La diaconia del servo di Jahwè
«Un angelo del Signore parlò intanto a Filippo: “Alzati e va’ verso il mezzogiorno sulla strada che va da Gerusalemme a Gaza, essa è deserta”. Egli si alzò e si mise in cammino». Questo è un racconto fondamentale per la figura del diacono nel Nuovo Testamento. Ho letto Atti 8, 26-27a.
Filippo è un diacono e fa parte di quel collegio che era stato creato dal collegio degli apostoli per un’esigenza delle chiese. Bisognava svolgere un servizio molto concreto, condividere le cose in maniera equa, accorgersi delle persone presenti, fare in modo che non ci fossero ingiustizie. E siccome gli apostoli dovevano occuparsi dell’annuncio della Parola, si crea il bisogno di istituire i diaconi legati alle mense ed al servizio di esse.
Tra i diaconi, ancor prima di Filippo che possiamo considerare un gigante tra i diaconi, c’è Stefano. Il capitolo precedente, infatti, è una sorta di rilettura di tutta la storia biblica della salvezza nel discorso pronunciato da Stefano. Questi diaconi servivano le mense, ma facevano anche qualcosa di molto più importante. Se noi riteniamo quel servizio delle mense solo una sorta di camerierato, allora dobbiamo affermare che i diaconi sono qualcosa di più! Stefano è il grande ermeneuta del Primo Testamento riferito a Gesù.
Non potremmo conoscere Gesù senza il discorso di Stefano, non potremmo sapere chi sia Gesù nel lungo percorso dell’amore di Dio verso il suo popolo, se non avessimo il capitolo di Atti 7. Stefano diacono, dunque, è il primo grande pilastro della Chiesa. È il protomartire, lo festeggiamo non a caso il 26 dicembre. E sul sangue dei martiri nasce la Chiesa.
Credo che non per nulla Luca abbia introdotto per la prima volta la figura di Paolo nella vicenda di Stefano. Paolo era chiaramente tra coloro che lapidarono Stefano, la sua è un’entrata un po’ brusca, ma poi sappiamo come Paolo diventerà un grande apostolo anche dell’Occidente, tanto è vero che il libro degli Atti si chiuderà a Roma in un appartamento preso a pigione, dove questi si intratteneva con le persone e annunciava il Vangelo.
Quindi prima Stefano e ora Filippo. Filippo era un apostolo di Samaria, un diacono apostolo. Gesù agli inizi degli Atti aveva chiesto agli Apostoli di annunciare e aveva dato loro una consegna: voi annuncerete questo Vangelo a partire da Gerusalemme. Gerusalemme, quindi, diventa la prima città da evangelizzare. In seguito aveva citato la Samaria, salendo verso il Nord. Cominciamo allora a pensare che essere diacono delle mense fosse qualcosa di gran lunga maggiore rispetto a quello che un buon cristiano della domenica possa pensare.
Il diacono non è un semplice cameriere. Assolutamente no! È invece un grande apostolo. Se pur i diaconi servivano le mense occorre dire che queste non erano delle semplici cene poiché contenevano un primo momento di condivisione del cibo e, un secondo momento, della memoria della Cena del Signore. Quindi, c’era una funzione da parte del diacono, potremmo dire ante litteram, sacramentale. Era così che si servivano le mense.
Anastasi!
Tornando al brano iniziale, si può seguire quasi come con una telecamera e in modo dettagliato in che cosa consiste l’azione del diacono. Un angelo del Signore parlò a Filippo. Primo protagonista di questa narrazione è un angelo che parla a Filippo e che diventa il regista di quello che accade nella sua vita. «Alzati e va’». È questo il comando dell’angelo. Anastasi! Anche il Signore si alza quando risorge!
Quindi viene detto a Filippo: Alzati! Prendi con te la forza del Signore Risorto e va’ verso il mezzogiorno, sulla strada che scende da Gerusalemme verso Gaza. Nella lingua greca Gaza significa “tesoro”, ma in questo caso è un nome proprio. Noi ci aspetteremmo che l’angelo dica a Filippo che c’è della gente su quella strada, invece gli dice che è deserta, non c’è nessuno.
