Stiamo vivendo un tempo speciale, che ci ricorda la precarietà della vita umana, e ci sollecita a riscoprire il senso di ciò che l’umanità intera sta vivendo in giro per il mondo. Nelle famiglie, nella scuola, nel lavoro, come anche nella Chiesa. È un tempo duro, fatto di incertezze sociali del tutto inedite, che hanno intaccato tanti aspetti della vita, ma soprattutto hanno obbligato un po’ tutti a rivedere il senso dei rapporti di vicinanza. Siamo fatti per entrare in relazione gli uni con gli altri, l’annuncio del Vangelo è relazione, ma in questo tempo di pandemia è proprio alla distanza che si rivolgono le restrizioni della quarantena prima, e della fase della ripresa adesso.
«Quando abbiamo iniziato il lockdown nella nostra parrocchia, racconta un parroco, ci siamo chiesti cosa avremmo potuto fare. Ci siamo inventati tante cose nuove, catechesi a distanza, celebrazioni in streaming, ma con il passare del tempo ci siamo accorti che… non era la stessa cosa. C’era qualcosa che mancava: le drammatiche scene del coronavirus ci raccontavano delle richieste di aiuto della nostra gente, e allo stesso tempo si avvertiva forte il senso di impotenza, l’impossibilità di poter fare qualcosa».
Capire ciò che succede per reagire in modo costruttivo
Trovarsi davanti ad una chiesa chiusa ai fedeli è stato certamente traumatico per quanti avevano l’abitudine di trovare nella propria comunità ecclesiale un baluardo di difesa dalle proprie incertezze ma anche una parola di conforto e di sostegno per andare avanti nelle vicende difficili della vita. Ancor di più per quanti lavorano nella pastorale o sono impegnati in opere di carità con le loro comunità religiose: vedersi obbligati a celebrare in una chiesa vuota o al massimo animata dalle foto delle persone che abitualmente sedevano tra i banchi, è stata un’esperienza scioccante e destabilizzante.
In una ricerca portata avanti dall’Università salesiana, in collaborazione con La Sapienza di Roma, si è voluto esplorare l’impatto psicologico che questa condizione di quarantena ha avuto tra coloro che di solito sono chiamati a vivere le relazioni come un trampolino per l’evangelizzazione. La ricerca, di cui riportiamo alcune anticipazioni dei risultati, è parte di un progetto più ampio di indagine, che sarà pubblicato a breve nell’«European Journal of Personality», dal titolo Moral disengagement and generalized social trust as mediators and moderators of rule respecting behaviors during covid-19 outbreak. Uno studio inteso come una finestra su ciò che stava succedendo, per capire e per prepararsi a reagire in modo costruttivo, soprattutto ora che tanti ambienti, di culto, oratori, conventi, stanno tornando a riaprire.
Dalla parte di pastori senza popolo
Gli obiettivi di questa ricerca si focalizzano essenzialmente su questi due aspetti. Da una parte, rivelare quanto l’impatto psicologico delle forti limitazioni sociali abbia inciso sulla capacità di adattamento delle persone, e dall’altra mettere in evidenza come gli aspetti motivanti della vita pastorale, soprattutto quelli che animano il ministero sacerdotale e il servizio di carità, siano stati spinte educative per nuove opportunità di adattamento costruttivo.
«Una familiarità senza comunità, senza Chiesa, senza i sacramenti, è pericolosa», avvertiva Papa Francesco nella sua omelia del 17 aprile. Era un pericolo che già da tempo tanti operatori della pastorale avvertivano, oberati da un lavoro che portavano avanti… senza la presenza della gente, con le porte delle chiese chiuse.
Ben presto si sono accorti di trovarsi in una condizione che risultava essere del tutto paradossale: dovevano lavorare senza il popolo, senza poter contattare la gente, visitarla, accompagnarla, guidarla, ascoltarla. Con un senso di frustrazione crescente che a volte si è tramutato in fallimento, senso di colpa, soprattutto quando si sono resi conto che il pastoral lockdown voleva dire chiusura di tutto, punto e basta!
Tale disorientamento psicologico è confermato dalle risposte dei 205 sacerdoti e religiose impegnati nella pastorale, che hanno partecipato alla ricerca, un gruppo di tutte le età, tra i 20 e gli 88 anni. Tutti con un gran desiderio nel cuore, di poter condividere la loro esperienza di “evangelizzazione del silenzio”, come l’ha definita uno di loro. Ma quali sono i punti specifici che sono emersi da questa indagine? Proviamo a sintetizzarli.
