Da vari anni Francesco Petrarca (1304-74) si trovava ad Avignone, al servizio del cardinale Giovanni Colonna che lo trattava non da padrone ma «da padre, anzi da affezionatissimo fratello». Bello, gentile, elegante, poeta e prosatore in volgare e in latino, colto, di animo aperto e d’intelligenza raffinata, aveva conquistato la generale simpatia e ammirazione. Non riusciva però a dominare un’irrequietezza interiore che lo rendeva incapace di restare a lungo in un posto; si sentiva come inseguito da misteriosi richiami. Un bel giorno volle realizzare un desiderio vagheggiato fin dall’infanzia: scalare la vetta del Ventoux (Ventoso, 1909 m), la più alta della regione avignonese. La celeberrima lettera a Dionigi di Borgo San Sepolcro, frate agostiniano, è il resoconto — un gioiello letterario — di questa scalata, assieme al fratello Gherardo e a due servi, il 26 aprile 1336. Vogliano rileggerla perché ci offre l’opportunità di approfondire alcuni temi, tipici del Petrarca, e che sono nello stesso tempo elementi fondamentali dell’ascetica quaresimale.
La scalata del Ventoux è ardua: costoni sassosi e scoscesi, quasi inaccessibili, tanto che un vecchio pastore tenta di dissuaderli dall’impresa. «Ma mentre ci gridava queste cose, a noi — così sono i giovani, restii ad ogni consiglio — il desiderio cresceva per il divieto» (Le Familiari, IV, 1, Urbino, Argalia, 1974, 366). La stanchezza e lo scoraggiamento si fanno presto sentire. Francesco cerca invano i sentieri pianeggianti, provocando le risa del fratello e il proprio avvilimento. Un pensiero lo colpisce: «La vita che noi chiamiamo beata è posta in alto, e stretta è la strada che vi conduce». Occorre «volere con ardore», respingere l’illusione che si possa raggiungere l’Alto agevolmente. È, questa, un’illusione pericolosa; potrebbe essere fatale. «Non so dirti quanto tale pensiero mi rinfrancasse anima e corpo per il resto del cammino».
Lo spettacolo che offre il Ventoux è grandioso. Il Poeta lo contempla «come trasognato»; per dare alla sua contemplazione un timbro spirituale apre le Confessioni di sant’Agostino, «libretto di piccola mole ma d’infinita dolcezza», che porta sempre con sé. Vi legge: «E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri, e trascurano se stessi». L’affermazione lo sconvolge; per tutta la discesa resta in silenzio, «riflettendo quanta fosse la stoltezza degli uomini i quali, trascurando la loro parte più nobile, si disperdono in mille strade e si perdono in vani spettacoli, cercando all’esterno quello che si potrebbe trovare all’interno; pensando a quanta sarebbe la nobiltà del nostro animo se, spontaneamente tralignando, non si allontanasse dalle sue origini e non convertisse in vergogna le doti che Dio gli diede in suo onore. Quante volte quel giorno — credilo — sulla via del ritorno ho volto indietro lo sguardo alla cime del monte! eppure mi parve ben piccola altezza rispetto a quella del pensiero umano, se non viene affondata dalle turpitudini terrene» (pp. 374-376).
A conclusione della lettera, Petrarca chiede all’amico, cui essa è indirizzata, di pregare per tutti i suoi «segreti pensieri, uno per uno, perché erranti e incerti da tanto tempo, finalmente si arrestino, e dopo essere stati trascinati inutilmente per ogni dove, si rivolgano all’unico bene, veramente certo e duraturo». In tal modo, la scalata del Ventoux si trasforma in un impegno di conversione. Questa deve realizzarsi ricorrendo a quattro mezzi che la lettera del Poeta indica, e molte sue opere illustrano: importanza di pause di solitudine a contatto con la natura, necessità della preghiera, attualità della penitenza, meditazione delle verità ultime.
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Per ritrovare la propria dignità — creato a immagine di Dio, rigenerato da Cristo e destinato alla vita beata in Dio — Petrarca non si stanca di proporre pause di vita solitaria della quale egli ha sempre avvertito la nostalgia e la necessità. Ha composto il De vita solitaria a tale scopo. Nell’ultima pagina si legge: «Senza dubbio quando verrà il giorno estremo, e l’ora della morte turberà l’anima; quando non gioverà l’esser vissuto tra gli affari pubblici né l’essere stato segnato a dito; quando non gioverà l’essere stato re o papa; né gioverà l’aver avuto ricchezze, favore popolare, delizie; ma invece gioverà l’essere vissuto con purezza, con religione, con innocenza, allora si confesserà che il mio invito alla solitudine era buono» (La vita solitaria, Milano, Hoepli, 1927, 145).
