«La presenza di Dio» è stato il tema affrontato dal segretario della Pontificia commissione biblica a chiusura di questo itinerario settimanale che era iniziato nel pomeriggio di domenica scorsa, 1° marzo. Ispirandosi a letture tratte dal capitolo 33 del libro dell’Esodo (7-17), dal Vangelo di Matteo (28, 16-20) e dal salmo 90, il predicatore ha esordito sottolineando che «il Signore è presente nella nostra vita, è l’Emmanuele per noi, e ci accompagna nel nostro cammino». E il primo a capirlo è stato Mosè, esemplare nel guidare Israele facendo «vedere che è da Dio, dal rapporto con Lui, in obbedienza, che si riceve come grazia la capacità di condurre il popolo». In proposito padre Bovati si è detto consapevole «che Gesù ha raccomandato di pregare nel segreto senza esibizione» e anche «che la preghiera non deve mai diventare spettacolo e men che meno autocelebrazione». Tuttavia — ha fatto notare — «essere un esempio luminoso è un dovere»; con l’avvertenza che «questa esemplarità è veritiera quando non ha di mira il plauso fatto all’uomo, ma al contrario, l’adorazione di Dio», attraverso un “irraggiamento spirituale” che «viene proprio da chi prega, perché attira, porta gli uomini ad amare Dio».
Soffermandosi poi sui termini del colloquio tra il Signore e Mosè nel brano meditato, padre Bovati ha osservato che il primo usa un imperativo: «fa’ salire». Il che «può essere fastidioso solo se è pensato semplicemente come la volontà di un altro; ma quando il comando è promulgato dalla bocca dell’amico, dal Dio di amore, se viene compreso nella sua verità», allora esso «illumina, rende sapienti, incoraggia, promuove la vita del credente, perché è come una strada spalancata, una porta che si apre sul mistero dell’amore». Inoltre, ha proseguito il predicatore, «il comando divino è sempre proporzionato all’uomo perché è possibile, anzi facile da compiere, non perché l’ordine che Dio vuole sia senza fatica né sacrificio; ma perché chi dà l’ordine promette la sua presenza, dà il potere, la grazia, lo spirito» per adempierlo.
Di più: l’espressione salire rimanda da un lato a «un processo continuo», a «un movimento di liberazione che non si concluderà mai finché saremo su questa terra»; e dall’altro «indica che c’è sempre un processo di elevazione»; che non costa solo “fatica”, ma è anche «promozione, esaltazione, andare verso qualcosa di più elevato».
Un ulteriore elemento individuato dal segretario della Pontificia commissione biblica rimanda al fatto che Mosè non domanda al Signore «ricompense, né segni, né promesse» per sé, ma «chiede solo di essere strumento. È come un profeta che ogni volta deve essere istruito dal Signore per compiere giorno dopo giorno la sua missione». E in questo il pastore ha il dovere di «saper riconoscere e promuovere nel comune ministero le persone che Dio ha eletto e consacrato, ha inviato; così da essere poi lui a scegliere chi è stato scelto da Dio e poter consacrare chi è stato santificato da Dio, cioè dotato dello Spirito per il ministero». Dunque, ha chiarito il predicatore, Mosè «ha fin dall’inizio compreso la necessità» di avere «dei collaboratori: per andare dal faraone deve essere accompagnato da Aronne; per celebrare il trionfo del Signore sul mare deve coinvolgere la voce e i tamburelli di Miriam; per vincere Amalek deve attivare Giosuè, ma anche Aronne e Cur per sostenere le sue mani», e «per amministrare la giustizia, con le sue innumerevoli esigenze, deve fare ricorso a un collegio di giudici, così che nella suddivisione dei compiti sia possibile portare il peso di tanta responsabilità e attivare anche una sinodalità, cioè un’unità di intenti, una collaborazione verso il medesimo obiettivo». E «una tale compartecipazione di molti all’unica missione non evidenzia solo l’atteggiamento sapienziale» di chi «capisce che se non si vuole soccombere bisogna farsi aiutare, e nemmeno che il fatto di essere in più renda la cosa migliore, perché, si dice nel proverbio “la corda a tre capi è più resistente”». Al contrario, intercedere affinché «altri vengano coinvolti nella stessa missione, fa emergere, quale religiosa testimonianza, che è Dio solo a essere il principio unico della salvezza, la cui presenza invisibile è attestata proprio dalla rinuncia di ognuno a essere l’unico operatore di bene».
