Contro tutte le caricature giornalistiche, Benedetto XVI è stato il Pastore mite. La beatitudine evangelica dei miti proclama: «Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,5). La terra promessa donata ai miti non è solo quella dove scorrono latte e miele, ma essa è l’anticipo della patria che Joseph Ratzinger ha raggiunto il 31 dicembre scorso. Egli è l’autore di Introduzione al Cristianesimo (1968), il primo libro che ho letto nell’ottobre del 1970, in prima teologia, e che conservo istoriato di tutte le mie giovanili osservazioni.
Mite, papa Benedetto lo era per carattere riservato e formazione rigorosa, perché sapeva che la ricerca della verità non può conoscere alcuna forzatura, ed esige il rischio di trovarla, ma non di poterla esaurire. Proprio perché nessuno può possedere pienamente la verità di Dio e del mondo, essa apre alla ricerca sinfonica che nasce nel confronto con gli altri e va cercata nel grembo della Chiesa. La sua è stata una teologia e una predicazione profondamente ecclesiale, nella scia dei grandi della tradizione (Agostino, Bonaventura) e con la persuasione che il lógos umano è affidabile e il Lógos divino s’è fatto carne. Per questo possono tenersi per mano, sono «come le due ali con cui lo spirito umano si innalza alla contemplazione della verità» (Fides et Ratio, Int.). Il suo stile discreto è diventato mitezza cristiana, che si è espressa in una fiducia sconfinata nelle persone, perché vedeva in esse l’impronta dell’immagine che li fa capaci di Dio.
Proprio il tema della centralità di Dio per la vita e la storia dell’uomo è stato il roveto ardente del suo magistero teologico. Ed è diventata la sfida del suo ministero papale. Ora per accostarci a questo “roveto inestinguibile” è possibile battere molte strade, per cui non sarebbe sufficiente un libro intero. Cerco di prendere una sorta di scorciatoia, evocando solo a tre citazioni: le prime due stanno al centro del discorso forse più importante rivolto alla Chiesa italiana, riunita nei suoi stati generali, nel momento solenne del Convegno di Verona del 2006; la terza citazione proviene da una conferenza del lontano 1969, nell’anno in cui la sua docenza cominciava a farsi conoscere nel mondo accademico. Sono come tre perle per ricordarlo!
Il Discorso in Fiera, tenuto a Verona il mattino di giovedì 19 ottobre 2006 da Papa Benedetto XVI, ne è stato come il “manifesto”. All’inizio del suo pontificato era un’occasione importante per indicare la via con cui le Chiese d’Italia potevano inserirsi nel respiro del nuovo cammino della Chiesa universale, inaugurato l’anno precedente con la sua recente elezione. Ero presente all’evento e mi colpirono due passaggi indimenticabili.
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Nel primo passaggio il Papa disegna la risurrezione di Gesù come la più grande mutazione della storia e della vita umana. È la pagina più bella di tutto il Discorso di Verona, una delle vette del Magistero postconciliare. La risurrezione di Gesù è declinata con un linguaggio teologico incandescente ed è illuminata con la luce abbagliante di un’ermeneutica dell’amore (agàpe). Ascoltiamo il primo passaggio: «La risurrezione di Cristo è un fatto avvenuto nella storia, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori. Nello stesso tempo essa non è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena; è invece la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo: per questo la risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza cristiana, dall’inizio e fino alla fine dei tempi» (Discorso in Fiera).
La “più grande mutazione” del cosmo, il “salto decisivo” della storia umana, l’ordine nuovo dell’esistenza cristiana personale, familiare e civile, il centro della testimonianza credente che si irradia nel mondo: si tratta di un linguaggio che in sette righe tiene insieme, con la potenza di una retorica asciutta e controllata, le dimensioni cristologiche, antropologiche, ecclesiologiche e cosmiche dell’annuncio della Pasqua. Sarebbe un testo da mandare a memoria.
Il Papa teologo sente il bisogno di proporre un’interpretazione agàpica del mistero pasquale. La “grande mutazione” può essere compresa e vissuta come un’esplosione dell’amore: «la cifra di questo mistero è l’amore e soltanto nella logica dell’amore esso può essere accostato e in qualche modo compreso: Gesù Cristo risorge dai morti perché tutto il suo essere è perfetta e intima unione con Dio, che è l’amore davvero più forte della morte. Egli era una cosa sola con la Vita indistruttibile e pertanto poteva donare la propria vita lasciandosi uccidere, ma non poteva soccombere definitivamente alla morte: in concreto nell’Ultima Cena egli ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci libera e ci salva. La sua risurrezione è stata dunque come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte. Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé» (Discorso in Fiera).
Solo il Lógos dell’agàpe mette in luce l’articolazione tra la realtà («era una cosa sola con la Vita indistruttibile e pertanto poteva donare la propria vita lasciandosi uccidere, ma non poteva soccombere definitivamente alla morte»), l’anticipo nel sacramento («nell’Ultima Cena egli ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci libera e ci salva»), la trasfigurazione operata dall’amore («come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte») e la sua irradiazione cosmica («una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé»). Notiamo la bellezza di questa concatenazione degli aspetti del Lógos pasquale, tenuto insieme dalla forza di agàpe!
