Nato a Roma nel 1955, il cardinale Matteo Zuppi è stato ordinato presbitero per la diocesi di Palestrina nel 1981, e poi è stato incardinato nella diocesi di Roma nel 1988. Ha svolto il suo ministero in diverse parrocchie romane e, dal 2000 al 2012, è stato assistente ecclesiastico generale della Comunità di Sant’Egidio. Nel 2012, papa Benedetto XVI lo ha nominato vescovo ausiliare di Roma, per il Settore Centro. Nel 2015, papa Francesco lo ha nominato arcivescovo di Bologna e il 5 ottobre 2019 lo ha creato cardinale con il titolo di Sant’Egidio. È membro dei Dicasteri per il servizio dello sviluppo umano integrale; per le Chiese orientali; per l’evangelizzazione; e dell’Ufficio dell’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica. Il cardinale ha accolto gentilmente La Civiltà Cattolica, a Roma, nella sede della Conferenza episcopale italiana, della quale ha assunto la presidenza il 24 maggio 2022. Con semplicità e spontaneità, ha condiviso con noi le proprie riflessioni e attese sulla Chiesa e sul ruolo che essa svolge nella società italiana. Dal dialogo sono emerse la sua visione pastorale e missionaria e la sua vicinanza alle problematiche contemporanee in un mondo che cambia velocemente. Riguardo alla Chiesa in Italia, il card. Zuppi è convinto che essa abbia un peso che va molto al di là dei confini che possiamo immaginare: «Quella di tracciare dei confini chiari – ci ha confidato – è una tentazione dalla quale il Papa ci mette in guardia», per cui non possiamo fare a meno «di parlare con tutti e ascoltare tutti».
Una recente ricerca sul comportamento religioso degli italiani, condotta dalla rivista «Il Regno», conferma la tendenza di una progressiva diminuzione della pratica sacramentale e, in particolare, della partecipazione alla Messa domenicale. Come è percepita dai responsabili ecclesiali questa crescente disaffezione?
Credo che questa sia la questione centrale, che spiega e motiva la visione pastorale e missionaria di papa Francesco. Una visione condensata nell’Evangelii gaudium (EG), che è un po’ il diapason che ha dato la nota a tutti i successivi passi del suo pontificato. E questo di fronte a un cambiamento antropologico generale profondissimo, che travolge tutti, ovviamente anche le nostre comunità. Quello della partecipazione è un piano inclinato progressivo, che assomiglia a quello parallelo in Italia della denatalità, di fronte al quale sembra difficile trovare delle risposte. Dovremmo forse interrogarci, però, anche sul fatto che sono 40 anni che parliamo di evangelizzazione, e chiederci quali sono i problemi che incontriamo, perché questo piano inclinato continua e anche perché alcuni ambiti invece non soffrono crisi. Le verifiche ci aiutano. Pensiamo ai santuari che, a differenza di tanti luoghi più «coltivati», non soffrono un calo di presenze progressivo e così accentuato.
Ci sono delle cause identificate e delle strategie per affrontare la situazione?
Le reazioni all’osservazione di questo fenomeno sono varie, come lo sono le reazioni alle proposte di papa Francesco. C’è quella identitaria, muscolare, «conflittiva», di fronte al mondo che si trasforma e ci trasforma. La possiamo sintetizzare nel «chiudiamoci in un monastero», evocata da un noto libro di qualche anno fa[1]. Una Chiesa che deve resistere; che all’interno rimprovera a sé stessa di non essere abbastanza identitaria e che all’esterno si disinteressa della missione, ma piuttosto, preoccupandosi di serrare le fila, di ridire «chi siamo»; che scambia «il favore di tutto il popolo» degli Atti con la debolezza e intende lo scontro come difesa della verità; che parla solo «ai nostri» piuttosto che farlo preoccupandosi di parlare agli altri; che non va in cerca della pecora smarrita e mette alla prova quelle che tornano. Il dialogo non è nascondimento della verità. Verità e amore vanno sempre insieme, hanno bisogno l’una dell’altro. E non dimentichiamo l’ammonimento di papa Benedetto: all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona. L’incontro con Gesù compie il contrario di quello di cui veniva accusata la religione: ci fa entrare in noi e nella storia, liberandoci da un individualismo «dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (EG 94). Amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso, e in Gesù incontriamo Dio.
