Alla fine del 1300 un preoccupato confessore, Jean le Graveur, si accinse a trascrivere le visioni di Erminia di Reims, una giovane vedova ritenuta “fuori di testa”. Da quei sogni immaginifici emergeva una donna che desiderava uscire dalle anguste mura domestiche e girare il mondo, che sperava di risposarsi e auspicava di liberarsi del severo controllo del confessore per avere un dialogo più libero con Dio. Lo studio di quell’antico manoscritto, a noi pervenuto con il commento del raffinato storico André Vauchez, mette in luce la paura degli uomini del passato per ogni manifestazione di autonomia femminile, la difficoltà, cioè, di accettare spazi di libertà per le donne: i sogni di Erminia, infatti, furono giudicati l’esito di tentazioni demoniache.
La paura nei confronti delle donne è stata, ed è ancora in molti contesti, una delle grandi paure dell’Occidente. Lo è anche nella Chiesa? e in quale misura?
Già a partire dal concilio Vaticano II , il Magistero ha mostrato una nuova attenzione e sensibilità nei confronti delle donne difese nella loro dignità e valorizzate per quello che Giovanni Paolo II definì il genio femminile, ma molto ancora rimane da fare per superare resistenze e pregiudizi. Lo stesso papa Francesco ha recentemente affermato che «dobbiamo andare avanti per inserire le donne nei posti di consiglio, anche di governo, senza paura» mostrando, tra le righe, quante difficoltà ancora esistono nell’accettare una piena, autorevole e responsabile partecipazione femminile nella vita della Chiesa. La paura esiste ancora. Ma in cosa consiste questo timore nei confronti delle donne? Uno sguardo sul passato può forse aiutare a comprendere i motivi profondi di questa emozione primaria di difesa che gli uomini esprimono attivando pratiche di negazione o emarginazione. Soprattutto perché non sempre è stato così.
La comunità delle origini
Certamente Gesù non aveva paura delle donne. Anzi da lui è iniziata la più radicale liberazione femminile. Con le donne, infatti, è entrato in un dialogo empatico, offrendo ascolto, partecipazione affettiva, spazi di azione; a loro, così come ai maschi che lo seguivano, ha rivolto messaggi di salvezza, annunciato le esigenze del Regno, chiesto scelte radicali. Le donne non venivano considerate una categoria a parte, da emarginare o da compatire, e con il Maestro di Galilea condividevano vita, attese e azioni. Per questo i discepoli erano imbarazzati e non capivano il suo modo di relazionarsi maturo ed equilibrato con il genere femminile e, soprattutto, avevano difficoltà ad accettare il suo essere libero da condizionamenti e tabù. Infatti, se nella cultura ebraica il corpo femminile era tenuto sotto controllo per non contaminare il sacro (Numeri 15,38) e, pertanto, era escluso dalle attività di culto per mezzo di stringenti normative, con Gesù esso non è più luogo e causa di segregazione e di esclusione perché niente può rendere impura una persona se non il male che compie e che nasce dall’intimo del suo cuore deviato (Marco 7,15). Allo stesso modo si è mostrato alieno da ogni limitazione pregiudiziale: oggi lo diremmo un uomo inclusivo. Lo esprime bene nel dialogo con la samaritana dove esplicita come la presenza di Dio non sia legata a un luogo sacro (il Tempio) e come il rapporto con il trascendente non sia privilegio di un’etnia (l’ebraica), di una condizione sociale o religiosa (il ministro del culto) o di un sesso (il maschile), ma sia possibile a ogni persona che lo sappia accogliere «in spirito e verità» (Giovanni 4,23).