Ecco allora l’importanza capitale del discernimento: «non sono certo i criteri mondani di amicizia, simpatia, affinità culturale o quant’altro, né una semplice considerazione di qualità oggettive nel campo intellettuale o pratico che assicurano competenza, efficienza, affidabilità». Ma, ha spiegato padre Bovati, «tutto ciò va sottoposto a un’intuizione spirituale di ordine profetico che sappia riconoscere ciò che Dio vuole, ciò che Dio ha già posto in una determinata persona, magari anche a sua insaputa, perché sia preparata al compito che il Signore le affiderà». È lo stesso Mosè, del resto, a formulare la richiesta «di saper riconoscere colui che Dio ha scelto», così come egli stesso «è stato scelto personalmente e conosciuto per nome», sebbene «forse lui non si sarebbe scelto per nulla».
Attualizzando la riflessione, il predicatore ha poi parlato del percorso che il pastore deve seguire per portare le greggi ai pascoli eterni: «in un tempo di cambiamenti, di difficoltà, di incertezze come quello odierno — ha detto — è quanto mai necessario saper trovare la via adatta a ciò che Dio vuole oggi». Con una certezza: che «la via giusta» è quella «tracciata dai comandamenti, che sono come pietre miliari, delineano il sentiero, illuminano il percorso», proprio come Mosè «che ha ricevuto la Torah, l’ha anche scritta, poi l’ha comunicata e spiegata al popolo dopo essere stato ripetutamente all’ascolto del Signore sulla santa montagna». Ecco allora che torna il tema del «discernimento», cui il biblista ha aggiunto l’aggettivo «pratico» per indicare «quella capacità sapienziale di natura profetica — donata da Dio nella preghiera — di riconoscere nel concreto, nelle circostanze complicate della storia, nell’oggi, nella varietà delle persone, dei momenti, le priorità da seguire; riconoscere quindi in ogni realtà ciò che Dio vuole». E per fare ciò, ha raccomandato, «non basta la conoscenza teorica o una competenza nelle scienze teologiche. È necessario un dono spirituale, non comunicato una volta per sempre, ma “distillato” giorno dopo giorno per aiutare le persone a scegliere la via che è stata indicata, per aiutare il pastore a condurre sulle vie buone». Dunque, si tratta di «un dono spirituale e come tale è intrinsecamente amoroso, non si presenta come la pretesa del dotto, del competente, che sa sempre tutto», ma è «la consapevolezza utile del discepolo che è stato istruito dal Signore».
Infine padre Bovati ha esortato a meditare gli ultimi versetti del capitolo 28 del Vangelo di Matteo, dedicati all’incontro di Gesù Risorto con i suoi apostoli. Egli chiede agli undici di tornare in Galilea, nel luogo dove si è originata la loro vocazione, per rivivere la fede «che forse ancora adesso è vacillante» dopo la sua crocifissione. Ma, ha fatto notare il gesuita, non si tratta di «un procedimento nostalgico», quanto piuttosto di capire «il dono fondatore che consiste nel seguire Gesù, essere con Lui, vivere della sua parola e del suo amore». Inoltre, li manda in una «terra di confine, la Galilea delle nazioni», facendoli «uscire dal ghetto glorioso ma anche orgoglioso di Gerusalemme per portarli alle frontiere» e inviarli a «fare discepoli in tutte le nazioni». Infatti «Cristo ha sparso il suo sangue per la moltitudine». E ora, come «pastore supremo delle pecore, promuove pastori i suoi discepoli» per «una prosecuzione, una dilatazione della sua opera di amore», ha argomentato il predicatore terminando la sua riflessione.