Chiudersi è una posizione che io ritengo debole e che ci fa pensare deboli di fronte al mondo, tanto che ci sentiamo di affermare la nostra verità come condizione previa del dialogo o come se il dialogo nascondesse la verità invece di spezzarla, renderla viva. Il problema è guardare, ascoltare, parlare con la verità che è Gesù e incontrare tutti. Certo, abbiamo la necessità di formazione, di educare alla fede e alla vita e c’è il rischio di annacquare tutto, di rendere il Vangelo una lontana e insignificante ispirazione religiosa, che non chiede nulla, che non deve disturbare, ma garantire il benessere all’io senza aprirsi e perdersi. Viviamo l’oggettiva difficoltà della dimensione missionaria. L’Evangelii gaudium ha stabilito la necessità di un coinvolgimento di tutta la comunità, ma il discorso dell’evangelizzazione accompagna la Chiesa in Italia dal Concilio Vaticano II, con tanti progetti che non hanno avuto i risultati immaginati. Dobbiamo chiederci perché la Chiesa riesce a comunicare troppo poco, tanto che è identificata con un sistema di regole morali del quale però non spieghiamo il contenuto: insistiamo sulla lettera, ma non sappiamo spiegarne lo spirito. Insomma, una Chiesa poco attrattiva e poco vicina alle scelte delle persone, in un contesto individualista e nichilista.
Nonostante il calo evidente, la Chiesa in Italia ha ancora un peso e una grande visibilità, che va molto al di là dei confini che noi tracceremmo. Quella di tracciare dei confini chiari è una tentazione da cui il Papa ci mette in guardia; anzi, egli ci suggerisce di parlare con tutti e ascoltare tutti, che è ben diverso dal parlare solo con alcuni e omologarci! Penso all’esperienza dei funerali di Giulia Cecchettin. Restituisce un’immagine di Chiesa viva. Tanti di quelli che erano presenti in quell’occasione difficilmente frequentano le nostre parrocchie o si confessano cristiani, però erano lì. Questa è una Chiesa ancora rappresentativa, che ha saputo essere vicina, che è divenuta quasi il luogo «naturale» in cui ritrovarsi. E questo è il segnale o l’opportunità di una realtà più diffusa, meno evidente, che la tentazione identitaria o l’ansia di chiarezza qualche volta sciupa, perché non sa interpretare, non sa capire. Pensiamo ai tanti volontari, ai tantissimi «lontani» – come li avrebbe definiti don Primo Mazzolari – che mostrano attenzione, attrattiva, simpatia per le parole di papa Francesco. Credo che dobbiamo mettere anche questo sul piatto della bilancia, non per sminuire problemi e difficoltà, ma per capire le domande. Non dobbiamo ragionare in termini di «cristianità», sia in senso negativo che positivo, perché non capiremmo le nuove situazioni che offrono altre opportunità. Ed è a queste situazioni e a queste persone che la Chiesa deve essere vicina, e su questo le indicazioni di papa Francesco sono molto creative. Facciamo fatica a essere creativi. Forse non dobbiamo nemmeno esserlo, ma certamente almeno dobbiamo credere di più che il Vangelo genera vita e la cambia molto più di quello che noi immaginiamo! Ma dobbiamo viverlo e comunicarlo!
In ciò che sta dicendo risuona quel «tutti, tutti, tutti» che papa Francesco ha più volte evocato durante la Giornata mondiale della gioventù (Gmg) di Lisbona. L’allontanamento dalla Chiesa riguarda tutte le età, ma appare particolarmente evidente tra i giovani. Come può la Chiesa rendersi più presente tra i giovani? I giovani hanno ascoltato quelle parole del Papa, ma dopo?