Mettiamoci nei panni di Filippo in questo momento. Noi avremmo forse risposto all’angelo: ma che ci vado a fare? Perché devo andare su una strada dove non c’è nessuno? Invece Filippo non replicò, fece silenzio e si alzò. La sequela è il primo atto di questo diacono: alzarsi e andare. L’Etiope appare quando lui si è già alzato. “Seguire” significa alzarsi e andare senza chiarire perché si vada. Ecco che a questo punto appare un etiope, un eunuco funzionario di Candace, un servo potremmo dire della regina perché sovrintendeva a tutti i suoi bisogni e che si trovava lì perché era venuto per il culto a Dio in Gerusalemme.
Chi è questo personaggio allora? Intanto è un etiope. Chi sono costoro nella Bibbia? Sono tutti gli africani esclusi gli egiziani, i quali hanno dei nomi ben precisi perché l’Egitto è un mondo molto conosciuto nella Bibbia. Tutti coloro che invece restavano sotto, ovvero nelle cateratte precedenti del Nilo erano etiopi. L’Etiope ha un grande problema che è quello d avere la pelle scura.
Quindi di chi è figlio? Secondo il mito di origine delle razze umane che troviamo nella Bibbia in Genesi nella storia del diluvio riferito a Noè, questi sopravvive e diventa il padre dell’Umanità. I suoi figli sono tre: Sem, Cam e Iafet che corrisponderebbero alle tre razze del mondo.
L’Etiope è figlio di Cam che è il figlio meno nobile di Noè. Cosa ha fatto per essere considerato tale? Noè una sera si era ubriacato e Cam ha visto tutto. Quindi su questo figlio c’è una maledizione. Mentre i figli di Sem sono i prediletti, potremmo quasi dire che sono i figli di Dio, cioè i Giapetici tutti coloro dalla pelle bianca, i Camiti restano nell’ombra. Qui c’è un ossimoro. Da Filippo diacono di Samaria, popolo prediletto, si passa all’opposto, al popolo lontano sia per il colore della pelle nera sia perché su di essi c’è un’antica maledizione, sia perché l’uomo in questione è un eunuco.
Nell’economia della salvezza è l’uomo maschio più infelice che possa esistere sulla terra. È infelice perché non può ricevere né godere della benedizione di Dio che, per l’uomo biblico è la ricompensa per il giusto che crede. Abramo credette e gli fu accreditato come giustizia, si legge nelle Scritture. La benedizione consiste nel benessere, nella ricchezza fatta di prosperità, fecondità, del poter mangiare e costruire case. In una parola significa poter dare spazio alla vita. Dio benedice chi crede in Lui.
Il secondo grande segno della benedizione, è la salute, la lunga vita. Abramo aveva 175 anni quando muore! Nella Bibbia essere vecchio significa essere sazio di giorni, non dunque qualcosa che si toglie e se ne va, ma è pienezza della vita. Abramo muore perché sazio, pieno di vita: ormai è pronto a ricongiungersi, a riconciliarsi con i suoi padri.
Mentre moriva, inoltre, con lui c’erano i suoi figli: Isacco e Ismaele segno di una vita che infrange il muro del tempo di un’esistenza individuale perché si possa vivere in pienezza. Quando si muore, ci si riconcilia con i padri e si diventa futuro con i figli. Ecco allora il terzo motivo della benedizione di Dio: i figli.
Questi ultimi per un uomo, soprattutto genitori di figli maschi, sono segno di immortalità. Zacar significa appunto “immortalità” ed è il termine con cui vengono indicati i figli maschi. La prima forma di immortalità è il maschio. Da dove vengono i figli? Dal seme, dallo sperma. Paolo parlerà di Gesù come sperma di Abramo.
