Martire delle mafie
Nativo di Canicattì, molto preparato in diritto e vincitore del difficile concorso in magistratura, Rosario decide di restare in quel territorio che Giacomo Cusmano, a fine Ottocento, aveva chiamato «terra di missione» e «luogo di martirio a secco». Nel bilancio dell’anno 1978 egli è già consapevole della pericolosità della sua scelta, «per il tipo di mondo in cui mi preparo a trascorrere tanto tempo della mia vita». Il suo programma di “uomo giusto” gli è chiaro fin dal giorno della laurea: sulla prima pagina della tesi scrive il motto Sub tutela Dei, quasi a rimarcare fin da subito che non intende affidarsi ad altri che all’Altissimo, al cui servizio egli pone la sua qualificata azione laicale, nutrita di concilio Vaticano II e degli insegnamenti di Paolo VI , da lui considerato «il Papa della mia giovinezza».
Nel mese di febbraio 1978, si legge nella sua agenda: «Soltanto gravi avvenimenti potrebbero per ora comportare la qualifica di “negativo”. Ma preghiamo il Signore che non accada nulla che possa provocare ciò». Siamo appena all’inizio della nuova vita e non si segnalano ancora gravi avvenimenti. In un quadro politico generale segnato dalla vicenda Moro e dall’assassinio di Vittorio Bachelet, la vecchia mafia siciliana comincia una sua peculiare metamorfosi che comporterà, nel corso degli anni Ottanta del Novecento, ben due guerre di mafia. Una lunga scia di sangue finalizzata ad affermare il culto del potere criminale onnipotente: il dio dei mafiosi è il potere, del tutto antitetico al vero Dio, di cui capi e affiliati scimmiottano le devozioni, snaturando i testi sacri, le immaginette e le processioni. Tra le famiglie di Cosa nostra, a livello agrigentino si sono incuneate nuove organizzazioni di emergenti, stidde (alla lettera, rami staccatisi dall’albero principale di Cosa nostra). All’occorrenza i vari “rami” mafiosi stipulano una sorta di patto confederativo che si attua mediante scambio di favori e, in particolare, di killer per l’esecuzione di omicidi e l’attuazione di vere e proprie stragi, finalizzate all’affermazione del potere. È quanto accade anche per la realizzazione dell’omicidio Livatino, designato come “soggetto sacrificale” da esponenti di ben due differenti stidde (quella di Palma di Montechiaro e di Canicattì). I loro capi convergono nell’attrezzare nei dettagli un “commando di morte”, non senza il benestare di Cosa nostra.
Cosa odiano in Livatino ideatori, persecutori e “picciotti” che organizzano l’agguato? Le due inchieste diocesane hanno consentito di raggiungere una granitica certezza morale: i mafiosi decretarono la morte di Livatino in odio all’autentica e cristallina fede che egli testimoniava, convergendo ad unum contro quel giusto, ben conosciuto come magistrato intergerrimo e incorruttibile a motivo della sua fede e per questo apostrofato dispregiativamente come “bigotto” e “santocchio” inavvicinabile. Rosario è odiato in quanto uomo integro, probo, non soggetto a pressioni, indipendente dalla politica (teorizzava l’assoluta indipendenza tra la magistratura e l’impegno attivo in politica). E questo dà molto fastidio ai mafiosi, abituati invece a imporre il culto del capo, ad “aggiustare” i processi, a dominare col rumore delle armi da guerra, ad arruolare senza scrupoli gli adolescenti per missioni di morte, a frequentare le principali piazze europee per il traffico di droga e il commercio di armi. La “sentenza” della sua morte viene deliberata e portata a termine in modo eclatante: non nelle vicinanze della chiesa che egli frequentava ogni giorno, ma lungo la statale; non con un colpo secco, bensì con un agguato con auto e moto, con almeno quattro killer che utilizzano armi da guerra e inseguono il magistrato fino a quando non lo vedono stramazzare a terra, oltre il guard-rail in località Gasena.
Verso il momento sacrificale
Al mondo intero, e a un’Italia distratta e non ancora ben consapevole della gravità del fenomeno mafioso, ciò si offre come il segnale sanguinario di una mafia alle prese con una metamorfosi stragista, consumatasi proprio nel periodo di maggior attivismo giudiziario del beato. A giudizio del Consiglio superiore della magistratura, il quinquennio 1984-1988 registra Livatino come il più produttivo della Procura della Repubblica di Agrigento: migliaia di pagine di requisitorie e rinvii a giudizio in inchieste delicate, condotte in collaborazione con altri magistrati siciliani. Si legge nel bilancio del giugno 1984: «È stato un mese negativo: neanche i giorni trascorsi in casa e l’ennesimo comunicato mi hanno tratto dall’angoscia che mi assale sempre più spesso. Vedo male nel mio futuro. Che Dio mi perdoni». Qualcosa si è spezzato in Rosario. «Dio avrà pietà di me e la via mostrerà?». Ha precisato in sede canonica un magistrato che conosce bene Livatino: «In tempo non sospetto, nel 1984, Rosario trattò un processo per l’individuazione del capo provinciale della mafia. Seguirono una serie di arresti. Tutti avevamo la sensazione che aveva trattato della questione con grande carica. In seguito, però, subì un brusco colpo, probabilmente dovuto ad una minaccia a ciò che aveva di più caro, i genitori» (Positio super martyrio. Summarium Testium, § 476). E ancora: due anni prima della morte, Rosario era intervenuto ai funerali di un giudice ucciso con il figlio dalle mafie, e come ricorda un teste: «Il 27 settembre 1988, nella Chiesa madre di Canicattì partecipa ai funerali, alla presenza del presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Nell’omelia, l’arcivescovo Luigi Bommarito raggela tutti con questa domanda: “A chi toccherà la prossima volta?”. La domanda, appena due anni dopo, si sarebbe rivelata non retorica» (Relatio de re historica, Copia Publica super virtutibus II , f. 577.
Ormai Livatino si stava preparando: rinuncia al matrimonio, alla scorta per non coinvolgere innocenti, fino al lamento finale coi suoi assassini: «Ragazzi, che cosa vi ho fatto?». Non c’era rabbia, neppure in quelle ultime parole: solo comprensione e un briciolo di sconforto, quello sì, verso quei giovani che traviati dalla devozione a un falso dio si illudevano di poter ergersi a padroni della vita e della morte. Il grande inganno della mafia, messo a nudo e quasi ridicolizzato dalla fermezza evangelica del giovane magistrato e dal successivo pentimento di qualcuno dei suoi uccisori, come dal coraggio del testimone Pietro Nava, che scelse di non girare la testa dall’altra parte. Tutti semi di un cambiamento che allora iniziava e che oggi è ormai irreversibile: uccisero Livatino per metterlo a tacere, ne hanno fatto un modello di vita e un esempio che, 31 anni dopo, parla ancora ai cuori ed alle menti.
di Vincenzo Bertolone
Arcivescovo di Catanzaro-Squillace e postulatore della causa