Nonostante la nostra avversione al fallimento è necessario ripensare il nostro rapporto con l’errore. Dalla condivisione dei fallimenti alla loro classificazione, un approccio scientifico per ridurre gli errori distruttivi e valorizzare quelli intelligenti. Un percorso che include innovazione e sperimentazione, utile non solo nelle organizzazioni, ma in tutti gli ambiti della nostra vita
Pubblichiamo la prefazione al volume di Amy Edmondson, docente di Leadership della Harvard Business School di Boston, dal titolo “Il giusto errore” (Egea editore) sulla “scienza del fallir bene.
di Marina Capizzi e Tiziano Capelli*
Fallire non ci piace. C’è poco da fare. A noi umani, fallire, non piace. Anche se il proverbio dice “sbagliando si impara”, il fallimento ci scombussola, persino quando ha piccole conseguenze. E neanche amiamo veder fallire gli altri (eccetto quelli che consideriamo nostri nemici). Alzino la mano i genitori che si sentono orgogliosi quando una figlia, un figlio porta a casa un brutto voto o non passa un esame. Si dichiarino gli insegnanti che danno ai loro studenti la possibilità di sbagliare come metodo di apprendimento. Si contino i manager e le manager che incoraggiano i collaboratori a sperimentare assumendosi il rischio di fallire. L’errore ci fa arrabbiare, ci delude, ci fa perdere fiducia negli altri, ci fa sentire inadeguati, provoca vergogna, rimorsi, solitudine. E, soprattutto, ci fa sentire in colpa. Allora, quando sbagliamo, la prima cosa che ci viene da dire è: “non sono stata/o io!”. Ricordiamoci da dove veniamo. La matita rossa e blu della maestra: blu, errori meno gravi; rosso, gravissimi. A scuola è l’assenza di errori che distingue chi è bravo. E in famiglia? Qualcuno ha genitori che hanno mai organizzato una festa per celebrare un vostro fallimento? Nelle organizzazioni le cose non vanno diversamente. In azienda “successo” è l’opposto di “fallimento”: ovvio, no? Non illudiamoci. La maggior parte delle culture considera negativamente l’errore. Con alcune sfumature, certo. In Italia, un curriculum segnato da fallimenti porta dritto ad un giudizio negativo. In America, lo sappiamo, lo stesso curriculum avrebbe buone probabilità di essere letto positivamente in termini di intraprendenza e assunzione di rischi. Ma Amy Edmondson è americanissima. E negli Stati Uniti è ambientata la sua trentennale ricerca.
Quindi, pur con sfumature importanti, di fronte agli errori il primo movimento umano universale è negarli: preferiamo nascondere gli errori piuttosto che imparare da essi. Non così fa la natura che trova nell’imperfezione un motore dell’evoluzione, si nutre di casualità, varia, ricombina, trova compromessi non necessariamente ottimali. Invece la cultura – il contesto di regole e aspettative reciproche che creiamo noi umani – funziona così: l’errore va occultato. Ognuno di noi ha il proprio “museo dei fallimenti” ben nascosto da qualche parte. Fallimenti personali, famigliari, legati alla professione. Siamo “stufi” del modo in cui viviamo i fallimenti I tempi, però, stanno cambiando. Sempre più, noi umani, sentiamo il peso del vivere l’errore in solitudine e come evento solo negativo. Nel mondo, infatti, si stanno diffondendo approcci che puntano a condividere gli errori come metodo per velocizzare l’apprendimento. Ne è un esempio la diffusione internazionale del movimento delle Fuckup-nights, nato in Messico nel 2013 da un gruppo di amici che aveva sperimentato il potere catartico della condivisione dei propri fallimenti. Hanno creato un Manifesto e trasformato la loro esperienza in un format che si è diffuso in molti Paesi diventando un movimento mondiale di oltre 300 mila persone che a decine, a centinaia, a migliaia, si incontrano per condividere i propri fallimenti e ascoltare quelli degli altri. Anche nelle organizzazioni si moltiplicano metodi di lavoro che propongono lo slogan fail fast come stella polare. In sintesi: meglio sbagliare subito, così capiamo prima e possiamo correggere il tiro. Il tutto collegato alla necessità di rendere più agili i processi interni e di innovare velocemente per trovare vantaggi competitivi prima di altri. Per queste ragioni, molte aziende hanno iniziato a investire nella “cultura dell’errore” proclamando che quando si sbaglia è più importante imparare che cercare “il colpevole”. Alcune, addirittura, premiamo i fallimenti con celebrazioni dedicate. Intanto, si moltiplicano le pubblicazioni, i podcast, le testimonianze, i corsi di formazione e le scuole del fallimento.