Il seme di un uomo che crede, che è alleato con Dio, passa attraverso un membro circonciso. Figlio di Abramo è Isacco, il figlio della promessa. Avere figli, nella Bibbia, è un fatto prevalentemente religioso perché l’uomo che ha figli è un uomo fedele. I figli passano attraverso la sua fisicità di cui la circoncisione ne è segno, sono frutto non della biologia, ma dell’Alleanza con Dio di cui il segno concreto è appunto la circoncisione.
Queste tre cose sono negate all’eunuco! Lui è un impotente, è un personaggio tagliato fuori da tutto, perché non avere figli significa anche non avere una famiglia, non avere dei beni. Non per nulla egli sovrintendeva ai beni di un altro. Non poteva avere nulla di quanto descritto finora come seme e benedizione di Dio. Dove andava, allora, questo eunuco? Proveniva dal Sudan, dove con molta probabilità si trovava Candace, aveva fatto un lungo viaggio.
Lui è un uomo impotente che cerca e lo dimostra il fatto che va a Gerusalemme. Non sappiamo come avesse fatto a sapere che lì ci poteva essere una speranza, ma sappiamo che la ricerca supera ogni logica umana. Lui non conosce il Dio degli Ebrei, non conosce Gesù ma è un uomo che non si rassegna perché si sente legato alla vita.
Da Gerusalemme, dunque, l’eunuco se ne tornava seduto sul suo carro da viaggio. Sicuramente era stato nel cortile dei Gentili, luogo dove poteva accedere un eunuco etiope e aveva conosciuto il profeta Isaia. Si portava dietro, nel suo carretto, forse la perla più preziosa di quel viaggio, la speranza racchiusa in quel rotolo del profeta. Tornava leggendo. Intanto lo Spirito dice a Filippo: «va’ avanti», cioè corri, accelera. In Luca lo Spirito e l’angelo sono sinonimi l’uno dell’altro, sono sempre uniti.
All’inizio del brano è un angelo che invita Filippo, ora è lo Spirito che lo invita a raggiungere quel carro. È una gara di velocità che gli viene richiesta perché se Filippo fosse arrivato un minuto dopo non avrebbe incontrato il carro dell’eunuco. Questa è la vera diaconia! Arrivare un attimo prima. Dove? Sulle strade del mondo, sulle strade di chi cerca e che un diacono deve conoscere, altrimenti la sua ricerca non sarà mai una diaconia.
Un diacono deve sapere se c’è un carro che è salito a Gerusalemme e che sta scendendo ma che non ha trovato tutto. Filippo allora corre perché se vuole incrociare quel carro deve correre (ricordiamo la corsa del discepolo che ama verso il sepolcro vuoto: è l’amore che fa correre). Filippo allora raggiunge il carro e nota che l’eunuco sta leggendo il profeta Isaia. Essere diacono significa innanzitutto: sequela, gambe buone e piedi buoni per correre e andare avanti, ascoltare. La diaconia dell’orecchio.
La diaconia è l’urgenza dell’ascolto. Il primo che nella Bibbia ascolta è Dio (cf. Esodo 4). C’è un grido del popolo a cui hanno ucciso i figli maschi, che non ha nessuno che lo difenda e che gli consenta diritto e giustizia, nessuno che gli riservi un territorio, uno spazio in cui vivere che è, tra l’altro, il primo atto di giustizia e di diritto alla vita. Dio ascolta il grido, il sangue di Abele che grida dalla terra (cf. Gen 4,10).
Nella Bibbia Dio viene catturato dal grido, si lascia tirare, perché ha l’orecchio fine. Il primo atto d’amore di Dio, dunque, è ascoltare. È il primo atto di dialogo perché è apertura senza risposte già precostituite prima ancora di ascoltare l’altro. Quante volte si va ad evangelizzare con risposte già pronte senza alcuna volontà di aprirsi all’esigenza di chi incontriamo. Qui sta il punto.
