo!). Senza questa consapevolezza, ci saranno solo scontri e scismi.

Da una antropologia rinnovata può partire un autentico processo di trasformazione, fondato su quella verità che il Vangelo ci presenta: una pluralità in cui la donna ha sempre un ruolo senza bisogno che le venga assegnato d’ufficio perché se lo prende, essendo capace di iniziativa autorevole, attenzione, attesa, speranza, fiducia e lungimiranza. In un mondo in cui l’unica fonte di liberazione sembra quella del delirio transumanista, dove i corpi sono ciò che se ne può fare, e dove da individui separati da tutti alla fine restiamo vittime di un sistema tecnoeconomico che ci usa come cavie per il suo stesso sviluppo, come usa i nostri dati e i nostri scambi social per nutrire un’Intelligenza Artificiale sempre più capace di controllarci e manipolarci, la tradizione cristiana ha un messaggio di libertà che passa anche da un rinnovato rapporto tra maschile e femminile, dentro una tradizione rigenerata. Se vogliamo essere liberi, torniamo al vicolo benefico della relazione e diamo forma conseguente al nostro stare nel mondo. Solo per questa via, credo, non distruggeremo la terra. Solo per questa via la Chiesa non solo non distruggerà se stessa, ma potrà continuare a curare le ferite del mondo.

di Chiara Giaccardi