Il mistero della Madonna visto dai grandi registi. Come raccontare la madre di Gesù

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Sin dalle origini del cinema la figura di Maria è stata proposta soprattutto in quanto deuteragonista accanto a Gesù, destini indissolubilmente legati dal momento del fiat, a partire da La vie et la passion de Jésus-Christ (1898), di Georges Hatot e Louis Lumière a Intolerance (1916), di David W. Griffith padre fondatore del cinema americano. Il rischio di un’enunciazione tendenzialmente agiografica del personaggio viene eluso da quello sguardo d’autore che in maniera esplicita, implicita, paradossale o provocatoria, tra aderenza alle fonti e lettura metastorica, si sottrae agli stilemi consolidati per generare un’immagine/affezione in cui confluiscono i piani del volto intensivo e di quello riflessivo. È un’ascesi dello sguardo mai compiacente, atto a rimuovere l’eccedenza delle sedimentazioni espositive del soggetto rappresentato: Maria e il suo mistero.

In presenza di fonti non diegeticamente sufficienti alla costruzione di un biopic – se ne rende conto già don Emilio Cordero, giovane sacerdote paolino, nel suo Mater Dei (1950), primo film italiano a colori, realizzato nell’Anno Santo in cui Pio XII proclama il dogma dell’Assunzione – lo sguardo d’autore è indotto a percorsi trasversali e interstiziali.

Quando padre Patrick Peyton, sacerdote della Congregazione di Santa Croce, che aveva dedicato la sua vita alla diffusione della spiritualità mariana attraverso i nuovi mezzi di comunicazione, propone a Roberto Rossellini, in un incontro a Houston nel 1973, di finanziare un film sulla Madonna, intenzione originaria tuttora poco nota, il regista, consapevole dell’ineludibile esigenza di integrazioni non canoniche, come d’altronde è avvenuto per le diverse riscritture filmiche sul tema, propone di ricomprendere Maria in un lungometraggio su Gesù: Il Messia (1975). Il contratto viene firmato a San Pietro sotto la statua della Pietà e la scelta non è casuale, ma serve a convincere la committenza che rappresentare per tutto il film Maria giovane, in sintonia con quanto affermato dallo scrittore Georges Bernanos, non sarebbe stato scandaloso: «Se lo ha fatto Michelangelo lo può fare anche Rossellini» riferisce il figlio Renzo. L’iniziale committenza mariana non rappresenta una forzatura in quanto nella filmografia del regista la figura di Maria è spesso presente con allusive evocazioni, trama nelle trame, tessuto epiteliale che la rivela e che in lei si rivela come nella pietà rovesciata di Roma città aperta (1945) o ne Il miracolo (1948) in cui è metaforizzata la gravidanza di Nannina (Anna Magnani).

L’opzione di Maria deuteragonista è intensificata da Pier Paolo Pasolini ne Il Vangelo secondo Matteo (1964), la più poetica e densa scrittura filmica di un testo sacro, tra ellissi e anacronismi, nella duplicazione interpretativa Margherita/Susanna, con particolare riguardo per le istanze sociali a favore degli ultimi, come per la sequenza della fuga in Egitto in cui Maria e Giuseppe potrebbero apparire, per analogia, profughi della cronaca attuale. Lo scarto narrativo più potente, frutto di un’interpolazione del Vangelo secondo Giovanni, è nella scena della crocifissione vista nel crudo realismo di una soggettiva della Madonna che Pasolini affida alla propria madre, Susanna, autentica mater dolorosa, compenetrata in un’identica desolazione per la perdita del figlio Guido, strazio reiterato nella morte dello stesso Pier Paolo. Per la maternità di Maria, che già nell’incipit appare silente e incinta, Pasolini sceglie Margherita Caruso, una ragazza di 14 anni, che incarnava quella tipologia descritta in premessa alla sceneggiatura: «una giovinetta ebrea, bruna, naturalmente, proprio “del popolo”, come si dice; come se ne vedono a migliaia, con le loro vesti scolorite […] il loro destino a non essere altro che umiltà vivente. Tuttavia c’è in esse qualcosa di regale: e per questo penso alla “Madonna incinta” di Piero della Francesca a Sansepolcro: la madre bambina». Un attraversamento iconico indimenticabile è la visione onirica della Madonna di Ognissanti (Silvana Mangano) nel Decameron (1971), rivisitazione del Giudizio universale di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, in cui Maria sostituisce il Cristo Giudice.

Nel cinema industriale americano la relazione madre/figlio, in funzione attiva e dialogante, viene colta da Martin Scorsese nel discusso The Last Temptation of Christ (1988), dal romanzo di Nikos Kazantzakis, uno dei più pregevoli scrittori del XX secolo e con la sceneggiatura di Paul Schrader, autore, tra gli altri, del volume Trascendental Style in Film: Ozu, Bresson, Dreyer. È Maria (Verna Bloom) a supportare il figlio durante la tentazione abbracciandolo e poi a porre l’interrogativo fondamentale se si tratti del diavolo o di Dio. Presente all’ultima cena è lei a porgere la brocca del vino, nella Via crucis a fermare chi vuol lapidarlo e a implorarlo di andar via con lei. Durante la crocifissione sarà Gesù a chiederle perdono per essere stato un cattivo figlio. Rompendo gli schemi, il ruolo della madre si attua in un contesto di perturbante tensione tra allucinazione e materna affettività.