Petrarca cerca la solitudine non per spirito misantropico né per disamore o disprezzo della convivenza umana, ma perché convinto che «un animo nobile non possa mai aver gaudio di pace fuori di Dio che è nostro fine, o fuori di se stesso, o fuori degli intimi pensieri suoi» (ivi, 1). Ora, Dio lo si trova non nel «tumulto delle folle» ma nel silenzio ubi nemo est nisi Deus et ipse, dove c’è soltanto Dio ed io, precisa sant’Agostino, il maestro prediletto del Poeta (cfr Lettera CCX, 2 [PL 33, 958]).
Il bisogno di silenzio per ritrovare se stessi e Dio è un elemento essenziale della Quaresima, soprattutto ai nostri giorni. «Ciascuno di noi — ha scritto il card. C. M. Martini — è esteriormente aggredito da orde di parole, di suoni, di clamori, che assordano il nostro giorno e perfino la nostra notte; ciascuno è interiormente insidiato dal multiloquio mondano che con mille futilità ci distrae e ci disperde» («Paura e fascino del silenzio», in Il silenzio, Vicenza, La Locusta 1986, 119). Tale stordimento ha esiliato Dio ed estraniato l’uomo da se stesso, condannandolo nello stesso tempo alla dispersione e allo smarrimento. Un tempo, durante il periodo quaresimale, ai fedeli si raccomandava il digiuno e l’astinenza; oggi ci sono anche altre proficue forme di penitenza: astenersi, per esempio, da certe trasmissioni televisive, insulse e nocive, e dedicare un po’ di tempo alla preghiera, all’approfondimento della fede e alle opere di carità. Accingendosi a comporre l’opera sulla vita solitaria, Petrarca esprimeva il timore di cantare tra i sordi («Ma io canto tra i sordi!»). Si riferiva alle persone stordite dal chiasso e dalle preoccupazioni materiali. E aggiungeva: «Lasciamoli, poiché mi ascolteranno volentieri gli uomini che del vero non sono timidi amici».
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La fatica della scalata — che indebolisce la volontà e mette allo scoperto la propria debolezza — ricorda al Petrarca che il cristianesimo è una conquista, non una eredità. Noi vorremmo raggiungere la Vetta percorrendo «la strada più pianeggiante che passa per i bassi piaceri della terra» e dimenticando l’ammonimento dell’Apostolo: «Non gozzoviglie ed ebbrezze, non lascivia e impudicizie, non risse e gelosia, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo, e non seguite la carne nelle sue concupiscenze» (Rm 13, 13-14). Petrarca ricorda l’impatto che queste parole ebbero su Agostino, e aggiunge: «Così anch’io raccolsi tutta la mia lettura in quelle parole che ho riferito, riflettendo in silenzio quanta fosse la stoltezza degli uomini i quali, trascurando la loro parte più nobile, si disperdono in mille strade» (p. 374).
Anch’egli si era «disperso» su strade pericolose, condotto dalla voluttà «in uno splendido abisso» (te in splendidum impulit barathrum): splendido per la speciosità delle apparenze e le insidiose promesse. In gioventù il volto di Laura gli era apparso come la stessa bellezza della vita, e la gloria mondana gli si era presentata come fine della sua attività. Aveva temuto di soccombere al gioco delle apparenze: Si non cupis immortalia, si aeterna non respicis, totus es terrenus, actum est de rebus tuis (Se non desideri le cose immortali, se le realtà eterne non t’interessano, sei tutto terreno, per te è finita)». Terrorizzato da questa prospettiva, si era votato a una lotta interiore per liberarsi dalla schiavitù delle passioni che umiliano il corpo e lo spirito. L’opuscolo Secretum sive de secreto conflictu curarum mearum testimonia l’impegno e la durezza di tale lotta, da lui combattuta soprattutto su tre fronti.
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Innanzitutto sul fronte della preghiera. Convinto che, senza l’aiuto di Cristo, si resta abbandonati alle nostre miserie, così a lui si rivolge: «Vieni […]. Io mi perdo se tu ritardi!». Questa implorazione è del 1335, cioè di un periodo torbido e pericoloso della sua vita: nei Psalmi poenitentiales lo rievocherà con amarezza e pentimento. La preghiera fu la sua àncora di salvezza: «O mia salvezza, o Gesù Cristo, se l’umana miseria può inclinarti a misericordia, assistimi nella mia miseria, ed esaudisci benigno le mie preghiere» (testo riportato da L. Tonelli, in Petrarca, Milano, Corbaccio, 1930, 187).
