La nostra generazione ha perso contatto con la profezia. Non la riconosce, non la stima, e così il posto che era dei profeti è stato prima lasciato vuoto poi subito occupato dai leader e dagli influencer; perché quando la domanda di profeti che sale dalla gente non incontra la profezia vera, entra in scena quella falsa con la sua grande efficienza e i suoi effetti speciali. La Bibbia ci dice che Dio ascolta il grido del povero, ma ci dice anche che i profeti sono amplificatori necessari di questo grido, perché possa giungere fino al cielo. Senza profezia il misero continua ad urlare, e non accade nulla. Ieri, oggi, forse sempre, anche se ogni generazione ha il dovere etico di creare le condizioni affinché i figli crescano in un mondo dove poter sperare che, finalmente, un profeta o qualcuno ascolterà davvero il grido dei poveri, e lo consoli.
La Bibbia non è l’unico luogo dove poter imparare la profezia, ma è certamente un ambiente privilegiato per la qualità e la quantità delle parole dei suoi profeti. Di tutti i profeti, persino di quei libri “profetici” che non sono stati scritti da profeti, come quello di Daniele. O come quello di Giona, di cui oggi iniziamo un commento che ci accompagnerà nelle prossime domeniche. «Fu rivolta a Giona, figlio di Amittài, questa parola di YHWH: “Àlzati, va’ a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me”» (Giona 1,1-2).
Tra coloro che hanno commentato Giona pochi hanno cercato in questo libro un insegnamento sulla profezia, tantomeno gli elementi per una grammatica profetica. Il libro stesso non chiama Giona “profeta”, anche se nel solo riferimento storico che nella Bibbia è associato al suo nome viene chiamato profeta: «Il profeta Giona, figlio di Amittài» (2 Re 14,25). Un profeta del Nord, al tempo del re Geroboamo II, quindi dell’VIII secolo. Un profeta nazionalista perché, dice il testo, quel re malvagio (2 Re 14,24) aveva riconquistato territori ad Israele, dal Libano fino all’Arabia, e lo aveva fatto «secondo la parola del Signore pronunciata per mezzo del suo servo, il profeta Giona» (2 Re 14,25).
Quando nella Bibbia leggiamo che qualcosa è accaduto “secondo la parola del Signore”, sappiamo che quei fatti o vittorie erano stati interpretati come una conseguenza di una parola-volontà di YHWH. Ed è quindi probabile che quell’antico profeta fosse un esponente della tradizione nazionalistica, al quale si opponeva un altro profeta, Amos, che non è da escludere indirizzasse proprio a Giona le sue critiche alle ambizioni e illusioni militari di Israele – ci sono sempre stati “profeti” che sostengono le guerre e altri profeti che le combattono. Forse, allora, il Giona del II libro dei Re fu un profeta non così marginale; e chissà se il Libro di Giona non fu scritto per correggere, secoli dopo, il nazionalismo di quell’antico primo Giona?!
Ma il protagonista del libro di Giona non ha nulla a che fare, sul piano storico, con quell’antico profeta del Nord. Ciò non significa però affermare che nel Libro di Giona non ci siano, sul piano teologico e narrativo, allusioni a quell’antico profeta Giona. Lo stesso significato del nome Giona, cioè Colomba, da Osea è usato per indicare Israele – «Èfraim è come un’ingenua colomba» (Os 7,11). I profeti del Nord, da Elia e Geremia, sono fondamentali per capire la vicenda di Giona e la sua misteriosa vocazione. La città di Ninive, poi, la co-protagonista del racconto di Giona, era la capitale dell’Assiria, il centro politico di quell’impero nemico che nell’VIII secolo conquistò Efraim e deportò le tribù del Nord in Mesopotamia, e non fecero più ritorno.
Anche del Libro di Giona sappiamo molto poco. Nulla del suo autore, nulla di certo su quando fu scritto: le ipotesi vanno dall’VIII secolo al II a.c. Non esiste poi un consenso neanche sul messaggio teologico principale del libro né sui quelli collaterali. La complessità e l’ambivalenza della storia di Giona le ritroviamo già nel famoso “segno di Giona”, al quale Luca (11,29) dà una interpretazione diversa da Matteo (12,39). Le letture cristologiche e allegoriche dei Padri ne hanno poi arricchita e complicata ulteriormente la comprensione. Ma, come ogni tanto succede, i controversi e misteriosi messaggi di Giona lo hanno reso molto generativo nei secoli, soprattutto nell’arte e nella letteratura, da Ariosto a Camus, fino a Master&Commander (il film di P. Weir).
Ho deciso di riprendere i miei commenti biblici su “Avvenire” con Giona perché innanzitutto è un racconto molto bello, un vero gioiello narrativo, breve, intenso e saporitissimo. Avevo in passato posticipato l’intrapresa cosciente che Giona fosse un testo bisognoso di una certa familiarità con i profeti biblici e con i libri storici, utili e forse necessari per provare ad accompagnare Giona nel suo viaggio nel ventre della parola. È poi difficile capire Giona senza Giobbe (i due racconti non si intrecciano soltanto in Moby-Dick), e forse senza Saul. È l’unico libro biblico che termina con una domanda, un finale aperto che ricorda quello della parabola del figliol prodigo – e noi ci chiediamo se il figlio maggiore entrò nel banchetto, e se Giona, o Dio?, si convertì davvero. Ma in Giona ci sono anche presenze bibliche improbabili e in genere non viste. Il nome “colomba” è nome femminile. Ci sono infatti tracce delle donne della Bibbia, del loro rapporto libero, dialettico, creativo con la parola di Dio, un’obbedienza più simile a quella delle figlie che a quella delle serve. Dell’obbedienza disubbidiente di Rut, di Ester, della sunammita, della siro-fenicia del vangelo, delle levatrici d’Egitto, di Tamar, di Mical, di Maria.