Lo studio ha permesso di rilevare come la loro “fiducia sociale” fosse condizionata dalle informazioni che ricevevano sulla gravità della situazione, ma anche dal modo con cui percepivano sé stessi e la loro autostima. La loro ansia era maggiore se si percepivano incapaci di regolare l’impatto emotivo dinanzi alle nuove regole costrittive, mentre avevano minori livelli di ansia nella misura in cui manifestavano una buona stima di sé e una buona capacità di autoregolazione.
Inoltre, uno degli indicatori di vulnerabilità e di stress percepito è stato il senso di solitudine: la “perdita” del normale rapporto pastorale è diventato un’esperienza di isolamento forzato e di marginalizzazione, che ha alimentato molte insicurezze psicologiche: l’incertezza del futuro, la paura per sé e per i propri cari, la lontananza dagli affetti, anche quelli più importanti, la privazione della libertà di compiere le azioni più banali come quella dell’accoglienza in una chiesa o la celebrazione della confessione. In un certo qual modo la vita di questi pastori è stata come stravolta da un’esperienza di perdita, o meglio dalle tante perdite sperimentate in questo tempo di coronavirus. Del resto tanti di loro hanno vissuto da vicino vere e proprie condizioni traumatiche. «La mia chiesa era stata trasformata in un obitorio», diceva un parroco della diocesi di Bergamo dove avevano ammassato decine e decine di bare. Il trauma, sappiamo bene, non è solo l’esperienza fisica subita, ma è avvallato dal fatto di esserci nelle situazioni dolorose, e sentirsi impotenti di poter reagire.
Questi vissuti altamente stressanti hanno inciso sul proprio benessere psicofisico, come rivelano alcuni dati del nostro studio; insonnia, mal di testa, mal di stomaco, ansia, panico, umore depresso. Ad una domanda specifica il 63 per cento dei partecipanti alla ricerca si definiva “molto o abbastanza stressato”, mentre il 43 era consapevole di vivere in “un livello massimo di stress”. Questi effetti psicosomatici possono collegarsi con il modo di gestire il senso di costrizione sociale e i livelli di inadeguatezza psicologica che questa sorta di “astinenza da pastorale” ha generato nelle persone intervistate.
Del resto, ascoltare le tante richieste pastorali della gente ed essere costretti a dire di “no” per le rigide regole della convivenza è stata una grande forzatura nello stile di vita di molti operatori della pastorale. In questa situazione, dover accettare l’isolamento come regola protettiva per sé e per gli altri era l’unica cosa buona che si potesse fare. Benché fosse un dato di fatto, però, questo clima di restrizione e di lockdown non ha fatto che alimentare i livelli di stress e di tensione che questi operatori di aiuto e di dedizione hanno accumulato dentro di loro.
Discernere l’essenziale per annunziare ancora una volta la speranza
Ma allora, tutto negativo? No di certo. Infatti la nostra indagine conferma che se da un lato la capacità regolativa di tanti pastori e religiose di buona volontà è stata messa a dura prova, allo stesso tempo dalle loro risposte si coglie che la quarantena non ha spento il loro desiderio di dare un senso prospettico a ciò che hanno vissuto, soprattutto ora che riaprendo le chiese devono incoraggiare i fedeli a tornare a pregare, prestando però bene attenzione alle regole del distanziamento sociale!
La ricerca ci dice, quindi, che la condizione di isolamento pastorale dischiude comunque degli aspetti costruttivi che ora occorre saper discernere con pazienza e perseveranza. Questa volta sono gli stessi pastori, religiosi e religiose, a ricordare con la loro testimonianza di vita come le crisi, anche le più dure, diventano delle opportunità per aprirsi a nuovi orizzonti di senso. Ed è soprattutto la dimensione spirituale, il modo di vivere la fede, a confermarsi come un fattore altamente protettivo, che ha permesso loro di ritrovare giorno dopo giorno il senso della loro vocazione, anche nell’esperienza limitante della quarantena.
Tutto questo è un grosso insegnamento, soprattutto ora che si riaprono le chiese: imparare che l’estrema fragilità umana sperimentata può diventare un’occasione per riscoprire che, anche nel tempo del coronavirus, pur tra tante regole di distanziamento sociale, continua ad esserci quella passione pastorale che anima il cuore di tanti preti e suore desiderosi di rendere tangibile il volto di una Chiesa in uscita, anche quando umanamente parlando sembra più difficile.
di Giuseppe Crea
Missionario comboniano psicologo, psicoterapeuta