In questo tempo caratterizzato da un mutamento di scenario culturale e religioso rapido e repentino, quale immagine di Dio la chiesa intende trasmettere all’uomo d’oggi?
E quale immagine la chiesa è chiamata a dare di se stessa, perché la fede non diventi un “simulacro”? La chiesa deve attivare il dialogo al proprio interno e una prassi di ospitalità verso l’esterno.
«A volte sembra possibile immaginare che non tutti stiamo vivendo nello stesso periodo storico. Alcuni è come se stessero ancora vivendo nel tempo del concilio di Trento, altri in quello del concilio Vaticano I. Alcuni hanno bene assimilato il concilio Vaticano II, altri molto meno; altri ancora sono decisamente proiettati nel terzo millennio. Non siamo tutti veri contemporanei, e questo ha sempre rappresentato un grande fardello per la chiesa e richiede moltissima pazienza e discernimento». Ha pienamente ragione il card. Martini, quando, con le parole ricordate, accenna a una questione fondamentale del nostro essere credenti di questo tempo: non siamo tutti veri contemporanei.
Vi è cioè una contemporaneità dello spirito al tempo vissuto che nasce da uno sforzo, da un gesto di intelligenza e di amore che non è né automatico né dato in eredità. Ma trattasi tuttavia di qualcosa di necessario. Sulla scia di Gesù che non ha proferito parola pubblica né parabola prima della lunga quasi trentennale stagione di Nazaret, luogo del suo fecondo discepolato presso i suoi futuri discepoli, i credenti di ogni epoca sono chiamati a diventare “contemporanei” per diventare poi annunciatori affidabili e concretamente “udibili” dagli uomini e dalle donne del loro tempo. Su questo versante oggi soffriamo non poco.
E non è semplicemente una questione di gusto.
Il tempo che viviamo, normalmente indicato come “postmodernità”, effettivamente mette in difficoltà e a disagio il credente cristiano nell’esposizione della sua fede.
La riscrittura profonda dei fondamenti del vivere, la mutazione paradigmatica della griglia dell’umano con cui guidare l’esercizio della libertà, la nuova attesa di felicità che l’avvento della postmodernità ha portato con sé – almeno a partire dalla rivoluzione culturale del Sessantotto – spiazza non poco molti credenti.
Come non riconoscere, infatti, il rapido e repentino mutamento di scenario nel quale la comunità cristiana deve oggi giocare la sua partita, a seguito dell’avvento di tale inedita sensibilità culturale? Siamo in verità passati da una chiesa di tradizione che aveva la maggioranza non solo sui singoli ma anche sull’opinione pubblica, a una chiesa sempre più di scelta; da un tempo in cui il calendario dei santi e delle festività religiose cadenzava i ritmi e le scelte di vita in uno in cui i nostri cuccioli stanno perdendo ogni confidenza con parole quali epifania, avvento, quaresima, ascensione, pentecoste, elemosina e altre ancora; da un universo culturale nel quale era praticamente impossibile non credere – come ha riconosciuto efficacemente il filosofo canadese Charles Taylor – a uno in cui ci è del tutto naturale aver tra parenti stretti e amici di lunga data persone non credenti; da un tempo in cui erano gli atei a dover dare ragione della loro “non speranza” a uno in cui ogni cristiano convinto deve quasi scusarsi del fatto di credere ancora, soprattutto dopo i gravissimi scandali legati alla pedofilia; da uno spazio abitato da costumi e riti fortemente marcati dalla matrice cattolica (le stesse suore, i preti giovani sono una rarità) a uno in cui è ormai questione d’ogni giorno incontrare musulmani devoti che, snocciolando il rosario dei novantanove nomi di Allah, invocano la costruzione di moschee e il riconoscimento di diritti.
Eppure la contemporaneità dello spirito va acquisita. Va acquisita anche con questo tempo postmoderno. Con pazienza e con discernimento, ricorda il card. Martini.
