Torniamo per un momento proprio a quegli anni Settanta. Nel periodo di preparazione del Convegno ecclesiale del 1976, Lei ebbe modo ovviamente di confrontarsi in particolare con mons. Bartoletti. Sappiamo che in una vostra corrispondenza Lei gli appuntò, oggi diremmo con «parresia», nove «indulgenze» che rimproverava alla Chiesa di quel periodo. Ce le può ricordare?
Sì, erano cose che, come gli scrissi, mi facevano rabbia. Le accenno senza entrare nei dettagli. Vedevo la Chiesa indulgere al pessimismo da «fine ciclo»; alla testimonianza di pura «difesa»; a pensare prevalentemente a chi sta nel recinto — «ai nostri», scrissi —; a privilegiare alcuni tipi di laici che apparivano «più preti» dei preti; a non resistere alla coazione a parlare o a prendere posizione su qualsiasi cosa; a fidarsi di selezionati e limitati canali di informazione (per esempio, facendosi fare previsioni elettorali da uomini politici direttamente interessati alla questione); a far cultura di affermazione invece che di ricerca; a dimenticare l’importanza della mediazione culturale; e, infine, a un’eccessiva attenzione alla dimensione ideologica della politica.
Sembrano quasi tutti punti di estrema criticità anche oggi. Possiamo dire così? C’è qualcuna di queste nove questioni che secondo Lei sia stata fino a oggi la più problematica?
Se mi è permesso, credo fermamente che la maggiore criticità fra quelle indicate sia venuta dalla tendenza a chiudersi nel recinto del mondo cattolico — i preti e la loro «gente» — senza avere il senso della complessità esterna, concentrandosi ad «affermare» (verità, valori, intenti, indicazioni programmatiche), senza mai avere il coraggio di entrare nella dialettica sociale quotidiana, mediandone aspettative e conflitti.
In quei ribollenti anni Settanta, si immaginava in qualche modo il nostro attuale presente?
Beh, ci si provava, certo. Ricordo che nella mia corrispondenza di quell’epoca con mons. Bartoletti, che ho qui tra le mani mentre parliamo, scrissi una cosa che Le leggo: «Io non so e non posso prevedere se la società italiana dei prossimi 50 anni (degli anni in cui vivranno i miei otto figli) sarà una società di radiosi progressisti, di inerti gregari o di topi impazziti; ma so che, quale che sarà la società, avremo bisogno — i miei figli avranno bisogno — di crocicchi su cui misurarsi, di senso del futuro, di coraggio di ricercare nuovi atteggiamenti, di identità individuali e collettive profonde, di comunione reale con gli altri, di capacità di “ordinare” tutto in prospettive di generale senso della storia, di gioia nel carisma di un futuro che ci appartiene. E non parlo come cattolico, ma come ricercatore, come uno che professionalmente analizza la società e cerca di interpretarla nelle sue linee di evoluzione e di attesa». Convinzioni del 1976, che replicherei oggi senza cambiare una virgola.
Dopo 50 anni, cosa trova oggi in Italia? Radiosi progressisti, inerti gregari o topi impazziti?
Se mi astraggo dall’attuale dramma collettivo generato dal coronavirus, dove sembriamo topi più impauriti che impazziti, rispondo che — anche per la fedeltà e tenacia che mi viene dagli anni di studio nel liceo dell’Istituto Massimo — resto convinto che la Chiesa italiana ha un futuro solo se scarica sul terreno la sua potenza di mobilitazione e partecipazione collettiva. Non ci salveranno ambizioni progressiste, ma rituali; e non ci preserverà dal maligno il rinserramento nella deresponsabilizzata delega ai nostri vertici. Solo il vigore delle diverse realtà socioculturali, da troppo tempo in letargo, può chiamare le Chiese che vivono in Italia a farsi loro carico del faticoso cammino che dobbiamo intraprendere. E mi permetto di dire che quel vigore può essere chiamato a esprimersi nel richiamo a osare, a fare storia di «promozione umana» e di risposta alle attese di giustizia delle nostre singole comunità ecclesiali.