Qui entra in gioco anche la rivoluzione del Concilio Vaticano II che ci ha riconsegnato nelle mani le Scritture perché imparassimo. La vera rivoluzione sta nell’aprire l’orecchio al mondo, se non abbiamo il coraggio di sentire il morso delle domande che ci vengono rivolte, del sangue che ricopre quelle domande di chi sta tra la vita e la morte, se non abbiamo il coraggio di mettere il nostro stesso corpo davanti a queste domande, non potremo mai annunciare.
La lettura del profeta Isaia
Quando Filippo raggiunge il carretto ode che l’eunuco sta leggendo Isaia. Il cammino dell’eunuco passa per quella strada e attraverso la lettura del profeta Isaia. Da quello stesso luogo deve partire l’opera di evangelizzazione di Filippo che chiede se ha compreso quanto sta leggendo. Questa è carità autentica! Carità è aiutare a comprendere, è ermeneutica.
Aiutare a comprendere la Parola è far sì che quelle parole possano entrare nella vita. Potremmo conoscere tutti i libri del mondo, ma se nemmeno una parola ci è entrata nel profondo per trasformare la nostra vita, se nemmeno una parola è stata capace di risvegliare le nostre attese è come non aver conosciuto nulla.
Alla domanda di Filippo, l’eunuco risponde: «E come potrei?» Con tale risposta mostra tutta la sua intelligenza ed il suo autentico desiderio di sapere. Coloro che incontriamo sono alla ricerca, in cammino e noi siamo chiamati a superare il senso manicheo che ci fa credere che tutto quanto viene dal mondo non è buono. La strada ed il cammino sono comuni: ci si incontra sulla stessa strada e compiendo lo stesso cammino.
Si può comprendere la Parola solo spezzandola con un altro, non può essere vita se non la spezziamo, se non compiamo quel gesto che si ripete in ogni celebrazione dalla Liturgia della Parola a quella Eucaristica. Chi fa comprendere ed apre la strada compie un gesto di fraternità, si fa comunità, si fa Chiesa. L’eunuco, allora, invita Filippo a salire e a sedergli accanto.
Ecco un altro aspetto della deontologia diaconale. Non è il diacono che chiede di salire ma è lui stesso che aspetta di essere invitato a farlo. L’eunuco sente dentro di sé che Filippo è sintonizzato con lui e che gli potrà venire qualcosa di buono e così lo invita a salire. In questo gesto il grande diacono Filippo chiamato ad annunziare Gesù e che si trova in basso sulla strada è chiamato a salire sul carro dell’eunuco, di colui che è impotente.
Rovesciamento di una situazione! Paolo ci ricorderebbe che quando siamo deboli è allora che siamo forti (cf. 2Cor 12,10) e chi vuoi essere grande deve dimostrarsi ed essere piccolo, deve farsi diakonos, doulos: questi due termini sono quasi sinonimi e li troviamo come comune atteggiamento in Maria, la Madre di Gesù.
Con questo atteggiamento Filippo sale sul carro e si siede accanto all’eunuco, non parla dalla cattedra mentre l’altro ascolta, ma si pone accanto a lui orizzontalmente, si siede vicino per spezzare quella Parola. Il passo che l’eunuco sta leggendo è Isaia 53,7 e seguenti. «Come una pecora fu condotta al macello, come un agnello che non ha voce, muto davanti a chi lo tosa. Non apre la bocca». Troviamo una metafora in questi versetti poiché si parla di un personaggio che viene consegnato alla morte e non ha voce, cioè non ha nulla con cui potersi difendere, non può nemmeno belare ovvero non può gridare per opporsi.
Con la voce si grida, si piange, si chiede ma a costui viene negato persino questo. Il grido è la prima grande pagina della storia della salvezza. Il sangue grida e Dio ascolta, Dio arriva a soccorrere. A questo personaggio è negato anche questo: non apre la sua bocca, è un umiliato a cui viene negato il diritto, il giudizio che lo ha condannato è stato sommario.
Pensiamo alla morte di Gesù. Non certo la legge romana né la Torah lo hanno condannato a morte, ma la folla ha gridato la morte. Occorre stare attenti alle folle, anche le grandi tragedie del ‘900 sono venute dalla folla. Dunque al passaggio di questo muto condotto al macello si voltavano pensando che fosse maledetto da Dio.