Ecco, il problema è che cosa essi trovano dopo, concretamente. Ne ho parlato anche con i preti di Bologna. Alcuni hanno reagito onestamente preoccupati a quelle parole. Il ragionamento è: perché ci possano stare tutti nella Chiesa, prima ci devono essere i pochi. Torniamo alla questione della «chiarezza» e, dall’altra parte, alla necessità di immaginare piuttosto soluzioni pastorali, evangeliche per concretizzare quella visione del «tutti, tutti, tutti». «Pastorale» significa pienamente legata alla verità, non una giustificazione per fare come vogliamo noi. Non giustifica tutto e non è occultamento della verità, ma parlare capendo chi hai davanti e non ripetere qualcosa di distante, pensando poi che il problema sia il suo e non il nostro, che parliamo «latino» o che pensiamo di scaldare il cuore comunicando una regola e non un amore. Mi sembra che il Papa stia cercando questo tipo di risposta. Se cerchiamo una risposta strutturale e identitaria, usando le categorie precedenti, facilmente pensiamo di essere inadeguati, o che a «tutti» non interessi nulla. Alcuni per questo hanno suggerito un’immagine di Guareschi: cosa fare con il seme quando viene un’alluvione? Bisogna conservarlo perché non si bagni e si perda, per poi usarlo quando la terra, resa ancora più fertile, lo consentirà[2]. Il Vangelo va seminato e si conserva gettandolo nella terra dei cuori; perché noi non capiamo la domanda di «tutti», che sale da tanta sofferenza, e abbiamo in testa risposte che sono inadeguate, oggi, dopo i cambiamenti che ci sono stati. La preoccupazione è che «se ci va bene tutto», allora non diciamo più niente a nessuno, non siamo più niente. Io penso che dire «tutti» non significhi che la Chiesa diventa un albergo, ma la vera sfida è essere una casa. Perché c’è certamente la tentazione che la Chiesa diventi un albergo: un albergo con più o meno stelle, con varie tradizioni e sensibilità, una Chiesa che alla fine si impoverisce. Ma non si può resistere a tale tentazione con le dogane, come direbbe il Papa, o con i filtri: la sfida è far sentire tutti a casa.
La difficoltà di chi vive con disagio la questione del «tutti, tutti, tutti» sta nelle regole. Essa potrebbe essere vista come la medesima difficoltà del fratello maggiore nella parabola del padre misericordioso. Ma se si perde la gioia del padre per il figlio che ritorna e si pone la relazione solo in termini «veritativi», senza amore, effettivamente può prevalere l’esigenza delle regole, della chiarezza.
La dialettica tra verità e amore non è di oggi. Benedetto XVI l’ha risolta, chiarendo che non c’è l’una senza l’altro e viceversa. Mazzolari direbbe che se non fosse così, la verità diventerebbe una pietra, o un pezzo di pane duro, che lanciamo verso gli altri. E un amore senza verità finisce per non amare davvero. Ma papa Francesco ha ragione nel dire che dobbiamo avere «tutti» a casa, perché se stanno a casa, nella Chiesa, poi capiranno o riscopriranno anche le regole della casa.
Se non ci accorgiamo che la Chiesa – e la parrocchia – è «più» di quel che siamo abituati a pensare che sia, applichiamo dei criteri di valutazione per cui pensiamo che vada tutto male. Qualche volta abbiamo ancora un’idea di cristianità, di società cristiana. Mentre pensare a «tutti» ci restituisce anche qualcosa che abbiamo perso, ci permette di ritrovare tante domande che non intercettiamo più; magari, sì, domande complicate, dentro una vita complicata, fluida, individualizzata, in cui c’è la tentazione di ridurre la Chiesa a una delle tante agenzie di benessere a poco prezzo, o ad uno dei tanti servizi da consultare. Ma qui è la sfida. In questo senso, papa Francesco ha molta più fiducia in noi di quanta noi stessi ce ne diamo pensando che «non siamo capaci», che sono cose troppo difficili. Forse siamo noi che alcune cose le rendiamo troppo difficili, alla ricerca di sicurezze che non bastano mai; oppure, si rivela anche che la nostra stessa appartenenza è ideologizzata, oppure umanamente molto povera.