Incontro a tale compito viene in aiuto una recente pubblicazione di don Francesco Cosentino, docente di teologia fondamentale presso l’Istituto teologico “Ecclesia Mater” di Roma, dal titolo assai suggestivo: Immaginare Dio. Provocazioni postmoderne al cristianesimo.
Dove siamo
L’opera di Cosentino si presenta molto ben strutturata: dopo un breve prologo, si snodano tre capitoli, i primi due (Dove siamo: la crisi del cristianesimo nel tempo postmoderno; Dove andiamo: il cristianesimo e le soglie di un possibile rinnovamento) collegati al terzo (Provocazioni postmoderne) da un intermezzo (Il cristianesimo e il suo futuro possibile). Seguono un agile congedo e un’ampia bibliografia, grazie alla quale poter continuare lo scavo e lo stimolo di riflessione affidati a queste pagine.
Lo spirito di fondo del volume è quello di un confronto aperto e lucido con le istanze principali della cultura postmoderna, al fine di ritracciarne le provocazioni più feconde per vivere un cristianesimo appunto contemporaneo, per propiziare un essere credente che non rinunci a essere uomo e donna di questo tempo.
Il giovane teologo calabrese è anche consapevole che questo richiede, soprattutto alla riflessione teologica, il superamento di due opposti atteggiamenti nei confronti della postmodernità: il primo è un atteggiamento “antimoderno”, con «il quale ci si chiude nella contrapposizione per paura del tempo presente che avanza con la sua complessità e con le sue provocazioni» (50); il secondo, dall’altra parte, consiste nel lasciarsi prendere «dall’ingenuità e da una lettura troppo semplicistica e ottimistica della realtà, adattandosi al pensiero e alla moda dominante e riducendosi ad essere troppo accomodante. Nel primo caso non saremmo in grado di cogliere l’invito dello stare “nel mondo”, rischiando di vanificare il senso della stessa incarnazione di Dio e dell’avvento del suo Regno nella storia e, nel secondo, non riusciremmo a mostrare il nostro “non essere di questo mondo” e, quindi, la funzione critica e profetica insita alla fede stessa» (51).
Con una tale impostazione alle spalle, si può provare a rispondere all’interrogativo che sostanzia il titolo del primo capitolo: Dove siamo. Nelle pagine di tale sezione del libro, l’autore offre una presentazione molto efficace della cultura postmoderna e permette al lettore anche di cogliere le ragioni della crisi e del disagio che sta vivendo la religione cristiana in esso. La lettura delle coordinate fondamentali della postmodernità è operata in chiave polare, come del resto lo stesso suffisso “post” di per sé suggerisce: si tratta di un tempo che viene “dopo” sia nel senso del seguire sia in quello dell’opporsi a ciò che viene “prima”; esso prende così una forma oscillante «tra liberazione del passato e decadenza, tra novità rispetto ai paradigmi della modernità e disincanto generalizzato, tra esasperazione individualista del soggetto e forma esistenziale anonima e priva di progetto» (24).
La postmodernità è così epoca che si sforza di superare alcune unilateralità della stagione culturale precedente, quella moderna, che aveva avuto la sua celebrazione nell’illuminismo, ma questa fatica non sempre risulta compiutamente eseguita e lineare. Si è certo abbandonato il modello di una razionalità forte e oggettiva a favore di uno sguardo più attento alle dimensioni interiori ed estetiche del vissuto, ma si è lasciato grande spazio alla dimensione tecnica e scientifica nella costruzione e definizione degli spazi umani; si registra una notevole indifferenza rispetto alla questione di Dio, almeno all’interno dei processi decisionali esistenziali dei singoli, monta pure un certo ateismo aggressivo e tuttavia aumenta il bisogno di sacro e il revival del religioso; si riscopre l’importanza della singolarità e dell’istanza dell’identità locale e nello stesso tempo la spinta alla globalizzazione dell’economia, della cultura e degli stili di vita cresce di anno in anno; si accetta come non negoziabile il pluralismo delle opinioni e delle scelte di vita e tuttavia la cultura diffusa tenta costantemente di creare modelli uniformi e omogenei vincenti e validi per ciascuno e per ogni latitudine del mondo; si predica la libertà e l’emancipazione da ogni forma di dipendenza e poi si sostiene e si convive con un’economia che si regge sulla messa in schiavitù di più della metà del mondo.