Il racconto di Giona è pieno di veloci colpi di scena. Il primo lo troviamo subito. Giona deve partire, deve andare nella grande città assira di Ninive, sulle rive del Tigri, una città antichissima – se ne hanno tracce a partire dal VI millennio a.c. Deve recarsi lì per svolgere una missione da ambasciatore di Dio: il profeta è anche questo, ma spesso diventa il messaggio che deve annunciare. Deve portare una parola dura, rivelare a quella città pagana che la loro malvagità è grande ed è quindi “salita” fino a Dio. Uno scenario che ci ricorda da vicino Sodoma e Gomorra, il cui grido di male «era giunto fino a me» (Gn 18,21).
«Giona invece si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore» (1,3). La prima decisiva svolta narrativa e spirituale del libro di Giona sta tutta in quell’invece, e buona parte del senso della sua storia sta in questo avverbio, che non è un avverbio della profezia. Dopo aver letto la prima frase e il comando di YHWH, tutta la Bibbia ci suggeriva una sola continuazione di quella prima frase: …e Giona partì come gli aveva comandato il Signore. Nessun’altra storia di profeti ci racconta infatti di un comando divino ricevuto cui fa seguito un invece: alcuni hanno delle incertezze (Mosè, Geremia), qualcuno si sente schiantato e tramortito (Ezechiele), altri non riconoscono subito la voce (Samuele) … ma nessuno disubbidisce. Nessuno, tranne Giona, che è l’unico profeta che conosce l’invece.
Sarebbe sufficiente solo questo avverbio iniziale per escluderlo dall’elenco dei profeti, e invece la Bibbia lo ha inserito tra Adbia e Michea, e nessuno ha mai pensato di toglierlo da lì. Quindi un primo compito che ci attende in questo commento a Giona è cercare di capire perché Giona resti un profeta biblico nonostante un incipit chiaramente non-profetico, nonostante un inizio che lo classificherebbe come un anti-profeta o, addirittura, un falso profeta. E invece, lo vedremo, Giona resta un profeta, un profeta vero. Ma può un profeta autentico disubbidire alla parola che lo chiama e gli affida un compito da svolgere? E che ruolo ha la disubbidienza nella vita dei profeti e in quella di tutti coloro – e sono tanti sulla terra – che hanno ricevuto una qualche vocazione, religiosa, artistica o laica? O magari la profezia inizia solo dopo la conversione di Giona e non si trova già in questo primo “invece”?
Il testo, in nessuna delle sue versioni (ebraica e greca) ci dà indizi sul perché Giona non obbedisca a YHWH. Né ci spiega un secondo dettaglio narrativo importante: perché oltre a non ubbidire Giona inizi un altro viaggio verso la misteriosa Tarsis? È un nome di città o di luogo che incontriamo molte volte nella Bibbia (25 volte), senza che si sia arrivati ad una ipotesi condivisa su dove si trovasse – le molte ipotesi vanno dall’Andalusia (che resta la più probabile) alla Sardegna, dalla Fenicia all’Asia Minore; lo storico ebreo Flavio Giuseppe confonde Tarsis con Tarso, e Gerolamo suggerisce persino l’India.
Avrebbe infatti potuto semplicemente non partire, restarsene a casa e lì starsene “lontano dal Signore”. E invece no, parte per un altro lungo viaggio, senza una meta ragionevole. Forse perché quando sappiamo che il viaggio buono è uno solo e noi non lo vogliamo fare, che la strada giusta ha una sola precisa destinazione che noi decidiamo di non imboccare, che il Signore si trova “lontano” da dove stiamo andando…, quasi sempre ci illudiamo che si possa sostituire il giusto destino-destinazione con un altro scelto da noi, che andare lontano non significhi allontanarsi dal Signore ma solo da un suo primo volto che non ci piace più – e lo pensiamo davvero, e qualche volta, paradossalmente, è anche vero.
Sappiamo, soprattutto lo sanno con certezza i profeti, che stare fermi di fronte alla chiamata al viaggio sarebbe la sconfitta totale. Perché ogni chiamata è una continuazione del primo “vattene” rivolto ad Abramo, un errare buono che salva e riscatta l’errare di Caino. Ecco perché il profeta parte, non può non partire, perché se davanti alla Voce che lo chiama non parte, semplicemente muore. Giona ci dice quindi che l’errore comune dei profeti e delle vocazioni profetiche non sta nel restare a casa, ma nel partire in una direzione sbagliata, ben sapendo che è sbagliata però illudendosi che il gesto del cammino possa curarne il finale. Giona, dopo l’ordine di Dio, partì. Non andò nella direzione giusta, ma partì. E quel partire sbagliato fu migliore del restare, perché sarà proprio lungo quella strada non-retta che troverà una misteriosa salvezza.
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