Eminenza, restiamo sui giovani. Nonostante le reti sociali, e forse a causa di esse, si percepisce un aumento dei disagi, della solitudine, della violenza. In che modo la Chiesa e le sue strutture possono essere accanto a chi affronta questi disagi – alle volte delle vere e proprie tragedie – e prevenirli?
Penso che sia necessario costruire comunità. La Chiesa-comunità è una delle grandi sfide che il Concilio Vaticano II ci ha consegnato e che abbiamo vissuto molto poco. La si è vissuta nella stagione dei movimenti, senz’altro, e in alcune realtà comunitarie che hanno avuto una parabola molto rapida, spesso legata al prete di turno. E poi con i giovani c’è la questione, molto seria, del linguaggio. Indubbiamente dobbiamo anche imparare un linguaggio digitale, ma non ho delle «fissazioni» su questo tema. Nel linguaggio e nel mondo digitale, dove arriviamo buoni ultimi, il rischio è l’appiattimento. La forza della Chiesa è sempre nella presenza. Ma chiaramente, se la Chiesa non sa comunicare anche in «remoto», difficilmente riesce a coinvolgere, a parlare e a farsi vicina. Il problema della fragilità dei giovani è serio. Si può reagire a esso riaffermando delle regole che però per i ragazzi, che pensano di dover essere loro a decidere, non esistono più. Io penso, soprattutto, che siamo in una stagione in cui ci sono pochi padri e poche madri.
Lei prima menzionava i movimenti ecclesiali. La loro vitalità non sembra essere più quella di 20, 30 anni fa. Sono stati importanti vivai di evangelizzazione e formazione, dai quali scaturivano vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. I movimenti sono davvero in crisi? Sono più assenti dalla vita ecclesiale? Quale futuro intravede per essi?
Bisogna anche dire che ci siamo logorati per anni in distinzioni un po’ fallimentari e con poca lungimiranza pastorale. Basti pensare al rapporto tra parrocchie e movimenti, che è stato spesso un braccio di ferro permanente: diffidenze, distinzioni, allergie, geografie ecclesiastiche… Una dinamica che, da un lato, ha logorato e, dall’altro, ha fatto credere a qualcuno di essere forte, bruciando così tante possibilità di presenza. Oggi mi sembra che siamo in tutta un’altra fase, che coincide con il ripensamento – italiano, ma anche europeo – sulle parrocchie, su cosa è la parrocchia, cosa significa, qual è il suo ruolo, la sua forma, dopo secoli in cui la grammatica è sempre stata più o meno la stessa. Questo include anche il rapporto tra il servizio presbiterale e la parrocchia. Quali sono i ministeri e i soggetti che possono aiutare oggi la Chiesa a essere presente in mezzo alla gente? In tutto questo, direi che i movimenti vivono una stagione di grande maturazione, del passaggio all’età adulta. Speriamo solo che non sia il passaggio alla vecchiaia, a una stagione senile! È un passaggio importante, che ha bisogno di un accompagnamento paterno e sempre appassionato, perché non è la tiepidezza che porta a maturazione. La speranza è accompagnare i movimenti alla maturazione senza che perdano entusiasmo, che ciascuno trovi le forme più stabili possibili, ma non sclerotiche. La vita è sempre più complicata dei modelli, ma quando si pone il Vangelo nella pastorale si troveranno sempre le risposte giuste.
