«In questo anno dedicato a san Giuseppe, vi invito a riscoprire il volto di quest’uomo di fede, di questo padre tenero, modello di fedeltà e di abbandono fiducioso al progetto di Dio»
Cari fratelli,
sono molto lieto di accogliervi come comunità sacerdotale di San Luigi dei Francesi. Ringrazio il Rettore, Mons. Laurent Bréguet, per le sue gentili parole.
In una società segnata dall’individualismo, dall’affermazione di sé, dall’indifferenza, voi fate l’esperienza di vivere insieme con le sue sfide quotidiane. Situata nel cuore di Roma, la vostra casa, con la sua testimonianza di vita, può comunicare alle persone che la frequentano i valori evangelici di una fraternità variegata e solidale, specialmente quando qualcuno attraversa un momento difficile. Infatti, la vostra vita fraterna e i vostri diversi impegni sono capaci di far sentire la fedeltà dell’amore di Dio e la sua vicinanza. Un segno, un segnale.
In questo anno dedicato a San Giuseppe, vi invito a riscoprire il volto di quest’uomo di fede, di questo padre tenero, modello di fedeltà e di abbandono fiducioso al progetto di Dio. «Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza» (Lett. ap. Patris corde, 2). Non bisogna lasciare da parte le fragilità: sono un luogo teologico. La mia fragilità, quella di ognuno di noi è luogo teologico di incontro con il Signore. I preti “superman” finiscono male, tutti. Il prete fragile, che conosce le sue debolezze e ne parla con il Signore, questo andrà bene. Con Giuseppe, siamo chiamati a ritornare all’esperienza dei semplici atti dell’accoglienza, della tenerezza, del dono di sé.
Nella vita comunitaria, c’è sempre la tentazione di creare dei piccoli gruppi chiusi, di isolarsi, di criticare e di parlare male degli altri, di credersi superiori, più intelligenti. Il chiacchiericcio è un’abitudine dei gruppi chiusi, un’abitudine anche dei preti che diventano zitelloni: vanno, parlano, sparlano: questo non aiuta. E questo ci insidia tutti e non va bene. Bisogna lasciar perdere questa abitudine e guardare e pensare alla misericordia di Dio. Possiate sempre accogliervi gli uni gli altri come un dono. In una fraternità vissuta nella verità, nella sincerità delle relazioni e in una vita di preghiera possiamo formare una comunità in cui si respira l’aria della gioia e della tenerezza.
Vi incoraggio a vivere i momenti preziosi di condivisione e di preghiera comunitaria in una partecipazione attiva, gioiosa. Anche i momenti della gratuità, dell’incontro gratuito… Il prete è un uomo che, alla luce del Vangelo, diffonde il gusto di Dio intorno a sé e trasmette speranza ai cuori inquieti: così dev’essere. Gli studi che fate nelle varie Università romane vi preparano ai vostri futuri compiti di pastori, e vi consentono di apprezzare meglio la realtà in cui siete chiamati ad annunciare il Vangelo della gioia. Tuttavia, voi non andate sul campo per applicare le teorie senza prendere in considerazione l’ambiente in cui vi trovate, come pure le persone che vi sono affidate. Vi auguro di essere «pastori con “l’odore delle pecore”» (Omelia, 28 marzo 2013), persone capaci di vivere, di ridere e di piangere con la vostra gente, in una parola di comunicare con essa. A me preoccupa quando si fanno delle riflessioni, pensieri sul sacerdozio, come se fosse una cosa di laboratorio: questo sacerdote, quell’altro sacerdote… Non si può riflettere sul sacerdote fuori dal santo popolo di Dio. Il sacerdozio ministeriale è conseguenza del sacerdozio battesimale del santo popolo fedele di Dio. Questo, non va dimenticato. Se voi pensate un sacerdozio isolato dal popolo di Dio, quello non è sacerdozio cattolico, no; e neppure cristiano. Spogliatevi di voi stessi, delle vostre idee precostituite, dei vostri sogni di grandezza, della vostra auto-affermazione, per mettere Dio e le persone al centro delle vostre preoccupazioni quotidiane. Per mettere il santo popolo fedele di Dio al centro bisogna essere pastori. “No, io vorrei essere un intellettuale soltanto, non pastore”: ma, chiedi la riduzione allo stato laicale, ti farà meglio, e fai l’intellettuale. Ma se sei sacerdote, sii pastore. Farai il pastore, in tanti modi di farlo, ma sempre in mezzo al popolo di Dio. Quello che Paolo ricordava al suo discepolo amato: “Ricorda tua mamma, tua nonna, dal popolo, che ti hanno insegnato”. Il Signore dice a Davide: “Io ti ho scelto dal dietro del gregge”, da lì.
