La morte di Benedetto XVI, papa emerito residente in Vaticano accanto al suo legittimo successore Francesco, dovrebbe essere un evento vissuto dai cattolici nella serenità, nella gratitudine e nella ricezione della sua testimonianza di una fede limpida e salda. Invece anche in quest’occasione si sono fomentate divisioni, contrapposizioni e contestazioni delle quali la Chiesa, soprattutto oggi, non ha certamente bisogno. Infatti vive un’ora non solo di cambiamento, ma anche una fase di resistenza al suo interno. Difficile definire gli schieramenti fortemente polarizzati: ci sono cristiani talmente legati alle tradizioni che temono “riforme” delle realtà delle quali la Chiesa vive, liturgia, morale, relazione con il mondo, e ci sono altri che sentono l’urgenza di un forte rinnovamento.
Papa Benedetto è stato certamente una voce che voleva custodire il tesoro del passato del cristianesimo, così come Francesco sembra rispondere al desiderio di una chiesa più inclusiva, meno intransigente e più misericordiosa, più attenta ai segni dei tempi e dei luoghi. Eppure la differenza tra lo stile dei pastori che si succedono al governo della Chiesa non deve diventare causa di conflitto, ma deve essere considerata ricchezza.
Oggi pesa ancora nella Chiesa il permanere insistente di una papolatria che impedisce al papa di essere semplicemente l’umile successore di Pietro. Il Papa deve essere un vescovo che governa, o meglio che presiede alla comunione delle chiese e della Chiesa.
È il suo vero e unico compito: lavorare per la comunione, presiedere alla comunione, riportare alla comunione. Invece si continua a volere un custode della verità dogmatica, una figura che sia un leader, un pontefice romano augusto più che un servo della comunione. Per questo, fin dall’inizio del cristianesimo, le Chiese sono divise tra loro. E a questo proposito occorre essere chiari: non vi sarà vera sinodalità senza una riforma anche del papato, come aveva intuito Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint.
Quanto all’accettare con obbedienza critica ma anche con intelligenza e libertà il magistero del papa in cattedra e quello del papa emerito, occorrerà evitare di “far parlare i morti”, tentazione che sempre ricompare in quelli pretendono di riferire le parole di chi non è più in vita, volendo interpretarlo e riattualizzarlo. No, di chi non c’è più è determinante solo ciò che fatto, detto e scritto pubblicamente. Già nella Bibbia far parlare i morti è considerato un peccato grande: perché è facile che anche parole giuste appaiano nella luce della recriminazione e della rilettura interessata. Anche in questo discernimento i cattolici devono maturare e accettare una Chiesa, senza ricorrere ad una ottica catara che vuole una Chiesa fatta solo di santi, senza rughe né sporcizia.
Nella Chiesa i papi vanno accolti come pastori, non venerati, e tanto meno fatti santi subito. Anche loro sono uomini limitati e peccatori e svolgono un servizio necessario ma segnato da limiti e dal limite ultimo della morte.
Enzo Bianchi