La concezione del semiologo francese Roland Barthes di interstizio funziona da modulo interpretativo di Maria nell’opera poetico/spirituale del cineasta russo Andrej Tarkovskij, non più deuteragonista, ma presenza in quanto vibrazione pittorica. Ne L’infanzia di Ivan (1962) nell’icona della Madre di Dio sulla parete di una casa distrutta dalle bombe; in Andrej Rublëv (1966) nella Chiesa della Dormizione, con l’affresco della natività, ripetuto a colori nel finale; in Nostalghia (1983) nella Madonna del parto di Piero della Francesca ad evocare la maternità; in Sacrificio (1986) nell’Adorazione dei Magi di Leonardo, in cui Maria è al centro della composizione con in braccio il bambino a richiamare il senso primo del film: la salvezza del mondo. Con Nostalghia, lo schermo consente di penetrare nella ritualità di una sacra rappresentazione così come nell’impareggiabile naïveté di Acto da primavera (1963), del regista portoghese Manoel de Oliveira, considerato uno dei maggiori esponenti del cinema europeo, dove l’itinerario della croce si conclude con repentine immagini di guerra e di catastrofe nucleare e nella suggestiva Natività di Cammina cammina (1983), di Ermanno Olmi, entrambi rielaborati nella esplicitazione del set. La semplicità primitiva da tableaux vivants della figura di Maria, affidata a interpreti non professionisti ha sovente contraddistinto il cinema d’autore sul tema, rendendolo immune dalla verbosità e dalle spettacolarizzazioni dei kolossal hollywoodiani.

Alla ricognizione di Maria all’interno del cinema cristologico d’autore si connette la sua declinazione nei film di apparizioni e pellegrinaggi, nel primo caso evocazione di una presenza con inevitabili criticità espositive, nel secondo, rappresentazione di un percorso individuale/collettivo, penitenziale/votivo risolto nell’aspetto umano come itineranza alla ricerca di senso.

E così ne La porta del cielo (1944), di Vittorio De Sica, girato durante l’occupazione tedesca a Roma, sul pellegrinaggio a Loreto per implorare il miracolo e dove quello profilmicamente più grande resta l’aver salvato centinaia di ebrei e perseguitati politici dai rastrellamenti registrandoli come comparse. O come Le notti di Cabiria (1957), di Federico Fellini, sul pellegrinaggio delle prostitute al Divino Amore per invocare la grazia in un clima di fervore tra sacro e profano e ne La dolce vita (1960) trasmigrando da un clima di «religiosità creaturale» ad una cronaca da set nevrotico a colpi di flash alla ricerca del sensazionale da fenomeno mediatico. O ne La Voie lactée (1969), pellegrinaggio a Santiago de Compostela, in cui Luis Buñuel, precursore del cinema surrealista, tratta con sensibilità la figura di Maria (Édith Scob) soprattutto nell’apparizione notturna, dopo che due eretici hanno sparato per divertimento a un rosario, donandone uno nuovo dinanzi al loro turbamento. «Non esiste mistero più profondo e più dolce – commenterà il curato – di quello della Vergine Maria». O il più recente Fatima (2020), di Marco Pontecorvo focalizzato, in chiave psicologica, sullo sguardo dei bambini su Maria e su «un fenomeno straordinario che ha unito – come sostiene il regista – credenti e non credenti in un comune desiderio di pace durante la Grande Guerra».

Nel cinema della modernità il personaggio viene esplorato nel suo mistero, al di là di semplificazioni e banalizzazioni, anche in modo paradossale e provocatorio. Je vous salue Marie (1985), di Jean-Luc Godard, uno dei massimi esponenti della Nouvelle Vague, ne è soglia estrema. Definito da padre Virgilio Fantuzzi «il più straordinario dei suoi film» non è l’attualizzazione del mistero dell’Incarnazione, ma quello della nascita di ogni uomo. Attraverso un glissement dal teologico al mitologico/psicologico lo stesso Godard sostiene che il film non è su Maria, ma su una donna di nome Marie che si ritrova a vivere un evento eccezionale e indesiderato. Pur attingendo alla tradizione mariana emerge qui la dimensione conflittuale delle relazioni di genere e del rapporto interiorità/esteriorità.

In questo itinerario sulla figura di Maria e il cinema affiora, contestualmente al personaggio, la mostrazione delle vittime dell’intolleranza e della guerra, dei malati in cerca di guarigione, delle donne di vita, degli ultimi sino alle trasfigurazioni dell’arte e agli interrogativi cogenti della contemporaneità, l’intento di superare i clichés dell’imagerie devozionale attraverso lo sguardo d’autore.

Ringrazio il produttore cinematografico e regista Renzo Rossellini; la co-sceneggiatrice de Il Messia Silvia D’Amico Bendicò; il regista Marco Pontecorvo per la loro disponibilità a rilasciare le interviste.

di Tiziana M. Di Blasio
Storica, docente del corso di “Cinema e Storia. Analisi filmica ed interpretazione storica” Pontificia Università Gregoriana – Rivista del Cinematografo