Quando ho compiuto i 40 anni ho sentito, come non mai, la verità della parola di Giacomo: “Non dite: ‘L’anno prossimo faremo, diremo’, ma ‘se Dio vorrà’”. Oggi, mentre compio i 60 anni, sento l’urgenza di esercitarmi in un reale distacco dalle cose e dalla stessa vita terrena, dando sempre più peso e spazio alla comunione con il Signore Gesù Cristo per vivere i giorni e le tappe di questa esistenza come luogo della graduale immersione nei misteri della vita, della morte e della risurrezione di Gesù. Come diceva Paolo: “Per me vivere è Cristo e morire un guadagno”. O ancora: “La nostra vita è nascosta con Cristo in Dio”.
E poiché ho ricevuto, fin da ragazzo, la vocazione a diventare prete, alla fine della mia vita vorrei poter rileggere questi decenni di ministero pressapoco come Paolo lo ha fatto, secondo il libro degli Atti degli Apostoli, rivolgendosi ai presbiteri di Efeso radunati a Mileto per l’ultimo saluto. Vorrei poter dire che solo la missione, e nessun altro interesse, ha impegnato la mia vita; vorrei poter dire che, come Paolo, mi sono dedicato giorno e notte a coloro che il Signore mi aveva affidato.
Intanto oggi, con tutta sincerità, esprimo la gioia di avere incontrato il Signore e di avere aderito a lui, diventando suo discepolo e strumento vivo della sua misericordia. Sento anzi il bisogno di rimarcare che, con il passare del tempo, questa gioia non solo non è stata ridimensionata dalle fatiche e dalle prove, ma è andata crescendo e irrobustendosi. Veramente posso dire che, se vivo per il Vangelo, ancor prima vivo del Vangelo.
Del futuro non so nulla. Conosco però la verità fondamentale, e cioè che la sorte di Cristo diventa, giorno per giorno, la mia. Lo diventa perché, soprattutto l’Eucaristia, mi fa corpo di Cristo e mi introduce realmente nei suoi misteri di morte e risurrezione. Nei prossimi anni potrò conoscere la malattia e certamente dovrò passare per il sentiero stretto della morte. Chiedo a Maria, che ha assistito all’agonia di Gesù, di essere vicina anche a me. Perciò la prego dicendo: “Santa Maria, prega per me, peccatore, adesso e nell’ora della mia morte”.
Ringrazio tutti coloro che mi hanno amato e fatto del bene, senza magari trovare in me la dovuta riconoscenza; e chiedo perdono a tutti coloro che, consapevolmente o inconsapevolmente, ho fatto soffrire. E a Dio chiedo di avere misericordia con me, soprattutto per i peccati di omissione, segno di una risposta limitata o disattenta alla sua chiamata e alle attese dei fratelli che egli, lungo il mio percorso di vita, mi ha dato.
Getto uno sguardo sull’intera mia vicenda avvertendo sempre più la sua verità paradossale: essa è come un fragile filo d’erba che presto appassisce; nel medesimo tempo, essa è luogo di una vocazione straordinaria: quella di essere figli di Dio. Veramente portiamo un tesoro in vasi di creta. Dio è grande. “Gloria Dei vivens homo; vita autem hominis, visio Dei” (Ireneo, Adv. Haer.).
Il giorno 8 agosto 2017, dopo il funerale del card. Dionigi Tettamanzi, mons. Corti aggiungeva un foglietto a mano in cui è scritto così:
«Stamattina, in Duomo [a Milano ndr], ho incrociato due volte il mio successore a Novara, mons. F.G. Brambilla. Gli ho detto: “Adesso tocca a me. Preparami il posto”. Sono bastati pochi secondi per fare questo cenno. Ma esso rimane importante. Tettamanzi aveva solo due anni più di me. E io viaggio verso l’82mo. Mi sembra giusto che io venga sepolto nella Cattedrale di Novara. L’anello datomi nel 1990 dal VG Germano l’ho subito inteso come anello di nozze. La sposa era la Chiesa di Novara. Ho vissuto il ministero per 20 anni senza mai pensare o desiderare altra destinazione. Accettavo da Dio che tutta la mia vita significasse l’accompagnamento di questa Chiesa particolare, facendo mia la parola di Paolo nella II ai Corinti, là dove parla di se stesso e del compito di portare quella Chiesa all’incontro con Cristo glorioso».