Fu un uomo di preghiera: a mezzanotte si alzava per la recita delle ore canoniche notturne, frequentava con assiduità i sacramenti, si rivolgeva alla Santa Vergine con devozione filiale: in occasione del Giubileo del 1350 intraprese il suo quinto viaggio per Roma, viaggio «tanto più felice degli altri quanto è più nobile la cura dell’anima rispetto a quella del corpo e quanto più è augurabile la salvezza eterna rispetto alla gloria mortale» (Lettera a G. Boccaccio, in Le Familiari XI, 1). Le molte preghiere da lui composte rivelano un’anima ardente di amore, di gratitudine e di fiducia per il Salvatore e per la Vergine.
«Io mi perdo se tu ritardi!». Petrarca ci ricorda che senza l’aiuto di Cristo, da invocare con una preghiera costante e fiduciosa, le tentazioni bloccano il nostro cammino verso Dio. Se viene meno lo spirito di preghiera, l’anima si ripiega su se stessa, avvizzisce, resta in balìa degli umori, dei sensi, delle passioni, delle ideologie. È quanto è avvenuto spesso negli ultimi tempi. Dio sta sulla strada della storia come il grande Dimenticato: i viaggiatori non gli badano, perché attratti da speciosi miraggi terreni; non lo ascoltano perché storditi dall’urlo dei motori; spesso neppure lo scorgono per i fumi causati da malefiche esalazioni.
Nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte Giovanni Paolo II ha raccomandato di dare alla preghiera «tutto il suo spazio», poiché «senza Cristo non possiamo far nulla» (Gv 15,5). La nostra salvezza e santificazione — scopo della vita — è legata alla preghiera, perché essa immette in noi la forza dello Spirito, illumina la mente, orienta la volontà, infonde nell’anima quel sentimento che Petrarca indica nel Secretum: Sentio inexpletum quoddam in praecordiis meis semper (Avverto sempre nel mio intimo una sensazione d’incompletezza). Si riferisce alla stanchezza della terra che non sazia, alla sete d’infinito, al richiamo della Bellezza sussistente.
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In secondo luogo, Petrarca combatté le passioni con la penitenza o mortificazione, «particolarmente sotto la forma del digiuno, che praticò con un’assiduità e un rigore che stupiscono noi uomini moderni […]. Da anni soleva digiunare quattro volte la settimana, ed il venerdì solo a pane e acqua in memoria della passione di Cristo» (P. P. Gerosa, Umanesimo cristiano del Petrarca, Torino, Bottega d’Erasmo, 1966, 423). Alla penitenza corporale aggiunse anche quella spirituale, più difficile e necessaria. Quando nel 1342-43 si propose di riordinare la propria vita liberandola dalla schiavitù della libido et voluptas si chiese se non dovesse anche spegnere dentro di sé l’amore per Laura, e cancellarne anche il ricordo.
All’interrogativo gli rispose sant’Agostino in una delle pagine più intense del Secretum: «Pensa quanto i costumi siano in te difformi dalla tua professione; pensa quanto quella donna abbia nuociuto alla tua anima, al tuo corpo, alla tua fortuna […]. Pensa quanto per lei ti sei allontanato dall’amore di Dio, in quante miserie sei incorso». Laura — è vero — ha destato in lui il sentimento della purezza e gli ha rivelato la possibilità dell’amore casto. L’incontro con lei però — ribatte il Santo — lo ha fatto uscir di senno, «allontanato la sua anima dall’amore delle cose celesti e rivolto i suoi desideri dal Creatore alla creatura». Le conseguenze sono state funeste. Petrarca accettò il consiglio del suo Dottore, tagliò i ponti col passato, cancellò, quanto gli fu possibile, il ricordo della donna, si dette generosamente alla penitenza più difficile: quella interiore.
Tempo di penitenza è la Quaresima. La società odierna, tesa soprattutto alla conquista dei beni materiali e divorata dalla sete del godimento, rifiuta la penitenza, ne nega il valore, propugna il benessere e l’affermazione della persona come scopo della vita. In tale atmosfera pagana capita che anche alcuni cristiani si chiedano se la penitenza e la mortificazione, oggi, abbiano ancora un senso o se non si tratti di pratiche religiose desuete. In merito l’avventura di Petrarca è illuminante: in tanto le rinunce agli agi, le veglie, le scelte dolorose hanno valore, in quanto ci permettono di scalare la Montagna. L’appello cristiano alla penitenza non riguarda anzitutto le opere esteriori, ma la conversione del cuore che comporta un radicale orientamento della vita a Dio. È naturale che a tale orientamento si accompagni la «mortificazione» di quanto potrebbe ostacolarlo.