Successivamente i seguaci di Gesù non furono sempre coerenti con il suo comportamento libero: «si meravigliavano che parlasse con una donna» (Giovanni 4,27), provarono risentimenti e mostrarono gelosia per l’autorità della Maddalena (vedi, anche i testi gnostici), riproposero ruoli tradizionali («voi mogli state sottomesse ai vostri mariti») e antiche strutture patriarcali («la donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di dominare sull’uomo» 1Timoteo 2,11-12). Eppure, nelle comunità delle origini troviamo donne, come Lidia di Filippi, Tabità, Priscilla, Cloe, Ninfa che offrivano ospitalità nelle loro case, veri luoghi di accoglienza, di preghiera e di evangelizzazione, oppure cristiane impegnate nel campo della carità, del diaconato, della catechesi, dell’evangelizzazione, della missione e dell’apostolato come le donne menzionate con rispetto e gratitudine dall’apostolo Paolo: la diaconessa Febe, le missionarie Priscilla, Evodia e Sintiche, l’apostola Giunia, le evangelizzatrici Trifena, Trifosa e Perside, le benefattrici Apfia e Ninfa. Ma né questa presenza di donne attive e collaboratrici, né l’esempio di Gesù sono stati determinanti nel dare un assetto inclusivo alla chiesa nascente che abbracciò la cultura e le strutture patriarcali dominanti nelle società circostanti con le quali venne a contatto. Maddalena è stata presto dimenticata (san Paolo non la nomina neanche) e travisata (da discepola è diventata a partire da Gregorio Magno una prostituta pentita) le diaconesse hanno rivestito nel tempo un ruolo sempre più marginale, la profezia femminile è stata soffocata, le mogli sono state riconsegnate al loro ruolo di spose sottomesse, il corpo delle donne è ritornato ad essere un tabù.
L’antica ginecofobia
Gli antichi autori cristiani condivisero sostanzialmente l’antropologia della cultura greco-romana che poneva al centro la superiorità del maschio e furono sostanzialmente concordi nel ribadire l’imperfezione e l’insufficienza della natura della donna, nata per essere sottomessa all’uomo. E per sant’Agostino, se i due sessi erano stati creati a immagine di Dio in una sostanziale uguaglianza spirituale, tuttavia, la subordinazione femminile era determinata dall’ordine della creazione. Questa concezione attraversò il cristianesimo rafforzata dall’incontro con l’antropologia di Aristotele: il genere maschile era modello dell’umano e la donna un maschio mancato. Tale visione fu accolta e integrata nella filosofia Scolastica e, nello specifico, nella teologia di Tommaso d’Aquino, costituendo nei secoli il fondamento dell’inadeguatezza del genere femminile sia a svolgere le mansioni di potere sia a rappresentare l’immagine stessa di Dio. La scarsa conoscenza della fisiologia femminile, la paura di essere contaminati da una persona portatrice d’impurità, accrebbero i timori maschili verso la sessualità della donna da tenere a freno e lontana dai luoghi sacri. Ricordiamo il francescano Alvaro Pelayo, che, nel De statu et planctu ecclesiae, espose centodue motivazioni per dimostrare non solo l’inferiorità, ma anche la pericolosità della donna, «origine del peccato, arma del diavolo, espulsione dal paradiso, madre dell’errore, corruzione della legge antica». L’ossessione per il corpo femminile, desiderato e allo stesso tempo rifiutato e respinto, comparve con forza nei trattati contro le streghe manifestando una crescente paura nei confronti di donne che divennero per alcuni secoli capri espiatori di antiche e profonde angosce.
Anche la legge del celibato ecclesiastico, che si affermò nel XII secolo durante un consolidato processo di istituzionalizzazione della Chiesa, favorì inevitabilmente l’affermazione di una concezione negativa della donna, che veniva allontanata dai luoghi sacri perché ritenuta impura. La continua trasgressione da parte del clero portò il concilio di Trento ad attuare un’impostazione educativa più vasta e appropriata, puntando, attraverso l’istituzione dei Seminari, alla formazione spirituale e culturale del clero, severamente educato e separato dal mondo laico. Ne fu segno eloquente la pedagogia di Paolo Segneri che nella donna individuava la punta massima di pericolosità; dire corpo significava indicare un’insidia permanente per la vita virtuosa. Ecco allora l’incremento di una precettistica nella quale il sospetto di peccato gravava sulla natura stessa della donna percepita come minacciosa e che caratterizzerà la Chiesa della Controriforma fino alle soglie del concilio Vaticano II .
