C’è una “banalità del male”, che genera morte, ma poi c’è anche una “banalità del bene”, che alimenta la profezia. C’è uno scontro tra oscurità e luce che in queste settimane passa dalle vite dei nostri giovani. Passa e lascia segni profondi, alcuni dei quali fanno notizia, assurgono a chiavi di lettura complessive sulla situazione delle nuove generazioni, diventano virali sui social; fanno il rumore sconvolgente di un Suv che distrugge un’utilitaria e uccide un bimbo per una challenge sul web, ci colpiscono come le urla di una ragazza ferita a morte da un coetaneo e come le laceranti grida di dolore di una famiglia che perde una figlia e lo sguardo sul proprio futuro.
Altri segni, invece, fanno solo il rumore del fruscio di una borraccia infilata in uno zaino accanto a un sacco a pelo, non producono più chiasso del vociare di bambini allegri che giocano al di là della recinzione di un oratorio in un assolato pomeriggio d’estate, ci arrivano ovattati come i canti di gruppo di ragazzi dai finestrini di un autobus diretto a una piscina, a un lago in montagna o verso una spiaggia. E poi ci siamo noi, che dobbiamo decidere a quale di queste stimolazioni uditive e visive dare più credito, quali segni approfondire e indagare, in quale delle due “banalità” investire le nostre risorse. Insomma, la vera “challenge” di questa estate è quella che si gioca sul palco del discorso pubblico – a partire dall’intimità delle mura domestiche, così come negli spazi condivisi della vita di comunità e nei luoghi in cui si costruisce l’esperienza sociale – e che vede scontrarsi due evidenze opposte sulle nuove generazioni.
Da un lato ci sono i racconti di una gioventù che, come ha osservato il vescovo Baldo Reina ai funerali di Michelle Causo, è vittima di degrado, non è custodita, ha banalizzato il concetto stesso di vita facendo perdere il senso del valore di ogni esistenza. Poi ci sono le indagini sociologiche, come quella del Laboratorio Adolescenza e dell’Istituto di ricerca Iard, che a tinte fosche disegnano i contorni di generazioni assorbite dai social media, dallo sguardo incerto e ansioso sul futuro, con i fashion blogger come modelli di vita. E, ancora, ci sono i tanti esempi che ognuno di noi incrocia nella propria vita quotidiana con genitori perennemente impegnati a giustificare i propri figli davanti alle difficoltà della scuola oppure ai richiami di altri adulti sul comportamento dei loro ragazzi. Dall’altro lato, però, migliaia di famiglie proprio in queste settimane stano sperimentando la cura offerta da un vero e proprio esercito di adolescenti e giovani impegnati nei Grest, nei centri estivi, nei campi scuola, nei campeggi organizzati da parrocchie e associazioni come Azione cattolica e Agesci. Una cura che, a ben pensarci commuove, perché nasce da un impegno per nulla scontato, spesso portato avanti per mesi in riunioni e tempo dedicato alla preparazione.
Ci sono, poi, gli almeno 53mila – numero silenzioso che non fa per nulla notizia e destinato a crescere – che stanno preparando gli zaini per il viaggio verso Lisbona, dove ad agosto si ritroveranno con centinaia di migliaia di altri giovani da tutto il mondo per la Giornata mondiale della gioventù assieme a papa Francesco. E ci sono le stesse identiche indagini citate sopra, che, superate le nebbie fitte dei numeri da angoscia per tutto ciò che sta succedendo ai giovani, ci dicono anche che i nostri ragazzi, sette su dieci almeno, hanno in testa l’idea di una relazione stabile per formare famiglia. E aggiungono che sulla scuola hanno le idee chiare molto più degli adulti. E ci dicono che, anche se essi sono le prime vittime delle storture di questo mondo, spesso sono proprio loro ad intuire per primi le potenzialità positive contenute nei cambiamenti.
«I giovani sono le nostre antenne», ricorda don Michele Falabretti, responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile. Una constatazione dalla quale deriva l’invito a sintonizzarsi sui loro canali. Ecco, la Chiesa sceglie di fatto da sempre di fare proprio questo – e guai se vi rinunciasse –: aprirsi all’ascolto dei giovani, dare loro spazio, mettersi al loro fianco, renderli protagonisti nel servizio agli altri. E così facendo coltiva il bene e alimenta la profezia, che è quell’energia in grado di cambiare la storia. Sostenere il bene che possono fare i giovani ha un valore quasi “sacramentale”, perché rende presente in mezzo all’umanità quel progetto d’amore che Dio ha per il mondo. Non si tratta di far finta che la banalità del male tra i ragazzi non esista o di ignorare le ricerche sociologiche sulla grigia situazione delle nuove generazioni. Stiamo parlando, piuttosto, di attraversare con coraggio queste nebbie alla ricerca del lumicino che ancora arde, in attesa di essere alimentato. D’altra parte la bellezza della vita, proprio come il Vangelo, non si trasmette per proselitismo – anche il Papa ce lo ha ricordato di recente –, ma per testimonianza e per attrazione.
La conferma viene proprio dalla Gmg: in tantissimi di quelli che ci andranno non avevano idea di cosa fosse, ma si sono lasciati attirare dai racconti – e dagli effetti esistenziali luminosi – dei loro amici più grandi. È la “banalità del bene” che, diffondendosi, diventa profezia.