Una realtà molto significativa in Italia è la scuola cattolica. Certamente, se si guarda al panorama europeo, le cornici giuridiche sono diverse e l’aiuto pubblico è diverso. Probabilmente l’Italia è uno dei Paesi in cui lo Stato finanzia di meno la scuola paritaria in genere, e quella cattolica in particolare. D’altra parte, la scuola cattolica sembra poter essere ancora una grande piattaforma apostolica e sociale che si rivolge a tutti, e certamente ai bambini e ai ragazzi, ma anche alle loro famiglie. Essa può ancora essere segno di una Chiesa che si rivolge a tutti e a tutti porta il Vangelo?
La scuola cattolica non vuole diventare la scuola dei privilegiati. Per fare questo dovrebbe allargarsi, ma si scontra con difficoltà oggettive. Poiché non vuole diventare la scuola dei privilegiati, mi auguro che possa trovare il modo di aiutare ad affrontare l’evidente carenza formativa e avere più stabilità. Credo che la scuola cattolica possa essere di aiuto alla società, perché custodisce una riserva di valori, di consapevolezza, di senso del bene comune, di umanesimo cristiano che è intimamente legato all’evangelizzazione. Tra evangelizzazione e promozione umana[3] – un’altra dialettica ricorrente –, quale viene prima e quale dopo? Qualche volta l’una, qualche volta l’altra. Non lo si può decidere in laboratorio. Lo decide la vita. Noi che siamo un po’ paurosi, invece, abbiamo spesso quella tentazione che dicevamo, delle distinzioni o di quelli che papa Francesco chiamerebbe «i piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti!»[4]: una Chiesa idealizzata di fronte a una vita che è sempre più complicata e contraddittoria. Il patrimonio educativo della scuola cattolica va ripensato e rilanciato, superando paure e timidezze per confrontarsi con le sfide vere, con la ricostruzione delle relazioni e del loro contenuto. Pensiamo alle questioni morali. Abbiamo qualcosa da dire? Certo, caspita! Il mondo è pieno di gente che si fa del male e vive male. Solo che la nostra può sembrare una proposta poco attraente, percepita come moralismo e non come sapienza antropologica. Sarebbe la nostra specialità insegnare la bellezza di amare ed essere amati, e tendenzialmente riduciamo questo a una proposta scheletrica, impoverita, poco bella, poco piacevole. Siamo percepiti come un vestito troppo stretto, oppure come una bellissima divisa, da coloro a cui piace la divisa e che si sentono qualcuno perché la indossano. Però poi il mondo va da un’altra parte.
A proposito di «divise», anche le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa sono in diminuzione. Quale pastorale vocazionale proporre? Insieme alla pastorale giovanile? E come formare al sacerdozio e alla vita religiosa, nei seminari e nei noviziati? La formazione dei seminaristi è sempre argomento di discussione. I documenti approvati sembrano non incidere sulle nuove pratiche formative. O almeno questa è la sensazione. Lei come la vede?
In ogni caso già si prospetta un futuro che deve affrontare la scarsità crescente di ministri ordinati e di religiosi e religiose; e assistiamo già, anche in Italia, a esperimenti di organizzazione ecclesiale che tiene conto di tale emergenza. Quale ruolo per i laici, senza clericalizzarli? Come si organizzerà la Chiesa del futuro, che, in molte aree del mondo, è già la Chiesa del presente?
Un vero movimento di riorganizzazione avverrà, e funzionerà, se si tiene conto della prospettiva della missione. Altrimenti diventa solo una sorta di ridistribuzione interna dei ruoli, che non mi sembra una cosa molto appassionante ed evangelica. Le risposte poi si trovano se c’è una messe da mietere, se tu senti la compassione per la folla, delle pecore senza pastori, e senti che gli operai sono pochi. Allora riuscirai a coinvolgere tutti quanti, e troverai la forma da dare a comunità «corresponsabili». La folla non è un di più, ma è elemento costitutivo dell’essere discepoli. Gesù ci chiama e ci manda proprio perché sente «sua» la folla, e ce la fa sentire «nostra». Il cristiano non può mai pensarsi senza «folla», cioè senza il prossimo, i «tutti», l’altro. Abbiamo parlato tanto di corresponsabilità, ma questa non è una ridistribuzione interna, è la passione di raggiungere tanti, e di farlo perché c’è una sofferenza enorme. Dobbiamo pensare i modi concreti della corresponsabilità, ma sempre nell’amore per la folla e quindi nella prospettiva missionaria. Questa è una delle preoccupazioni del Sinodo sulla sinodalità, che non a caso riafferma la missione tra i grandi orizzonti di riferimento per armonizzare le varie possibilità e, in questo contesto, anche la funzione dei presbiteri.