Il superamento della paura
Certamente la devozione mariana aiutò a riscoprire la dignità della donna e ispirò alcuni fondatori, tra cui Guglielmo da Vercelli, a progettare una comunità doppia (maschile e femminile) guidata da una donna, la badessa. È il caso del monastero del Goleto e della sua appassionante storia le cui vestigia sono ancora visibili oggi in Irpinia. Ma, ancor di più, ci sono esempi nella storia della Chiesa di feconda amicizia tra uomini e donne. Non si potrebbe comprendere, altrimenti, l’intesa, profonda e intensa tra Chiara e Francesco d’Assisi che propongono e vivono una fraternità-sororità nelle quali trova accoglienza chiunque voglia seguire il Cristo povero e desideri instaurare relazioni di reciproco sostegno. Non si potrebbero comprendere le molteplici esperienze di vita religiosa, come quelle nate dal lavoro comune di Francesca di Chantal con Francesco di Sales, di Luisa di Marillac con Vincenzo de’ Paoli, di Leopoldina Naudet con Gaspare Bertoni, per citarne alcune. Non potremmo avvalerci oggi di comunità innovative nate dalle provocazioni profetiche della missionarietà se non ci fossero state coppie di fondatori come Maria Mazzarello e don Bosco, Teresa Grigolini e Daniele Comboni o Teresa Merlo e Giacomo Alberione. E non capiremmo le tante amicizie che si sono nutrite di fede e di passioni comuni. Come non ricordare. per arrivare a tempi a noi più vicini, il cammino mistico che accomunò Adrienne von Speyr con Hans Urs von Balthasar e l’attivismo culturale di Romana Guarnieri che legò la sua vita indissolubilmente a don Giuseppe de Luca? Esempi, questi citati, segnati da rapporti intensi di profonda consonanza, di affetto intimo e sincero, di mistico pudore. L’amore, nel sentirsi radicati in Cristo, diviene superamento delle paure, spazio di libertà e di maturazione riformulando i rapporti tra donna e uomo nella dimensione amicale del reciproco sostegno.
Il ritorno all’utopia
Oggi ha ancora senso parlare di paura delle donne? Nessuno crede più alle streghe e ben altri capri espiatori hanno catalizzato le paure dell’umanità. Finalmente si è affermata una cultura di genere antidiscriminatoria e papa Francesco ha avviato un fondamentale processo di declericalizzazione nella nostra Chiesa, sollecitando continuamente la presenza significativa delle donne nelle strutture della comunità ecclesiale. Nonostante i tanti cambiamenti culturali dei quali siamo partecipi, le istituzioni ecclesiastiche però fanno fatica a accettare le donne in ruoli di responsabilità. Probabilmente perché non si è lavorato abbastanza sulla formazione del clero che a volte, come ha affermato recentemente il cardinale Marc Ouellet, «non ha un rapporto equilibrato con le donne», perché non è stato educato a interagire con loro attraverso scambi e confronti. Occorrerebbe allora una profonda opera pedagogica nei confronti degli uomini che dovrebbero riflettere su di sé e sulla propria mascolinità spesso violenta, sulla difficoltà di accogliere le diversità e fragilità umane e sulla complessità di mettere in comune con l’altro sesso sentimenti e progetti. Dovrebbero apprendere ad amare le donne, riconoscendole come singolarità, accettando di condividere con loro autorità e responsabilità. Sarebbe forse allora opportuno riprendere la visione poetica e utopica di alcuni testi sacri. Nel racconto mitico delle origini, infatti, l’incontro di Adamo con Eva non è segnato dalla paura, ma dalla meraviglia per la scoperta di un tu nel quale rispecchiarsi. Nello stesso orizzonte poetico si colloca il Cantico dei Cantici che riprende ed esalta la reciprocità dei generi in uno straordinario canto d’amore dove è la donna, autonoma e responsabile, a riconoscersi nell’uomo, che depone il suo comportamento prevaricatore per trovare in lei riparo. Nell’amore le logiche di dominio svaniscono e la paura non ha motivo di esistere.
di Adriana Valerio
Storica e teologa, docente di Storia del Cristianesimo e delle Chiese
all’Università Federico II di Napoli,
autrice del libro «Donne e Chiesa. Una storia di genere», Carocci,
e «Il potere e le donne nella Chiesa», Laterza