Fallire è di moda? Sempre di più, insomma, si parla di errori e fallimenti come grandi opportunità per apprendere, crescere, avere successo. Pazzesco. Chi, in passato, ha mai parlato dell’errore in maniera positiva? Chi mai, prima, si è sognato di raccontare i propri fallimenti in pubblico? Chi, nelle aziende, ha mai esortato a “fallire subito”? Sull’errore c’è sempre stata la consegna del silenzio. Anche se, nel frattempo, abbiamo continuato a sbagliare. Ovvio. Noi umani iniziamo a sbagliare dalla nascita per imparare a mangiare, bere, camminare, parlare, e così via… e ancora non abbiamo smesso, a meno che un timore gigantesco dell’errore non ci abbiano trattenuti dall’avventurarci in terreni nuovi, piccoli o vasti che siano. Anche in questo caso, però, l’errore è sempre in agguato perché non tutto dipende da noi, e perché è connaturato al processo di apprendimento. Accidenti. E quindi bene questa nuova tendenza che considera positivi gli errori e i fallimenti, no? Il contributo di questo libro Dunque, possiamo dire che il libro della Edmondson alimenta la moda che celebra errori e fallimenti? Dipende. Amy è diventata un riferimento mondiale dopo aver scritto Organizzazioni senza paura (The fearless organization) e dopo aver vinto per due volte, 2021 e 2023, l’Oscar del management (Thinker’s 50). Questo libro è dedicato al tema centrale della sua carriera accademica e di ricercatrice: comprendere i fallimenti evitabili nelle organizzazioni complesse. Una ricerca iniziata trenta anni fa e sfociata in un sistema di classificazione dei fallimenti che, però, va molto oltre l’ambito organizzativo perché riguarda tutta la nostra vita: famiglia, scuola, lavoro, hobbies… Lo scopo è quello di inquadrare in maniera nuova e scientifica il tema dell’errore per poterlo affrontare correttamente: Il giusto errore, la scienza di fallire bene. Sì, perché pensare di eliminare gli errori è pura illusione. Sbagliamo. Mettiamoci il cuore in pace. Non esiste persona a errore zero. Non esiste una routine error free. Ma questo non significa che dobbiamo far diventare il fallimento una moda. Oppure pensare che tutti gli errori ci portino automaticamente al successo. Mai fatto errori che sono rimasti tali? Con i figli, ad esempio. O cose venute male che non hanno avuto sviluppi positivi? Secondo Amy è irresponsabile invitare a fallire senza distinguere gli errori. Non tutti sono benvenuti. Ci sono errori positivi ed errori negativi, e il primo errore è proprio quello di considerarli tutti uguali. Per questo ci serve una scienza che ci aiuti a classificare i fallimenti per poterli distinguere, riconoscere, trattarli in base alla loro natura e, appunto, imparare. “Abbiamo bisogno del vocabolario giusto per poter affrontare bene il fallimento”.