Un movimento dunque aperto sembra guidare la definizione interna della postmodernità che diventa poi sfida per la fede cristiana: «tra il pluralismo delle interpretazioni di vita, la stanchezza apatica dinanzi alle responsabilità in ogni ambito del vivere, l’assenza di Dio e, insieme, un ambiguo ritorno del sacro e, infine, la visione esistenziale derivante dalla tecnica e dalla globalizzazione, la fede cristiana che invita a una relazione con Dio presentandola come fondante e assoluta, nel tentativo di fare appello alla libertà e responsabilità della persona per inaugurare un nuovo modo di pensare e vivere la vita, non riesce ad avere lo spazio per esprimere al meglio tutte le potenzialità di cui è portatrice» (49). Ma, trattandosi appunto di movimento aperto, di un cammino non definito né definitivo, si dà pure lo spazio per un lavoro sul e del cristianesimo, per intercettare tale dinamismo del tempo presente come occasione per un rinnovato annuncio della parola di Gesù. I principali vettori di tale lavoro sono indicati da Cosentino nel pluralismo, nell’ermeneutica debole e infinitamente aperta e nella valorizzazione del vissuto affettivo.
Dove andiamo
Al secondo capitolo del testo è affidata una riflessione di carattere più teoretico, che, sullo sfondo della precedente descrizione della postmodernità e delle sue native aperture, si sforza di interrogare gli ambiti della teologia cristiana che abbisognano di un nuovo investimento di energie e di pensiero. L’autore qui recupera molte intuizioni che costellano la storia della teologia più recente, ma che ancora non sono state assunte a paradigma condiviso di un nuovo esercizio del pensiero credente. Egli dichiara apertamente il suo debito alla riflessione di J.H. Newman, M. Blondel, H. De Lubac, K. Rahner e ancora a quella dei contemporanei M.P. Gallagher, E. Salmann e G. Lorizio.
Il rischio che l’autore vuole qui evitare è quello di affrontare le sfide della cultura postmoderna e in parte le opportunità che la sua configurazione aperta offrono con un armamentario teo-logico non adeguato. Il rischio insomma di mettere vino nuovo in otri vecchi. L’impresa non si presenta affatto semplice: la relativa giovinezza della teologia fondamentale come disciplina autonoma e la sua non ancora ben definita identità sono oggettivi motivi di disagio. Eppure almeno gli ambiti su cui la battaglia si dovrà combattere sono chiaramente indicati dal testo, che, qui proprio qui, onora il suo titolo: “immaginare Dio”. Si tratta della rivisitazione della struttura metafisica cui deve far affidamento il pensare teologico, della riscrittura della grammatica del rapporto tra fede e ragione e infine della fondamentale dimensione “immaginativa” della coscienza. Per ognuno di questi settori vengono offerte brevi e pertinenti suggestioni, che, nella stessa intenzione dell’autore, servono a tracciare il cammino futuro della teologia.
Particolarmente interessante il discorso sull’immaginazione, su cui del resto punta di più Cosentino. Essa è da intendere come «l’intima disposizione interiore del vissuto affettivo dell’uomo e dei movimenti sotterranei e spesso impliciti del cuore, laddove nasce e si sviluppa anche una certa particolare e personale immagine di Dio. Anche coloro che appaiono disaffezionati nei confronti della fede cristiana e dichiarano una qualche forma di ateismo, in realtà hanno maturato nel loro campo interiore un’immagine di Dio, magari proprio quella in virtù della quale hanno scelto di prendere le distanze dalla fede o in base alla quale la percepiscono come una proposta senza senso per la loro realtà» (78). Un discorso teologico, un annuncio kerigmatico, una riflessione catechetica, una prassi credente che non tengano in debito conto di questa fondamentale regione dell’umano sono pertanto destinati al fallimento.
