Cinquant’anni sono tanti se rapportati alla vita di un uomo, ma pochi, anzi pochissimi se considerati dal punto di vista di un’istituzione bimillenaria sospettosa d’ogni cambiamento e gelosa delle proprie tradizioni: la Chiesa cattolica.
Eppure “solo” mezzo secolo è trascorso dalla morte di don Lorenzo Milani, avvenuta il 26 giugno del 1967 all’età di soli 44 anni, e la storica visita compiuta nel 2017 da Papa Francesco alla sua tomba nel piccolo cimitero del borgo di Barbiana, arroccato sull’Appennino toscano.
C’è dunque voluto un Papa speciale per riconoscere finalmente il valore dell’opera di un uomo e sacerdote eccezionale al tempo stesso sacerdote, maestro e “padre” dei suoi ragazzi.
La Chiesa dell’epoca invece lo lasciò morire nell’indifferenza, circondato solo dall’affetto dei suoi numerosi “figlioli”, senza che Monsignor Ermenegildo Florit, a quei tempi Cardinale Arcivescovo di Firenze, si fosse mosso per celebrarne le esequie funebri, come invece avrebbe imposto la prassi in caso di decesso di un sacerdote della sua diocesi.
Certo i rapporti fra quel prete scomodo, affamato di verità ed assetato di giustizia, ma pur sempre obbediente, ed il suo Vescovo non erano mai stati facili.
Il primo infatti era testardamente fedele allo spirito del Vangelo, a costo di essere considerato quasi alla stregua di un pericoloso rivoluzionario dal secondo, conservatore e corte vedute.
Però anche da un Vescovo come lui sarebbe stato lecito attendersi un gesto di riconciliazione nei confronti di un giovane prete ormai in fin di vita, diverso comunque dalla gelida lettera inviatagli nel gennaio del 1966 in cui fra l’altro gli rinfacciava lo “spirito classista e parziale” che l’aveva condotto ad intraprendere “la battaglia contro ogni altro metodo pastorale che non fosse la scuola” col risultato di farlo apparire “un po’ illuminista”.
Conseguentemente, continuava il Card. Florit, “il fatto che sei rimasto parroco di Barbiana credo sia dipeso da questo: i tuoi superiori hanno creduto di non riconoscere in te la necessaria predisposizione alla carità pastorale, ma piuttosto lo zelo fustigatore che ti fa apparire dominatore delle coscienze prima che padre”.
Alla lettura di queste parole don Lorenzo scoppiò in lacrime per la prima ed unica volta di fronte ai suoi ragazzi, perché il non riconoscimento della sua “paternità” era la peggior cattiveria che un Vescovo potesse scrivere ad un prete come lui, che per quasi 13 anni aveva vissuto come un eremita a Barbiana consacrando il suo sacerdozio ad un gruppo di ragazzi che ardeva dalla voglia di vedere crescere e camminare come uomini liberi sui sentieri del mondo.
Quando parlava di loro infatti non li chiamava “i miei alunni”, ma “le mie creature”, amandoli tanto che in punto di morte si preoccupò di aver forse voluto più bene a loro che a al Signore, sentendo pertanto il bisogno di giustificarsi nel suo testamento col dire: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma spero che Lui non stia attento a queste sottigliezze”.
Nato da madre ebrea e padre anticlericale, don Lorenzo proveniva da una famiglia fiorentina più che agiata, tanto che delle 15 automobili che negli anni ’20 del secolo scorso circolavano a Firenze due erano di loro proprietà, così come una serie di case e tenute.
Dopo un’adolescenza spensierata, un’improvvisa crisi di coscienza allo scoccare dei vent’anni lo portò ad una conversione piena e radicale che sconvolse la sua famiglia e lo indusse ad entrare in seminario, dove si distinse subito per la sua indipendenza di pensiero, tanto “da far molto confondere”, come scrisse di lui il rettore, gli altri seminaristi.
A Barbiana, minuscolo borgo appenninico arrampicato sul Mugello con nemmeno cento abitanti, don Lorenzo fu trasferito a scopo punitivo nel 1954 dalla precedente parrocchia di San Donato di Calenzano, da cui erano partite lamentele perché lui “faceva il gioco delle sinistre”.
Si pensava che lassù, in quella specie di “Siberia ecclesiastica” dove si arrivava solo a piedi, si sarebbe calmato, ma proprio a Barbiana don Lorenzo ritrovò il senso della propria vita nel salvare, con gli altri, se stesso nella fede in Dio, e tutto ciò a mezzo dell’educazione basata sull’espressione “I care” (“mi interessa”) volutamente contrapposta allo squallido “me ne frego” fascista.
Secondo lui i figli semi-analfabeti di quei montanari soltanto interessandosi alla lettura quotidiana dei giornali, allo studio delle lingue moderne, della storia, della geopolitica, del diritto e dell’educazione civica, oltreché imparando ad esprimersi in un italiano formalmente impeccabile, avrebbero potuto colmare il divario che li separava dai loro coetanei appartenenti alle classi sociali più agiate, “perché la povertà non si misura a pane, casa e caldo, ma sul grado di cultura”, come purtroppo dobbiamo ancora amaramente constatare ai giorni nostri.
Primo corollario del suo sistema educativo fu il saper reagire all’ingiustizia non con la violenza, ma con le armi pacifiche costituite dal voto e dall’esercizio del diritto di sciopero.
Un particolare tipo di sciopero era costituito dall’obiezione di coscienza, perché “l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, di cui i giovani non credano di potersi fare scudo né davanti agli uomini, né tanto meno davanti a Dio”.
In altre parole don Milani per primo osò sostenere il dovere di disobbedire a ordini ritenuti sbagliati (come bombardamenti di civili, rappresaglie, decimazioni, fucilazioni o comunque punizioni riservate ai disertori, guerre d’aggressione…) non solo in base al comandamento del “non uccidere”, ma anche all’art. 11 della nostra Costituzione Repubblicana, che ripudia la guerra come strumento d’offesa.
Idee, metodi ed intuizioni decisamente in anticipo sui tempi, quelle di don Milani, che in uno degli ultimi incontri col suo Vescovo gli si rivolse così: “Sa, Eminenza, quale è la differenza fra me e lei? Io sono avanti di cinquant’anni!”
Affermazione fondatissima, come testimoniato dalle foto del Papa raccolto in preghiera davanti alla sua tomba a distanza di mezzo secolo preciso.
(P.s.: testo di Anselmo Pagani)