La scienza del fallire bene comincia da una diagnosi chiara del tipo di fallimento: dobbiamo comprendere meglio per prevenire il maggior numero possibile di fallimenti distruttivi e dare maggior spazio possibile a quelli intelligenti. Gli obiettivi della scienza del fallire bene. Primo. Diminuire i fallimenti elementari, le cui conseguenze possono essere minime o molto gravi. Questi fallimenti sono causati da errori elementari che, per loro natura, sono prevedibili. Scambiamo lo zucchero con il sale, sbagliamo strada, mettiamo due riunioni nello stesso slot, facciamo una cosa come l’abbiamo sempre fatta, attraversiamo guardando il telefonino, scambiamo una provetta in laboratorio, non rispettiamo una norma antinfortunistica… Perché li facciamo? Perché siamo stanchi, disattenti, troppo sicuri di noi, ci basiamo su convinzioni errate che non mettiamo in discussione, pensiamo sempre di avere ragione, perché ci sembrava… e invece…, perché vediamo solo quello che conferma le nostre convinzioni e i nostri giudizi (si chiama bias di conferma). Rispetto agli errori elementari c’è una sola cosa intelligente da fare: prevenirli. Quando questi errori accadono non c’è niente da festeggiare. Piuttosto, c’è da fare la diagnosi del fallimento. Individuare la causa, riconoscere come abbiamo contribuito, mettere in atto azioni per evitare errori che è molto stupido continuare a fare. Secondo obiettivo. Ridurre i fallimenti complessi. Questi fallimenti hanno più di una causa, anche se a nessuna presa singolarmente può essere ricondotto il fallimento. Sono “tempeste perfette”. La cronaca nera ne parla spesso. Avvengono in ambienti complessi ma famigliari (per questo sono così pericolosi, perché generano un falso senso di sicurezza), dove disparati fattori possono interagire in modo imprevedibile, e dove interviene almeno un fattore esterno apparentemente o veramente incontrollabile (quando diciamo la sfortuna…). Verrebbe da alzare le mani e arrendersi. Cosa possiamo fare contro una tempesta perfetta? Anche qui, la scienza del fallimento ci viene incontro. “Ogni fallimento complesso contiene molteplici opportunità di prevenzione”, scrive Edmondson, perché è preceduto da flebili segnali di avvertimento. Inoltre, le conoscenze che ci servono per evitarlo sono a disposizione. Basta cercarle. Insomma, se facciamo un errore complesso è perché non abbiamo saputo vedere questa possibilità e non ci siamo preparati in modo adeguato. La scienza del fallimento ci aiuta a capire perché ci sfuggono i segnali di avvertimento. Ci insegna che la gestione intelligente dell’errore complesso è consapevolezza, prevenzione, responsabilità e ricerca. A volte bisogna tornare indietro di decenni per rintracciare le cause di un fallimento complesso. E, attenzione, il nostro mondo ha una propensione al fallimento complesso: digitalizzazione e interconnessione globale creeranno sempre più nuove vulnerabilità. Quindi, dobbiamo prepararci a navigare nell’incerto futuro che ci attende. Il terzo obiettivo, non per importanza, è dare più spazio possibile ai fallimenti intelligenti. Perché sono la strada maestra della scoperta e dell’innovazione. Se non esistessero faremmo sempre le stesse cose allo stesso modo. Nessuna trasformazione. Non esisterebbe la scienza. Il fallimento intelligente è una parte integrante di tutte le nostre azioni di esplorazione e di scoperta.
E questi errori nutrono la nostra curiosità, il desiderio di evolvere, la fame di conoscenza. Ma che cosa rende un fallimento “intelligente”? Amy ci fornisce quattro indicazioni: è necessario un campo nuovo; il contesto deve presentare una grande opportunità; dobbiamo avere conoscenze disponibili e ipotesi su cui basarci; deve essere un fallimento con il miglior rapporto tra la dimensione e l’utilità. Stiamo parlando di fallimenti, i più piccoli possibile, che ci aiutano a capire se stiamo seguendo la strada giusta e a costruire i passi successivi. L’esortazione fail fast ha senso solo collegata ai fallimenti intelligenti. Ma attenzione a non enfatizzare eccessivamente l’azione sacrificando la preparazione perché qui il caso centra poco: “il fallimento è intelligente perché è il risultato di un esperimento studiato, non casuale o approssimativo”. Quindi, i fallimenti intelligenti “cominciano con la giusta preparazione” che la scienza del fallire bene ci indica, e che possiamo fare nostri come persone ma anche come aziende. Sì, perché “un fallimento intelligente smette di essere intelligente se si verifica una seconda volta”. Nella scienza si trovano moltissimi maestri del fallimento (non si è “scienziati” se non si è contemporaneamente “maestri del fallimento”). Anche i bambini lo sono, almeno, finché non capiscono che conviene nasconderli perché agli adulti gli errori non piacciono. Nelle aziende è molto difficile trovare maestri del fallire bene perché la “prestazione eccellente” esclude la possibilità di errore. Fortunatamente, in Italia, abbiamo esempi di aziende che basano il proprio successo mondiale proprio sul fallire bene. Due eccellenze italiane del riuscire fallendo Alessi è l’azienda italiana più famosa nel mondo per il design degli oggetti di uso quotidiano che portano funzionalità e bellezza sulle nostre tavole e nelle nostre case. Il bollitore con l’uccellino che “zuffola” quando l’acqua inizia a bollire. Lo spremiagrumi che atterra nelle nostre cucine come un elegantissimo alieno. Il vaso che porta una svettante architettura sulle nostre tavole. Dicono in azienda: opere d’arte applicate all’industria. Ogni oggetto ha l’ambizione di agganciare i nostri codici più profondi, la nostra memoria e risuonarci dentro. Usare la caffettiera di Alessi deve essere un’esperienza simile all’ascolto di un brano musicale. L’azienda, fondata nel 1921 ad Omegna da Giovanni Alessi e dal fratello, produceva artigianalmente i propri oggetti e divenne presto nota per l’alta qualità dei manufatti. Quasi cento anni dopo, nel 2017, Alessi ha organizzato alla Triennale di Milano – il tempio del design italiano – una mostra intitolata IN-possible, nella quale ha aperto la “stanza dei fallimenti”, contenente una parte dei 25.000 oggetti e 19.000 disegni del proprio museo. In particolare, sono stati esposti “i progetti rimasti in sospeso”[1]. Perché condividerli? Per raccontare che, dietro a un oggetto di industrial design, si cela una ricerca “senza certezze, assumendo anche il rischio di un insuccesso, poiché è il solo modo per giungere a un prodotto realmente innovativo”.
Schizzi, render, disegni tecnici, prototipi di oggetti mai realizzati, prime versioni, ricerche per nuovi colori o finiture, stampi, semilavorati… trame in cui si fondono cultura, estetica, funzionalità, aspetti economici. E dialogo continuo di competenze molto diverse. La fabbrica trasformata in agorá dove dialogano i designer, gli ingegneri, i tecnici di produzione, i responsabili del marketing e della comunicazione. Loro definiscono i propri oggetti bordeline. Ci dice Francesca Appiani, Curator Museo Alessi: “Borderline è quella linea di confine che separa un oggetto innovativo, inaspettato e trasgressivo ma che le persone saranno disposte ad accettare, da un oggetto che le persone non accetteranno. Questa linea è invisibile. Ma diventa visibile quando si sbaglia”. I “prototipi sbagliati”, quelli che superano questa linea invisibile, rimangono “fallimenti intelligenti”. Così si alimenta l’incessante ricerca sulla quale Alessi fonda il proprio successo. Altra eccellenza italiana nel mondo: Dallara. Quando la Dallara Automobili da competizione nasce, nel 1972, l’azienda è composta da tre persone e ha sede nella casa di famiglia a Varano de’ Melegari in provincia di Parma. Gianpaolo Dallara, il fondatore, viene da importanti esperienze in Ferrari, Maserati, Lamborghini e De Tomaso, dove ha apportato significative innovazioni. Il suo orientamento costante alla ricerca, struttura il DNA dell’impresa che nel corso dei decenni successivi, insieme ad Andrea Pontremoli (AD e socio), ha lo scopo di progettare e di realizzare le vetture più veloci e sicure al mondo. Su cosa è basato il successo di Dallara? “Tutta l’innovazione di Dallara”, dichiara Pontremoli in un’intervista al Sole 24 Ore[2], “è basata sull’errore: sbagliamo molto, molto velocemente e a basso costo”. Come si sbaglia in modo intelligente in questa azienda? Dallara si è dotata del simulatore di guida più avanzato al mondo che consente di guidare automobili mai prodotte. Con l’introduzione dell’intelligenza artificiale, la potenza di calcolo è cresciuta esponenzialmente consentendo la creazione di un mondo virtuale nel quale è possibile la modellazione aerodinamica delle vetture. “In otto mesi” prosegue Pontremoli, “siamo riusciti a valutare più di quarantamila modelli di macchine diverse modificando forme aerodinamiche e singoli pezzi della vettura”. In Dallara, quindi, si sbaglia in digitale. E noi possiamo guardare alle 40.000 configurazioni diverse, come a 39.999 errori intelligenti che, alla fine, hanno dato luogo a un prodotto intelligente. Una sola configurazione, infatti, è stata prodotta: la Dallara EXP, un’auto da corsa da 500 cv che pesa 980 kg. Una bella lezione, no? Quante aziende portano avanti progetti evitando a tutti i costi che falliscano?