Si deve invece riconoscere oggi soprattutto «che ogni uomo e ogni comunità credente hanno continuamente bisogno di purificare, rivedere e convertire la loro immagine di Dio nell’umile consapevolezza che Dio è sempre Colui che si svela e che insieme ci supera; dall’altra, sarà necessario lavorare con ogni mezzo teologico e pastorale, per una effettiva guarigione dell’immagine di Dio, laddove essa si presenta offuscata da residui umani o presentazioni parziali e inopportune che ne oscurano la bellezza» (80). Proprio questa urgenza invoca una rivisitazione della stessa struttura e immagine diffusa della realtà della chiesa, che metta più al centro la sua essenziale vocazione di luogo di incontro con il Dio dell’amore e con l’amore di Dio, luogo non settario né chiuso, ma aperto e dialogico, profondamente interessato alle sorti della vicenda umana nella storia.
Il futuro possibile
La riflessione continua a questo punto passando da un registro di tipo generale ad uno più specifico, più concreto. L’urgenza che guida tale passaggio è quella per la quale il confronto con il proprio tempo e la decisione di intervenire sulle strutture storicamente presenti della religione cristiana sono dovute ad un’assunzione di responsabilità che non può più essere rinviata, se si vuole sul serio affrontare la questione del futuro del cristianesimo evitando «la situazione paradossale del mantenere in piedi un simulacro di fede religiosa che non parla più, non trasforma le trame della vita umana e non immette la novità del Regno nei processi della storia» (95-96).
Delle intuizioni via via affiorate nel testo e nel solco di quelle ancora non solo non tramontate ma ancora in attesa di un inveramento effettivo del concilio Vaticano II, nasce il progetto di una chiesa veramente aperta, capace di dialogo all’interno e di una prassi di ospitalità verso l’esterno, una chiesa che si avverte in cammino e vicina a chi è in cammino e in ricerca, una chiesa sul serio interessata alla vita buona della gente e pertanto capace di parole profetiche, chiare, nette, circa i dinamismi che segnano l’esistenza umana personale e collettiva; una chiesa maggiormente segnata da un moto di amore, che riesca finalmente a far segno e assegnamento non alle sue strutture, ai suoi titoli onorifici e bancari, alle scomuniche e alle condanne, alle alleanze politiche e culturali, ma a quel Dio di cui Gesù rappresenta l’immagine insuperabile: «Nel chiaroscuro enigmatico della vicenda di Gesù di Nazareth, Dio appare come il Dio onnipotente e creatore di tutte le cose che, contemporaneamente, “scende con noi nell’afflizione, ha il volto insanguinato e combatte, fino all’ultimo, una battaglia che potrebbe anche perdere” (D. Garota). È un Dio che non pianifica la vita dell’uomo svuotando l’avventura dell’esistere dalla possibilità di altri percorsi e, proprio per questa sua attenzione alla libertà umana, ammette anche il dolore, la sofferenza e l’esperienza del limite. Rifiuta l’ambivalenza della violenza […] facendosi umile e povero e scegliendo l’atteggiamento di un viandante che vuole solo indicare la via e precederci in essa, senza ricatto, coercizione e moralismo. Non si appella al suo “essere Dio” se non per suscitare nell’uomo il desiderio amabile di una vita riuscita e di una felicità senza confini e non si lancia in anatemi e minacce ma, al contrario, piange il dispiacere di ogni Gerusalemme che uccide i profeti e non ne ascolta la voce […] il volto di Gesù di Nazareth ci mostra un Dio che ha a cuore la storia dell’uomo e le sorti del suo esistere. Un Dio dal tratto signorile e ospitale che diventa grembo per l’espressione di ogni uomo e culla per la sua continua creazione» (109).