Cari fratelli sacerdoti, vi invito ad avere sempre orizzonti grandi, a sognare, a sognare una Chiesa tutta al servizio, un mondo più fraterno e solidale. E per questo, come protagonisti, avete il vostro contributo da offrire. Non abbiate paura di osare, di rischiare, di andare avanti perché tutto voi potete con Cristo che vi dà la forza (cfr. Fil 4, 13). Con Lui potete essere apostoli della gioia, coltivando in voi la gratitudine di essere al servizio dei fratelli e della Chiesa. E con la gioia va insieme il senso dell’umorismo. Un prete che non abbia senso dell’umorismo, non piace, qualcosa non va. Imitate quei grandi preti che ridono degli altri, di sé stessi e anche della propria ombra: il senso dell’umorismo è una delle caratteristiche della santità, come ho segnalato nell’Esortazione Apostolica sulla santità, Gaudete et exsultate. E coltivate in voi la gratitudine di essere al servizio dei fratelli e della Chiesa. Come sacerdoti, siete stati «unti con l’olio di gioia per ungere con olio di gioia» (Omelia, 17 aprile 2014). Ed è solo rimanendo radicati in Cristo che potete fare l’esperienza di una gioia che vi spinge a conquistare i cuori. La gioia sacerdotale è la sorgente del vostro agire come missionari del vostro tempo.
Infine, vi invito a coltivare la riconoscenza. Riconoscenza al Signore per quello che siete gli uni per gli altri. Con i vostri limiti, le fragilità, le tribolazioni, c’è sempre uno sguardo d’amore posato su di voi e che vi dà fiducia. La riconoscenza «è sempre “un’arma potente”» (Lettera ai sacerdoti nel 160° della morte di S. Giovanni Maria Vianney, 4 agosto 2019), che ci permette di tenere accesa la fiamma della speranza nei momenti di scoraggiamento, di solitudine e di prova.
Affido ciascuno di voi, i vostri familiari, il personale della vostra casa, come pure i membri della parrocchia di San Luigi dei Francesi all’intercessione della Vergine Maria e alla protezione di San Luigi. Vi benedico di cuore, e vi chiedo per favore di non dimenticarvi di pregare per me, perché ho bisogno. Questo ufficio non è facile. E nei libri della spiritualità c’è un capitolo — in alcuni libri, ma pensiamo a Sant’Alfonso Maria de’ Liguori e a tanti altri — un capitolo su un tema e poi un esempio, e alcuni dicono: “Dove si prova l’ho detto con un esempio”, e danno un esempio di vita. Oggi, prima che voi siete entrati, padre Landousies mi ha detto che alla fine di giugno lascerà questo ufficio qui, in Curia: lui è stato il mio traduttore francese per tanto tempo. Ma io vorrei fare un riassunto della sua persona. È un esempio. Io ho trovato in lui la testimonianza di un sacerdote felice, di un sacerdote coerente, un sacerdote che è stato capace di vivere con martiri già beatificati — che conosceva a uno a uno — e anche di convivere con una malattia di cui non si sapeva cosa fosse, con la stessa pace, con la stessa testimonianza. E approfitto di questo pubblicamente, anche davanti all’Osservatore Romano, a tutti, per ringraziarlo per la testimonianza, che tante volte mi ha fatto bene. A me ha fatto bene il modo di essere. Lui se ne andrà, ma va a svolgere il ministero a Marseille, e farà tanto bene con questa capacità che ha di accogliere tutti; ma lascia qui il buon odore di Cristo, il buon odore di un prete, di un bravo sacerdote. Così davanti a voi gli dico grazie, grazie per tutto quello che hai fatto.