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Il secondo passaggio del magistero di Papa Benedetto riferisce ai credenti la “grande mutazione” introdotta dal Risorto. La novità è iscritta nella vita del cristiano: «È ciò che rileva San Paolo nella Lettera ai Galati: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (2, 20). È stata cambiata così la mia identità essenziale, tramite il Battesimo, e io continuo ad esistere soltanto in questo cambiamento. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. Diventiamo così “uno in Cristo” (Gal 3, 28), un unico soggetto nuovo, e il nostro io viene liberato dal suo isolamento. “Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della “novità” cristiana chiamata a trasformare il mondo. Qui sta la nostra gioia pasquale» (Discorso in Fiera).
Desidero far assaporare tutta la potenza del linguaggio di questo testo incentrato sul nuovo spazio di esistenza dell’uomo. È un’immagine geniale che può essere considerata il cuore del discorso. Papa Benedetto afferma anzitutto che l’identità essenziale del credente continua ad esistere nel suo cambiamento. E, poi, fa seguire una spiegazione travolgente: il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. Nella Pasqua l’io del credente viene tolto, inserito in un noi più grande, in cui ritorna ad esistere in modo trasformato, cioè aperto mediante l’innesto nell’altro, nel quale guadagna “un nuovo spazio di esistenza”. Infine, il racconto dell’esistenza cristiana svetta nel cantus firmus della vita risorta: «è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della “novità” cristiana chiamata a trasformare il mondo». Dite voi se è poco. Il Papa teologo conclude quasi cantando: «Qui sta la nostra gioia pasquale!».
Mi sono permesso di chiosare il testo del Papa, perché mostra chiaramente che la relazione tra risurrezione di Gesù e novità della vita cristiana si attua in una circolarità in cui dono dell’agàpe trinitaria, dedizione di Gesù e libertà degli uomini stabiliscono tra loro la danza circolare dell’amore. Una reciprocità del dono che è possibile solo nella circolarità amante dello Spirito, quello Santo!
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La terza citazione proviene da un intervento alla radio bavarese la Vigilia di Natale del 1969, a conclusione di un ciclo di conferenze. Il giovane professore aveva appena quarantadue anni, ma si era segnalato per la limpidità cristallina del suo pensiero, che cominciava ad essere apprezzata anche in Italia per la traduzione, pubblicata il 1° gennaio dello stesso anno, della sua opera più famosa, giunta da noi alla venticinquesima edizione. Riporto per intero questo testo folgorante: «Il futuro della Chiesa può risiedere e risiederà in coloro le cui radici sono profonde e che vivono nella pienezza pura della loro fede. Non risiederà in coloro che non fanno altro che adattarsi al momento presente o in quelli che si limitano a criticare gli altri e assumono di essere metri di giudizio infallibili, né in coloro che prendono la strada più semplice, che eludono la passione della fede, dichiarandola falsa e obsoleta, tirannica e legalistica, tutto ciò che esige qualcosa dagli uomini, li ferisce e li obbliga a sacrificarsi. Per dirla in modo più positivo: il futuro della Chiesa, ancora una volta come sempre, verrà rimodellato dai santi, ovvero dagli uomini le cui menti sono più profonde degli slogan del giorno, che vedono più di quello che vedono gli altri, perché la loro vita abbraccia una realtà più ampia. La generosità, che rende gli uomini liberi, si raggiunge solo attraverso la pazienza di piccoli atti quotidiani di negazione di sé. Con questa passione quotidiana, che rivela all’uomo in quanti modi è schiavizzata dal suo ego, da questa passione quotidiana e solo da questa, gli occhi umani vengono aperti lentamente. L’uomo vede solo nella misura di quello che ha vissuto e sofferto. Se oggi non siamo più molto capaci di diventare consapevoli di Dio, è perché troviamo molto semplice evadere, sfuggire alle profondità del nostro essere attraverso il senso narcotico di questo o quel piacere. In questo modo, le nostre profondità interiori ci rimangono precluse. Se è vero che un uomo può vedere solo col cuore, allora quanto siamo ciechi!» (da un Discorso radiofonico alla radio bavarese, la vigilia del Natale 1969).
È un brano di una chiarezza emozionante: il futuro della Chiesa, ancora una volta come sempre, verrà rimodellato dai santi, ovvero dagli uomini le cui menti sono più profonde degli slogan del giorno, che vedono più di quello che vedono gli altri, perché la loro vita abbraccia una realtà più ampia. E perché questo non appaia un rimando a un tipo di vita cristiana impraticabile, il futuro Pontefice ci colpisce al cuore con un’espressione indimenticabile: Se oggi non siamo più molto capaci di diventare consapevoli di Dio, è perché troviamo molto semplice evadere, sfuggire alle profondità del nostro essere attraverso il senso narcotico di questo o quel piacere. In questo modo, le nostre profondità interiori ci rimangono precluse. Se è vero che un uomo può vedere solo col cuore, allora quanto siamo ciechi!
Nel giovane professore si vede già brillare il pastore mite che, per amore della verità, non smette di farci aprire gli occhi per cercare Dio, senza soggiacere ai narcotici del mondo moderno. Era il 1969: che cosa direbbe oggi? Rileggere i suoi otto anni di pontificato sono un antidoto alla depressione del tempo presente. Per questo Egli rimane per sempre con noi nel “nuovo spazio di esistenza” del Risorto!
+Franco Giulio Brambilla Vescovo di Novara