In questi ultimi giorni di vigilia l’abbondanza di merce negli ipermercati dell’hinterland è qualcosa che sommerge. File di pingui prosciutti dai soffitti, muri di panettoni, plotoni di spumanti incombono sui corridoi in cui i carrelli carichi passano a stento. E piramidi di mandarini, mai visti grandi così, e generose forme di Parmigiano, e salami, lasagne, dolci – roba, roba, come faremo a mangiare tutta questa roba?
Esco senza comprare, con un senso di oppressione. In tanta opulenza mi manca il fiato. E mi manca qualcosa d’altro. Babbi Natale ovunque, auguri, ma che cosa in verità ci auguriamo, e sulla base di che? Il convitato quasi innominato nel Natale d’Occidente è ciò su cui il Natale si fonda, è il nascere di Gesù Cristo. Ciò per cui l’anno che viene è il 2024 dopo Cristo, universalmente. Eppure, sempre meno di quella nascita si parla. E anche chi ci crede ne racconta, mi pare, quasi solo fra cristiani, perché gli “altri” sorridono ormai, di quella fiaba. In un mondo travolto dalla infodemia, il grande assente è Colui che nasce. Sui media, nel discorrere comune al di fuori da chiese e oratori o istituzioni cattoliche, la memoria cristiana a Natale mi pare quasi catacombale.
Che cosa ci manca? In un intenso dialogo di vent’anni fa fra Giovanni Testori e Luigi Giussani recentemente ripubblicato, Il senso della nascita (Bur), lo scrittore parla del “grumo” dimenticato. Il “grumo” è il nascere dell’uomo da un apparente nulla di carne, eppure uomo: cosciente, libero, capace di amare. Il “grumo” è quel nostro venire al mondo da semi invisibili, o magari anche da un incontro casuale, eppure uomini: liberi, capaci di amare. Se ti fermi a pensarci, che mistero insostenibile; totalmente rimosso da una cultura per cui di quelle due cellule si può fare nei laboratori di ricerca internazionali di tutto, oppure, ogni giorno nei nostri ospedali, si può legalmente annientarle.
Il “grumo” evocato da Testori si fa pressione inesorabile, per un credente, in questi giorni in cui si parla di tutto tranne che di quel Figlio che ci è stato dato. Verbo che si è fatto carne, Verbo, a vederlo, bambino, fra le braccia di sua madre. Ma il Fiat di una vergine non piace affatto al nostro tempo, è scientificamente assurdo, razionalmente intollerabile – nonché, dicono, sessuofobico. Già che sia nato in quel modo, quell’uomo: che poi, morto, sia risorto, via, che insostenibile pretesa. Si lascia ancora che i bambini a scuola, almeno in alcune, facciano il Presepe e cantino “Santa Notte”. Ci si commuove, pensando a quando si era bambini noi, e a quella favola si credeva.
Quanto pesa però quest’assenza, nel fragore gonfio di roba del nostro Natale. Pesa – anche se molti non ci pensano affatto – perché quella nascita dà al nostro essere un senso, nel vivere e oltre la morte. Per dirlo semplicemente: quei figli che amiamo tanto, se se ne andassero in una notte in un disgraziato incidente, che ne sarebbe di loro? Di colpo non sarebbero più nulla? È la domanda che mi verrebbe da fare, non per provocazione, ma sinceramente, ai tanti che sorridono del Presepe: avete mai pensato che nel vostro orizzonte chi se ne va, se ne va per sempre? Non vi è intollerabile? Come si fa ad avere un figlio, nell’orizzonte del nulla? (Infatti, di figli se ne fanno sempre di meno).
Il cuore di questi Natali che tracimano roba nei supermercati è la notizia che Cristo è nato, portatore di un annuncio: «Non da sangue, né da volere di carne, né di uomo, ma da Dio sono stati generati». Dopo quel primo Natale non siamo caso, non siamo nulla e non finiamo nel nulla: il destino di ognuno è nella trama di un disegno buono. Disegno in cui, aggiunge Testori in quel dialogo, non esistono gli ultimi, i reietti, gli sfortunati: tutti sono stati voluti e pensati. Il senso del Natale cristiano è la speranza contro il niente nichilista. Mi appare strano come in questo coro dolciastro di “Jingle Bells” sia ormai quasi trasgressivo parlarne – l’ultima trasgressione. Il nascere di Cristo nei giorni del solstizio d’inverno, luce che vince il buio della morte, è cosa di cui si parla in chiesa, eppure socialmente impresentabile.
Buone Feste, recitano da anni gli auguri “corretti” ed educati. Auguri, dunque, ma che c’è da far festa? Un visitatore da molto lontano non capirebbe. Timidi a dire spesso siamo anche noi, che ci crediamo. Minoritari. Inattuali. Ancora con questa fiaba – ci fanno intendere i colti, gli intelligenti – buona per evi ignoranti. Ma nel Terzo Millennio, nei luminosi progressi della Scienza, via. Raccontatela ai bambini. Eppure, la speranza suscitata da un figlio nato in un angolo oscuro della Palestina, lontano dall’Impero, anima ancora chi la segue. Vive, questa speranza, e dà vita. Dà il coraggio di avere figli, anche in un’ora della Storia che sembra voltarsi indietro, come impazzita. Quel nascere divino e carnale è ciò che promette che, se quelli che amiamo muoiono, non muoiono per sempre. Quel nascere è la certezza che non siamo un nulla. È per questo, che da tanto lontano si incamminarono i Magi.