Una chiesa così sarà alla fine capace di propiziare una forma e una prassi di fede – più precisamente: un cristianesimo – in grado non solo di intercettare le provocazioni della postmodernità, dal pluralismo all’ermeneutica debole, dall’attenzione a vissuti all’ambiguo ritorno del sacro, ma anche e forse soprattutto in grado di rappresentare, all’interno di quella transizione aperta che la postmodernità stessa raffigura, un’istanza critica, di verifica, di controcanto profetico rispetto alle conquiste, reali o presunte, ai cambiamenti, alle svolte che gli uomini e le donne di questo tempo realizzano. Con grinta e passione giovanile – come ricorda Giuseppe Lorizio, nella nitida e pungente Prefazione al volume – l’autore si cimenta nell’elaborazione di questa possibile nuova immagine dell’esperienza credente. Di questa possibile nuova immagine del cristianesimo.
A suo avviso, nel tempo del disincanto della ragione, della crescente apatia e indifferenza esistenziale della questione Dio, della fluidità dei percorsi e delle parabole di vita, dell’avvento imperioso della tecnica, dell’imporsi di una globalizzazione mondiale precipitosa; ma ancora nel tempo del ritorno del sacro, di un’avvolgente continua insoddisfazione dei soggetti, della difficile resa a uno scetticismo ingombrante, nel vuoto non appagato di istruzioni condivise circa l’umano che è comune e il difficile mestiere di vivere, «emerge il bisogno di un cristianesimo che provochi, che scuota, che rompa la sordità del torpore, che riaccenda quei filtri critici che gli stili di vita odierna e la cultura dei mass-media continuano a spegnere; un cristianesimo capace di far germogliare dentro il vissuto dell’uomo e delle comunità cristiane, della cultura e della società, una feconda crisi da cui possano nuovamente sorgere delle domande. Emerge dunque la necessità di un cristianesimo che appaia sulla scena del camminare odierno, come un ospite “leggero”, capace di suscitare nuovi “perché”, di mettere in crisi le strutture di pensiero e di mentalità già assodate nella cultura e negli stili di vita, di allargare l’orizzonte in cui l’uomo pensa la propria esistenza e il proprio stare al mondo; occorre perciò una pre-evangelizzazione capace di risvegliare il cuore, riaccendere i desideri, allargare gli orizzonti esistenziali delle possibilità, riportare l’uomo a suo io più autentico e sorprenderlo» (144).
Oltre il muro di carta
Nella sua già ricordata Prefazione al volume, Lorizio indica nella ricerca di Cosentino l’emergere di un procedere teologico di cui si sente davvero il bisogno. Troppo spesso – egli annota – la teologia ama circondarsi dentro e dietro un muro di carta e di incenso, nel quale l’accesso è permesso a pochissimi addetti ai lavori. E più di frequente il suo rigore scientifico si trasforma in un vero e proprio rigor mortis, che più nulla ha da dire al mondo e alla chiesa. Senza l’ascolto del tempo che viviamo, senza lo sforzo di contribuire all’acquisizione di quella contemporaneità di spirito, di cui parla Martini, con tutto il rischio che un tale sbilanciamento comporta, la teologia rischia l’autoreferenzialità e la sterilità.
Il volume che abbiamo qui presentato prova appunto una strada diversa, un fecondo abbraccio con la stagione culturale e spirituale che ci è data vivere, un radicale lasciarsi interrogare e provocare da essa, al fine di restituire al cristianesimo una parola “udibile”, un profilo più marcato e, infine, maggiore forza di provocazione.
Cosentino ha il merito di aver indicato le sfide e i compiti che attendono questo nuovo esercizio della teologia e di aver provato a farsene carico. Non a tutti è riuscito in questa opera a dare piena soddisfazione. Lo stesso Lorizio indica all’autore almeno un altro paio di piste interessanti da sondare. A quest’ultimo non mancherà il tempo, la passione e l’urgenza interiore di fare ciò e a noi la simpatia e la condivisione di una missione per onorare debitamente un tale lavoro.