Imparare il mistero dell’identificazione di Cristo con quanti il mondo disprezza. Beati i poveri in spirito

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La Chiesa si prepara a celebrare domani la Giornata mondiale dei poveri istituita da Francesco affinché noi cristiani penetriamo sempre più nel mistero dell’identificazione di Cristo con quanti il mondo disprezza. Questo interesse a evidenziare la preferenza divina per i poveri non è qualcosa di sradicato dalla tradizione cristiana. Ricordiamo, per esempio, le parole di san Paolo VI : «E tutta la tradizione della Chiesa riconosce nei poveri il sacramento di Cristo, non certo identico alla realtà dell’Eucaristia, ma in perfetta corrispondenza analogica e mistica con essa. Del resto Gesù stesso ce lo ha detto in una solenne pagina del suo Vangelo, dove Egli proclama che ogni uomo che soffre, ogni affamato, ogni infermo, ogni disgraziato, ogni bisognoso di compassione e di aiuto, è Lui, come se Lui stesso fosse quell’infelice, secondo la misteriosa e potente sociologia evangelica (cfr. Mt 25, 35 ss.), secondo l’umanesimo di Cristo» (Omelia durante la Santa Messa per i “campesinos” colombiani, 1968). La stessa traccia segue Francesco quando nel Messaggio in preparazione a questa Giornata mondiale ci dice: «I credenti, quando vogliono vedere di persona Gesù e toccarlo con mano, sanno dove rivolgersi: i poveri sono sacramento di Cristo, rappresentano la sua persona e rinviano a Lui».

A partire dalla maturazione di questo aspetto della rivelazione divina la Chiesa ha compiuto un’opzione preferenziale per i poveri. È qualcosa che è nato in America Latina ma che san Giovanni Paolo II ha reso universale nella sua enciclica Sollicitudo rei socialis (1987), invitando a un amore preferenziale per i poveri, «una forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa» (n. 42).

È chiaro, ogni volta che si parla di questa opzione ci si sta riferendo ai poveri concreti, quelli che la società considera poveri. Tuttavia, poiché «questo linguaggio è duro» (Gv 6, 60), spesso ci si presenta la tentazione di adattarlo alle nostre possibilità. Quasi senza rendercene conto, s’insinua in noi un senso di scandalo di fronte alla sentenza di Gesù che afferma la quasi impossibilità che i ricchi entrino nel Regno di Dio (cfr. Mt 19, 23). Visto che anche Gesù afferma che «a Dio tutto è possibile» (Mt 19, 26), usciamo dall’impasse spiritualizzando la povertà. Il cammino di una povertà spirituale si presenta sempre più attraente di quello della povertà reale. È indubbio che la nozione evangelica di povertà, che in fondo significa aspettarsi tutto da Dio, ha una dimensione profondamente spirituale. Ma questo non s’identifica semplicemente con un atteggiamento interiore di distacco dai beni con il quale spesso confondiamo la povertà evangelica.

Sebbene siano innumerevoli i passi biblici che fanno riferimento alla speciale vicinanza del cuore di Cristo ai poveri concreti, c’è un testo in particolare su cui molte volte poggiano le spiritualizzazioni superficiali della povertà. È la beatitudine di Matteo che — a differenza di Luca 6, 20, che chiama semplicemente beati i poveri — afferma: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5, 3). Per comprendere a fondo il senso di questo versetto, il teologo argentino Rafael Tello segue l’esegesi di Pierre Bonnard nell’El evangelio según san Mateo, (Ed. Cristiandad, 1975). Lì si indica che l’espressione poveri in spirito è unica non solo nella Scrittura ma anche in tutta la letteratura semitica, a eccezione di un manoscritto di Qumran.

Matteo in questo versetto si riferisce a una realtà che era già presente nell’Antico Testamento: gli ‘anawim. Sono quelli che cantano con il salmista: «Io sono povero e infelice; di me ha cura il Signore» (Sal 40, 18). «Quelli che per una lunga esperienza della miseria economica e sociale hanno imparato a contare soltanto sulla salvezza di Dio» (Bonnard, op. cit., 91). Sono assolutamente poveri, poiché «non hanno nulla da dire né da sperare dalla società» (Ibidem). Sono i totalmente poveri di questo mondo.