Vorrei sollevare ancora la problematica degli abusi sui minori e sulle persone vulnerabili nell’ambito della Chiesa cattolica. In molti Paesi sono stati realizzati dei rapporti sulla situazione, commissionati sia dalle autorità statali sia dalle Conferenze episcopali. La percezione nell’opinione pubblica è che la Chiesa in Italia sia un po’ in ritardo in questo movimento, e che ciò che emerge sia ancora troppo poco. È proprio così, o ci sono delle iniziative in atto, magari poco conosciute? Cosa si sta facendo per conoscere, prevenire, riparare queste situazioni, che tanta sofferenza provocano alle vittime e alle loro famiglie?
La Chiesa in Italia sta vivendo questa realtà con grande dolore, fatica, ma anche con consapevolezza e, credo, con grande serietà e senza nessuna opacità. Come prima cosa ci siamo messi in ascolto delle vittime, senza tanto clamore, convinti che solo toccando con il cuore la sofferenza causata dagli abusi nella vita delle persone possiamo trarre la motivazione necessaria per compiere ogni sforzo perché questo non avvenga mai più. Abbiamo lavorato sulla formazione come cardine della prevenzione: in pochi anni, dal 2019, è stata creata una rete di servizi tutela minori capillarmente diffusa in ogni parte d’Italia. Si tratta di un immenso sforzo educativo che vede coinvolti migliaia di laici, uomini e donne, professionisti esperti, chiamati a costruire cammini di formazione per rendere più sicuri e a misura dei più fragili tutti i luoghi ecclesiali. Sono decine di migliaia gli operatori pastorali già impegnati, con ricadute positive importanti sulla società civile: non dimentichiamo che più del 70 per cento degli abusi su minori avviene in ambito familiare. Da qui la creazione di più di 100 Centri di ascolto, affidati sempre a équipe di laici di grande competenza e preparazione, ai quali chiunque può rivolgersi per segnalare abusi sessuali, di potere o di coscienza, avvenuti, anche nel passato, in ambito ecclesiale. Anche sull’ambito degli studi e delle ricerche non manca l’impegno: ben due rilevazioni sono state condotte dagli esperti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, nella sede di Piacenza, sulle attività dei servizi ecclesiali tutela minori. Altre ricerche multidisciplinari sono allo studio, con la collaborazione di importanti Centri di ricerca riconosciuti a livello internazionale, come l’Istituto degli Innocenti di Firenze e il Centro interdisciplinare di ricerche sulla vittimologia dell’Università di Bologna. Senza dimenticare che i Sussidi formativi prodotti dalla Conferenza episcopale italiana sono stati tradotti e adottati da altre Conferenze episcopali in Europa: Repubblica Ceca, Croazia e Spagna. E poi c’è la collaborazione con la Pontificia Commissione per la tutela dei minori nell’iniziativa Memorare, per costruire capacità di tutela nella Chiesa del Sud del mondo. Certo, si tratta di alcuni passi, ma la strada è stata intrapresa con decisione e convinzione. E su questo non si torna indietro!