Magari per impedire che ai loro sponsor venga attribuito un insuccesso. Il tema degli errori intelligenti ci porta a riconsiderare anche la funzione dei “progetti pilota”: il loro scopo deve essere “vincere bene” o “fallire bene”? Fallimenti collettivi: il ruolo del contesto e la sicurezza psicologica Il libro è ricco di strumenti e indicazioni pratiche. Agire solo sugli errori individuali, però, non basta. Abbiamo il riflesso universale di attribuire la colpa a una sola persona o a una singola causa. Ma la radiografia degli errori che la Edmondson ci presenta fa emergere una questione cruciale: il ruolo del contesto nella generazione dei fallimenti. Amy cita il testo di Charles Perrow, Normal accidents, il quale sostiene che “sono i sistemi, piuttosto che gli individui, a produrre fallimenti consequenziali. (…) Capire in che modo i sistemi producono fallimenti – e soprattutto quali tipi di sistemi sono inclini al fallimento – aiuta a eliminare la colpa dall’equazione. Ci aiuta anche a concentrarci sulla riduzione del fallimento cambiando il sistema piuttosto che cambiando o sostituendo un individuo che lavora in un sistema difettoso”. Rivoluzione. Quante volte ci siamo illusi di rimediare ad un errore togliendo di mezzo “il colpevole”, pur con la consapevolezza che rappresentasse il capro espiatorio? Non spoileriamo, ma la ricerca di Amy aggiunge una dimensione fondamentale all’analisi degli errori: la relazione tra la natura dei fallimenti e i diversi livelli di incertezza nei quali essi si verificano.
Così si apre una nuova strada. Abbiamo un lavoro importante da portare avanti. L’espressione “cultura dell’errore” molto usata nelle aziende, nella maggior parte dei casi rimane un mero slogan. Sembra che non basti la ricerca dell’innovazione e del vantaggio competitivo per mettere in moto un processo trasformativo vero che faccia evolvere la relazione tra fallimento e contesto. Per questo scopo è molto più potente costruire insieme alle persone e ai team una “cultura della sperimentazione e dell’apprendimento”. E il primo passo è coltivare la “sicurezza psicologica”, il concept che ha reso Amy Edmondson un riferimento mondiale[3]. I contesti psicologicamente sicuri sono quelli in cui le persone sanno che non saranno incolpate per fallimenti o risultati deludenti: questa è la base per sperimentare meno fallimenti sbagliati e più fallimenti giusti. Se pensate che sia la fine della responsabilità, vi sbagliate. Dobbiamo separare il sistema di apprendimento dal sistema di valutazione. “La cultura del biasimo ha come effetto primario quello di impedire alle persone di parlare dei problemi in tempo utile per correggerli”. Questo vale a scuola, in famiglia, sul lavoro. Sempre. La costruzione della cultura dell’apprendimento e della sperimentazione va di pari passo con l’evoluzione della gerarchia tradizionale, che alimenta un rapporto indiscriminatamente negativo con il fallimento. Perché chi è “sopra”, e ha il potere di punire chi è “sotto”, ha l’aspettativa di errori zero. E così la paura diventa cultura. La scienza del fallimento, invece, beneficia di una gerarchia che metta in priorità l’apprendimento, le competenze, le sperimentazioni e la trasparenza. Fino ad oggi non eravamo pronti a lavorare sull’errore, conoscevamo il fenomeno ma non avevamo gli “strumenti” giusti per affrontarlo. Adesso abbiamo un metodo per fallire meno e continuare a fallire sempre meglio.