Il dativo (πνευ´ματι) corrisponde a: «Poveri nel loro spirito, ossia nel più profondo e nel più concreto della loro condizione, davanti a Dio e agli uomini» (ibidem). Si tratta allora di una povertà radicale che abbraccia — insieme con quella materiale — tutte le dimensioni dell’umano. Non è una povertà volontaria, ma una povertà imposta che limita ogni speranza nell’umano e dispone lo spirito a sperare solo in Dio. Bonnard afferma che, d’accordo con il significato del testo; «la parola spirito non designa il carattere volontario di questa povertà; il Salmo 33, 19 LXX e 1 QM 11, 10 mostrano che questi poveri sono gli oppressi dagli uomini violenti» (ibidem). Questa lettura coincide con la testimonianza di altri studiosi in questa direzione: «Non diremmo che questi poveri sono felici perché praticano la virtù del distacco» (Bibbia di Gerusalemme; Overney), né «a motivo delle virtù che hanno praticato nella loro condizione» (Bonsirven). Nel loro abbandono, la gioia proviene solo da Cristo che si rivolge loro» (Ibidem).

Se Luca si riferisce ai poveri materiali, Matteo nelle sue beatitudini sembra scavare in quella povertà radicale nella quale, partendo dall’impotenza di sviluppare la vita, e demolita ogni possibilità di autosufficienza, lo spirito umano si riconosce assolutamente bisognoso di Dio. A loro, a quanti non hanno nient’altro da sperare — dirà H. Urs von Balthasar — sono destinate tutte le promesse di Dio. Nelle parabole sono quelli che dispongono di tempo per l’invito al banchetto, quelli che — non avendo nulla — si sentono nulla e dinanzi a Dio eterni debitori, eterni minorenni sempre disposti a inginocchiarsi con il pubblicano in fondo al tempio (cfr. H. Urs von Balthasar, Quién es un cristiano, Ed. San Juan, 81). Come si può vedere, la “spiritualizzazione” di questa beatitudine che compie Matteo non si può in alcun modo intendere come una relativizzazione della povertà materiale. Di fatto, nella presentazione del “protocollo” in base al quale saremo giudicati fa capire chiaramente che Cristo s’identifica con chi ha fame, sete, freddo, etc. (cfr. Mt 25, 31 e ss.).

Con questa esegesi come sfondo, Tello riconosce che esiste una povertà spirituale che è un’elaborazione teologica, compiuta dallo spirito umano illuminato dalla fede. Tutta la riflessione sui consigli evangelici nell’ambito della vita consacrata lo testimonia. Tuttavia Tello sostiene che la principale accezione della povertà spirituale si deve riferire a una povertà che chiama “teologale”, un’umiltà data dallo Spirito Santo e che ci porta a riconoscere il nostro “nulla creaturale”. È quella che visse, per esempio, la Vergine Maria che riconobbe che Dio guardò con bontà alla sua piccolezza (cfr. Lc 1, 48). Non c’è sforzo umano capace di conquistare quella povertà, che si esprime come connaturalmente migliore in condizioni di povertà materiale: poveri che sono scelti dallo Spirito Santo per completare la Passione di Cristo. Perciò — per Tello — prima c’è la povertà teologale, poi viene la povertà materiale e, in terzo luogo, come elaborazione umana successiva, la povertà spirituale. Quest’ultima è quella che più può distanziarsi dalla povertà materiale, come nel caso dei religiosi. In ogni modo, intendere la beatitudine di Matteo come una povertà spirituale in questo senso umano sarebbe un approccio riduttivo (cfr. La nueva evangelización. Anexos II , 48).

Nel magistero permanente di Francesco, un Papa la cui fede è maturata in una delle periferie più povere della Chiesa, lo Spirito Santo ci sta ammonendo a non diluire questo rapporto tra la nostra fede e i poveri concreti (cfr. Evangelii gaudium, n. 48). Voglia Dio che la prossima Giornata mondiale dei poveri ci serva a donarci di più a un Cristo che ci viene incontro nascosto — sacramentalmente — nelle vite di quanti il mondo disprezza.

di QUIQUE BIANCHI