Ci sono tre aspetti nella questione armamenti che si richiamano a vicenda. La visione del profeta assume una sconcertante attualità, nel momento in cui scopriamo di avere un disperato bisogno di aratri e di falci, di grano e di pane, di alimenti per la vita, piuttosto che di strumenti di morte
«Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra» (Is 2,4). La profezia dei tempi messianici si è rivelata piuttosto un’utopia e anche oggi corre tale rischio. Al credente nel messia annunziato dai profeti si pone la domanda: che atteggiamento assumere di fronte alla guerra e al proliferare delle armi nel nostro mondo così martoriato?
La questione si presenta a tre livelli. Il primo: se sia utile incrementare la spesa per gli armamenti fino al 2% del PIL. Papa Francesco su questo è stato oltremodo chiaro: «Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2 per cento del Pil per l’acquisto di armi come risposta a questo che sta accadendo, pazzi!». Lo ha detto durante l’udienza concessa al Centro Femminile Italiano il 24 marzo scorso. E ha aggiunto «La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari – ha affermato il Pontefice -, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti, un modo ormai globalizzato, e di impostare le relazioni internazionali». Possedere più armamenti significa anche volerli utilizzare e questo è vero per i singoli (si veda l’escalation di violenza negli USA a causa della facilità di armarsi delle persone) come per gli stati. Qualcuno a tal proposito ha evocato il film di Alberto Sordi del 1974: “Finché c’è guerra, c’è speranza”. L’acquisto di più armamenti incoraggia e sostiene chi li fabbrica, mentre ne suggerisce l’uso a chi li acquista. Chi a suo tempo ha assunto impegni in questa direzione con i partner del patto atlantico è tanto responsabile di questa scelta nefasta quanto coloro che andranno a votarla in parlamento.
Il secondo livello della questione riguarda la scelta di inviare armi alla nazione ucraina, invasa dalla Russia di Putin. Gli osservatori più attenti sottolineano che questa scelta prolunga le ostilità e non favorisce la pace. Come ha ben sottolineato il vescovo Giovanni Ricchiuti, presidente di Pax Christi, sulle pagine di Avvenire dell’11 marzo. Al giornalista che gli chiedeva: «Come giudica il voler contribuire alla risoluzione del conflitto rifornendo l’Ucraina di armi?». Ha risposto papale papale: «L’Italia non poteva mandare le armi all’Ucraina, perché l’articolo 11 della Costituzione è fin troppo chiaro. Lo è anche la legge 185/90 – di cui don Tonino Bello fu uno dei suoi promotori – anche se il Consiglio dei ministri ha voluto sfruttare la possibilità che la legge prevede di una deroga, con l’assenso della Camere, per mandare armi a un Paese in guerra. Come uomo, come credente e come vescovo, non mi stancherò di dire questa è la strada sbagliata. Un consigliere regionale della Puglia, Fabiano Amati, ha definito nei giorni scorsi quelli che sostengono queste posizioni dei “pacefondai”. È un’espressione che lui usa con dileggio ma che accetto di buon grado». Forse il ricorso alla Costituzione è inappropriato, perché si riferisce solo a una parte dell’art. 11, tuttavia anche se ritenuto costituzionale l’invio di armi è inopportuno e pericoloso. Sembra sempre più diffondersi nel Paese quello che Marco Tarquinio chiama un “conformismo bellico” col conseguente dileggio del pacifismo, come se l’invito di Gesù a “porgere l’altra guancia” e ad “amare i nemici” dovesse riguardare solo i singoli e non anche i popoli e gli stati. In tal caso la fede cristiana e l’etica che da essa emana sarebbe relegata alla sfera privata, con scarsa incidenza o completa irrilevanza nella sfera politica.
Infine: la proposta di costituire un esercito europeo. Ho preso una posizione netta a questo riguardo in un elzeviro apparso su “Agorà” di Avvenire il 30 marzo, augurandomi che nelle coscienze dei cittadini e di quanti hanno a cuore il futuro possa emergere la domanda: possibile che, dopo l’unione monetaria, sia da perseguire quella militare? Non siamo chiamati invece a ripensare la nozione di “guerra giusta”, come suggerisce la Fratelli tutti (https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/verit-giustizia-e-pace-armi-non-solo-cristiane?). Che immagine di Europa (e in un certo senso di cultura occidentale) emergerebbe dalla scelta di dotarla, dopo una banca, di un esercito? «Le sue fondamenta sarebbero il denaro e le armi. C’è da chiedersi se sia questo che vogliamo per il futuro nostro e dei ragazzi che lo erediteranno. Un esito semplicemente monetario e militare della configurazione europea lancerebbe il messaggio di una idolatria del denaro e della violenza, alla quale si immolerebbe la comunità e si sacrificherebbero i suoi ideali. Allora diventa fondamentale ritornare a ciò che unisce gli europei, perché, se si trattasse solo dell’euro e delle armi, non credo che saremmo messi bene. Eppure, avremmo radici a cui attingere e di cui non vergognarci, che potrebbero parlare al resto del mondo mostrando l’anima di questo continente, al cui declino dovremmo fortemente opporci».
I tre aspetti della questione armamenti vanno tenuti certamente distinti e trattati con differenziata valenza etica; tuttavia, essi non sono del tutto separati, in quanto si richiamano a vicenda. La profezia di Isaia assume una sconcertante attualità, nel momento in cui scopriamo di avere un disperato bisogno di aratri e di falci, di grano e di pane, di alimenti per la vita, piuttosto che di strumenti di morte.