Riecheggiando sant’Agostino, Petrarca ricorda che il male non è nelle cose ma nella nostra coscienza e volontà pervertite che ci spingono al disordine e ci allontanano da Dio. Nell’esortazione Paenitemini (17 febbraio 1966) Paolo VI scriveva che l’«esercizio della mortificazione del corpo — ben lontano da ogni forma di stoicismo — non implica una condanna della carne, che il Figlio di Dio si è degnato di assumere». Il corpo dell’uomo è destinato alla risurrezione: se lo si mortifica è perché in esso, un giorno, si manifesti in maniera più splendida la vita di Cristo.
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Il terzo fronte di lotta sul quale Petrarca ha combattuto per vincere le «turpitudini terrene» è la meditazione delle realtà ultime, soprattutto della morte. Il pensiero della morte è un tema ricorrente nella sua opera. Nelle prime pagine del Secretum rivela egli stesso il motivo di tale insistenza: «Per insegnarti a sfuggire le strettezze della vita mortale e a mirare più in alto, vorrei farti toccare con mano che non c’è mezzo migliore che questo, cioè meditare la morte e l’umana miseria, poi accendersi di vivissimo desiderio e ardente studio di sorgere dal nostro basso stato; dopo di che è facile la salita per giungere là dove il cuore sospira». Meditare la morte, dunque, per rinvigorire lo spirito e rendersi capaci di raggiungere Dio.
Anticipando il metodo ignaziano della compositio loci, Petrarca vuole che la meditazione della morte avvenga «vedendosi» sul letto di morte. Nel primo dialogo del Secretum, in termini realistici e impressionanti, descrive la morte di un uomo nelle varie fasi del disfacimento. Confessa anche che, di notte, egli stesso si raffigura moribondo, assediato dal ricordo del male commesso, «onde ne sono talmente turbato che, atterrito e tutto tremante, mi levo dal letto e prorompo in simili grida: “Che cosa mi succede? Che sofferenze sono queste? Quale morte la mia miseria mi riserva? Gesù, porgimi aiuto, abbi pietà di me, liberami da questi mali, porgi a me misero la tua mano, portami con te sulle onde perché almeno in morte io riposi tranquillo”».
La fiducia nella misericordia di Dio, la certezza della risurrezione finale e la speranza della felicità eterna gli permisero di superare la paura della morte, anzi di desiderarla. Negli ultimi capitoli del trattato De remediis utriusque fortunae la morte perde molto del suo aspetto repulsivo per assumere la configurazione di ritorno dell’anima al suo Creatore che l’attende con le braccia aperte. Spero vitam aeternam. – O felix, nisi te spes ista fefellerit (Beato te se questa speranza non ti è venuta meno).
La meditazione della morte genera in Petrarca un sentimento che costituisce uno dei poli della sua ascetica: la coscienza della caducità di tutte le cose. Che cos’è la vita? «La vita è un sogno, un fumo, un nulla» (Senili, VII, 1). E la fama? «Una chiacchiera divulgata intorno a qualcuno, e spersa per molte bocche […]. È un fiato e soffio volubile» (Secretum, secondo dialogo). E la bellezza del corpo? «Vento e ombra», l’ombra di un fiore che un po’ di vento getta per terra (De remediis, cap. II). E che cosa pensare della sua incoronazione in Campidoglio? «Vanità delle vanità; tutto è vanità» (Familiari, IV, 6).
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Meditare la morte. Che valore ha questo invito, oggi che il progresso scientifico e l’efficientismo tendono a ridurre la morte a un fatto tecnico, ospedaliero, da tenere lontano? All’interrogativo Petrarca dà due precise risposte. Dobbiamo avere il coraggio e l’intelligenza di guardare in faccia la morte: non nasconderla, non banalizzarla, non esorcizzarla con futili espedienti. In secondo luogo, occorre pensare alla morte, ma in senso positivo, con speranza, restituendole il suo significato di compimento e d’incontro con l’Amore trascendente. La paura della morte si vince consegnandosi a Cristo risorto: O alme salutiferque Jesu (O Gesù, datore di vita e di salvezza); così il Poeta invoca il Signore nel secondo capitolo del trattato De sui ipsius et multorum ignorantia.
La Quaresima, vissuta secondo i suggerimenti di Petrarca — con pause di silenzio e di preghiera, con volontà di conversione, dediti alla meditazione delle realtà ultime — ci conduce alla speranza viva della nostra eterna risurrezione.