È destinata a restare nella memoria la scena, sabato mattina nel Duomo di Milano, dei vescovi delle diocesi lombarde intenti a prendere appunti mentre una dozzina di ragazzi seduti attorno a ciascuno di loro parlavano con padronanza e disinvoltura di grandi temi personali e planetari, dall’ecologia agli affetti. Una prospettiva rovesciata rispetto al consueto, per avviare un dialogo diretto che sarà l’asse del progetto «Giovani e Vescovi» lanciato dalle Chiese della Lombardia con un incipit clamorosamente bello tanto è stato nuovo, vero, promettente. C’è forse un modo più calzante per definire lo scenario di una cattedrale maestosa disseminata di grandi tavoli – navate laterali, transetto, abside, ovunque ci fosse uno spazio libero – per far incontrare le riflessioni a impaccio zero dei giovani e l’ascolto attento dei loro pastori?
Che ci si parli non è certo una novità, le Giornate della gioventù vivono dell’incontro tra Chiesa e nuove generazioni. Dirompente è semmai l’assunzione del dialogo tra pari come un metodo destinato a dissodare il terreno dell’incontro e della missione. La questione giovanile è aggrovigliata, e la scomparsa di molti adolescenti e giovani dai percorsi educativi della Chiesa pone interrogativi che chiedono di essere affrontati. Nessuno dice che è facile: a scavalcare la montagna di un tempo incerto e di una cultura che semina imposture sarà un sentiero stretto assai più che una comoda autostrada. Ma la Chiesa italiana sa oggi più di ieri che seguendo la direzione del dialogo e dell’ascolto c’è un passaggio. Stretto, ma c’è. Si tratta di metterlo in sicurezza, senza lasciare che la vegetazione delle solite cose e di un certo scetticismo diffuso faccia sparire il valico.
Se ci si mette tutti in gioco, può succedere come oggi a Milano: alla fine tutti molto più che contenti, motivati a sentirsi di nuovo all’inizio di un viaggio nella migliore delle compagnie, come i discepoli sul mare di Galilea, e non dentro un vicolo che si sospetta a fondo cieco. È chiaro che per i giovani – i giovani cattolici anche di più – conta sapersi presi sul serio da una Chiesa che alla fornitura del pacchetto tutto incluso per attraversare la vita preferisce l’impegno di accompagnarli fedelmente ovunque si trovino. In un tempo di solitudini che sgomentano fa una grande differenza. Chi in cuor suo ambisce all’autenticità di un’appartenenza cristiana in ogni ambiente, e però dubita di farcela, chiede oggi di sentirsi sostenuto da una presenza fraterna che non viene meno davanti a nulla, su cui contare anche quando la navigazione porta in acque tempestose. Che non giudica ma ascolta, indirizza senza opprimere, perché capisce fino in fondo che la nostra umanità non è mai tutta d’un pezzo. E allora succede che i giovani e i loro padri nella fede si possano incontrare come tra gente che credeva di essere distante e invece si è ritrovata in una casa sentita fino in fondo come la propria. Il posto migliore dove spendere la vita e invitare altri a entrare.
La prova è il clima di gioia profonda che si respirava sul sagrato del Duomo al termine di quasi tre ore di confronto in quattordici tavoli, con altrettanti vescovi al fianco di duecento giovani tra i 18 e i 30 anni dalle più disparate esperienze personali, studentesche, professionali ed ecclesiali. Tutto così bello da far dire agli uni e agli altri “ecco, così si fa”. È servito a capire che lo stile di un percorso “sinodale” anche tra i nostri ragazzi dev’essere la condivisione sincera di domande, esperienze, inquietudini, fragilità e slanci, sentendosi parte – giovani e Chiesa – dello stesso tempo e abbattendo il muro invisibile che separa chi cerca le risposte e chi le offre. A definire dove e in chi trovare la parola di verità che si desidera sarà allora un’autorevolezza riconquistata con l’assoluta credibilità. Perché ora non si tratta di decidere quali attività mettere in campo per recuperare a parrocchie e oratori i giovani che sono andati altrove, o non sembrano interessati a nulla che sa di religioso, ma di avvertire che siamo tutti compagni di vita, complicata com’è, e che le questioni poste dai giovani ai loro pastori appartengono agli uni come agli altri. A tutti.
È la questione educativa riletta in una società post-pandemica che rischia di farsi divorare dalla fretta di riportare l’orologio all’ora di “prima” senza vedere che molto è cambiato nel cuore della gente, ragazzi in primis. Sta passando l’occasione per cambiare prospettiva, anche nella pastorale. I giovani ci stanno dicendo che ad ascoltarli fino in fondo, come i vescovi lombardi ieri, c’è molto da capire del nuovo attorno e dentro di noi.