Si dice spesso che i cattolici italiani siano ormai assenti dalla politica, benché presenti in molte attività sociali e di volontariato. È così, secondo Lei? L’allontanamento dei cattolici è un semplice riflesso del disamoramento di tutti i cittadini verso la politica, oppure ha altre ragioni? Come superarlo? Come riscoprire che «la politica è la forma più alta di carità», come ha ripetuto nel tempo più di un Pontefice?
Da una parte i cattolici sono assenti, ma dall’altra sono presenti e in tante compagini. Nelle forze politiche sono presenti quasi dappertutto, o comunque c’è sempre una parte in dialogo con la Chiesa. Il vero nodo è intendersi su cosa significhi fare politica e fare delle politiche ispirate alla Dottrina sociale della Chiesa. Abbiamo assistito a una trasformazione della politica in cui è cambiato il profilo di chi fa il politico e il perché lo fa. Io spero che l’appello di papa Francesco, nell’enciclica Fratelli tutti, all’amore politico riattivi nel cuore di qualcuno la scelta di tradurre l’attenzione al prossimo, al bene comune, alla Dottrina sociale nella laicità della politica. Per fare questo servizio occorrono intelligenza e capacità, e questo richiede una grande ispirazione.
Qual è attualmente il rapporto della Chiesa italiana con il governo? Ad esempio, sul tema dei migranti sembra esserci una distanza significativa…
C’è una buona interlocuzione, e su certi tavoli ottima collaborazione. Sul tema dei migranti, c’è certamente un’interlocuzione dialettica, come d’altra parte è successo anche con i governi precedenti. La richiesta è salvare le persone e creare un sistema che funzioni, che sconfigga con la legalità l’illegalità. Purtroppo, quando questa attenzione è percepita come un optional o deformata come fosse un «dentro tutti», non ci stiamo. La Chiesa non ha mai detto «dentro tutti», così come non ha mai detto «fuori tutti»: ha detto che si devono salvare tutti e che si deve creare un sistema di accoglienza, serio, funzionante, di diritti e doveri, che richiede anche una politica europea, e l’Europa è largamente assente, purtroppo. I corridoi umanitari sono un’indicazione chiara e possibile di come far arrivare in sicurezza.
Per ciò che riguarda la presenza dei cattolici nel mondo della cultura e delle arti, quali riflessioni le sovvengono? C’è presenza o assenza? Capacità di dialogo o un allontanamento? E il patrimonio artistico e culturale della Chiesa è ancora occasione di evangelizzazione e di dialogo?
Personalmente sono convinto che, come per la politica, la presenza dei cattolici non debba assumere più le caratteristiche di un’appartenenza monolitica, dichiarata e schierata. Non mancano certo pregiudiziali negative, ma credo che vi sia in genere una buona disponibilità al confronto e al dialogo da parte di molti, anche se spesso prevale la logica del «tutto bianco e tutto nero», che spesso è la più congeniale a una certa rappresentazione dei mass media. Ovviamente è più facile mettere delle etichette e delle categorie che accettare la sfida del confronto. Quello della cultura e dell’arte è un mondo che la Chiesa ha certamente frequentato in modo significativo nel passato: basterebbe pensare a quanta parte del patrimonio artistico italiano, unico nel mondo, ha un carattere religioso. Oggi si fa molta fatica a trovare delle modalità espressive, forse c’è anche una certa «timidezza» davanti ad atteggiamenti a volte aggressivi di una certa cultura dominante. Credo comunque che l’apporto dei cattolici alla cultura sia prezioso e importante: c’è molto da dire e molto da condividere, e ci sono molte più persone disponibili ad ascoltare e confrontarsi di quanto possa apparire a una lettura superficiale. I valori cristiani e l’annuncio del Vangelo hanno molto da dire e da dare a questa nostra società. Non dobbiamo avere paura della sfida di cercare nuovi linguaggi e approcci. Occorre disponibilità, capacità di ascolto e quella fantasia creativa che sa superare muri e steccati.
L’8xmille è da anni un’importante risorsa per la Chiesa cattolica in Italia. E per questo è anche oggetto di ricorrenti polemiche. Come valuta questo strumento oggi? Il flusso finanziario è in crescita o in diminuzione? E come vengono distribuite queste risorse?