C’è un raggio di speranza che però viene fuori da tutto questo buio, che emerge dalla Parola letta dall’eunuco, c’è una spaccatura che ammorbidisce la durezza ed è data dal versetto: «La sua posterità chi potrà mai descriverla?» (cf. Is 53,10). L’eunuco comprende di trovarsi di fronte ad una evidente contraddizione. Come mai a questo tale a cui è stata negata una terra, il giudizio, il presente, il futuro, potrà avere una discendenza? Chi mai la potrà conoscere questa discendenza se il futuro gli è stato negato?
Così l’eunuco prega Filippo di spiegargli il significato delle parole, glielo chiede con una preghiera accorata, una domanda profonda e non una semplice curiosità. Per lui capire questo è veramente importante, è questione di vita o di morte. L’eunuco vuole scoprire di chi il profeta afferma tutto questo, se di se stesso o di qualcun altro. Sappiamo bene che dietro questa domanda si cela la evidente risposta legata a Gesù. Filippo può finalmente parlare di Gesù e annunziare la Buona Novella.
Il servo è Gesù, è lui che ha parlato di se stesso come servo in Lc 22,26: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» e in Mc 10,42 quando nel discorso ai figli di Zebedeo rivela la sua identità: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuoi essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuoi essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita i n riscatto per molti».
La diaconia è il rovesciamento delle relazioni umane. Nelle relazioni umane di ogni genere chi governa è sempre colui che domina, cioè che sta sopra. Gesù invece chiede a chi governa di stare sotto. Filippo è salito, non è partito dall’alto. L’eunuco dopo aver ascoltato la Buona Novella di Gesù, raggiungendo il posto dove c’è l’acqua chiede di essere battezzato. Perché? Quant’anche avesse saputo che quanto annunziato da Filippo era stato detto da Gesù e che il profeta parlando di quella pecora muta si riferiva a Gesù, perché vuole entrare nel simbolo del Battesimo che lo innesta a Gesù, nel legame con Lui?
L’eunuco comprende che è anche di se stesso che il profeta sta parlando. Quella Parola fa uscire l’eunuco dalla sua impotenza. Questa è la meraviglia della fede cristiana e della Parola condivisa e spezzata. Qui le diaconie sono tre: c’è un diacono delle mense che è Filippo e parla ad un diacono della regina di Candace ed annunzia un Dio diaconale che è Gesù.
La diaconia è un mistero d’amore che trasforma la debolezza in potenza e forza. Ed ora non posso concludere senza citare le donne. In Marco 10 troviamo scritto: «Chi vuoi essere grande tra voi si farà vostro diakonos, e chi vuoi essere il primo tra voi sarà il doulos». Sottolineo come già detto che diacono e servo in Marco sono sinonimi e Maria, la Madre di Gesù è figura di entrambe. Perché così come l’eunuco anche una vergine è impotente, non può dare alla luce dei figli, il suo grembo è un grido perché è vuoto.
Per avere figli, per portare fuori il desiderio del frutto deve chiedere la pioggia simbolo della fertilità femminile. Maria come vergine è ancora più impotente delle donne anziane che però sono sposate, come Sara. La verginità è intesa come estrema impotenza che però diventa grido. Un ultimo sguardo lo voglio dare al brano di Luca 10,38 riferito a Marta e Maria.
È sottolineato anche qui come Marta era presa dai molti servizi, ovvero da pollen diakonian. Marta era dunque una diaconessa, così come lo era Febe che ritroviamo nella Lettera ai Romani 16,1 in cui è scritto di Febe come diakonon della Chiesa di Cencre. Purtroppo l’ultima traduzione della Bibbia del 2008 ha trasformato quella del 1974 e ha sostituito «Febe diaconessa della Chiesa di Cenere» con «la nostra sorella Febe che è al servizio della chiesa di Cencre». Questo non va.
Rosanna Virgili