Con l’Unità d’Italia molti beni ecclesiastici vennero espropriati dallo Stato. Quale forma di indennizzo simbolico, lo Stato decise di dare una piccola somma a tutti i parroci: la congrua. Si venne così a creare un sistema nel quale era forte il rischio di squilibri e che il clero fosse «stipendiato», almeno in parte, dallo Stato. L’8xmille ha rappresentato un salto di qualità, una vera e propria forma di partecipazione fiscale: lo Stato affida ai contribuenti la decisione su a chi destinare l’8xmille dell’imposta sulle persone fisiche. Prima la scelta era tra lo Stato stesso e la Chiesa cattolica, poi l’intuizione si è rivelata così positiva che ben altre 12 istituzioni religiose hanno chiesto e ottenuto di poter aderire a questo sistema. Grazie all’8xmille, dal 1990 a oggi, la Chiesa cattolica non solo ha potuto sostenere migliaia di sacerdoti che certamente svolgono compiti pastorali, ma che sono sempre anche il primo riferimento per chi ha bisogno di aiuto e conforto, indipendentemente dall’orientamento religioso. Educano i ragazzi, offrono assistenza alle famiglie in difficoltà, agli ammalati, agli anziani soli, ai poveri e agli emarginati. Ma l’8xmille è anche molto di più: ha permesso di realizzare migliaia di progetti, diffusi in modo capillare sul territorio, che si contraddistinguono per la forte rilevanza sociale, il sostegno attivo all’occupazione, la tutela del patrimonio storico-culturale e artistico, la promozione dello sviluppo nei Paesi più poveri. Aiutiamo davvero, e tanto, a restare, a non partire, cosa possibile solo se crei opportunità di lavoro, di studio. Sul sito www.8xmille.it vi è un rendiconto aggiornatissimo di dove vanno a finire i soldi. Certo, è vero che le somme derivanti dall’8xmille sono in diminuzione, per svariate ragioni, e questo dispiace, soprattutto per il bene che si vorrebbe fare, ma che non si riesce a fare. Frutti dell’8xmille sono mense della carità, l’aiuto offerto in situazioni di povertà e di emarginazione, i volti e le storie di persone che potrebbero essere quelli di chiunque, perché la Chiesa non fa distinzione: accoglie tutti coloro che sono nel bisogno, semplicemente perché sono nel bisogno.
La ringraziamo tanto, Eminenza, per ciò che ha voluto condividere con noi e con i nostri lettori. L’ultima domanda riguarda la missione per la pace in Ucraina che papa Francesco Le ha affidato. C’è stato qualche risultato concreto?
Sì. Ed emerge anche in alcune comunicazioni ufficiali recenti. Il governo ucraino ha ringraziato ufficialmente la Santa Sede, insieme al Qatar e all’Unicef, per quanto si è fatto per la questione dei bambini catturati durante il conflitto. Così c’è stata una dichiarazione formale dei russi. Il ricongiungimento di alcuni bambini è stato il tipo di intervento umanitario che ci è stato chiesto di facilitare. Poi, chiaramente pensiamo che sia troppo poco, che serva molto di più e speriamo che questo dia la spinta per trovare delle opportunità che aiutino a risolvere il conflitto. Vorremmo che migliaia di bambini possano venire questa estate in Italia per ritrovare la pace e sentirsi protetti e amati, sicuri, consolati. Papa Francesco non si rassegna. Ma la chiave della pace non ce l’ha nessuno in tasca: bisogna trovarla insieme. Tanta diplomazia e tanti spazi da verificare e creare. E l’aspetto umanitario è una questione molto importante. La guerra non si umanizza, ma cerchiamo di non perdere l’umanità e di mitigare alcune delle conseguenze tragiche. Speriamo che la comunità internazionale converga per trovare soluzioni giuste e sicure.