Pubblichiamo la prolusione del Card. Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI, al Convegno “Il Codice di Camaldoli”, che si tiene presso il Monastero di Camaldoli (Ar) dal 21 al 23 luglio.
Camaldoli vuol dire più di mille anni di storia spirituale e monastica, che parla ancora attraverso il monastero, l’eremo e persino i boschi in cui sono immersi. Mi piace ricordare due figure di monaci camaldolesi, entrambi priori generali, cui tanto deve la riforma di Camaldoli prima e dopo il Concilio, che mi sono stati cari: il padre Anselmo Giabbani e il padre Benedetto Calati. Il Codice ha preso il nome da questo luogo, spirituale e pieno di tanta umanità, dove non si scappa dal mondo ma si entra nelle pieghe profonde della storia.
Nei ricordi del Codice si sono inseriti anche elementi mitici. Un po’ di mito è utile, perché ogni ripartenza ha bisogno di passione, di entusiasmo e – perché no? – anche di miti fondatori. Certe avventure da laboratorio o frutto più di algoritmi e calcoli che di ideali e vita vera, non scaldano il cuore né illuminano le menti! Ma c’è un elemento mitico nella narrazione che a me pare vada rimosso: la convinzione che il testo sia stato scritto qui nel luglio 1943. L’intenzione era questa e i promotori si dettero appuntamento il 18 luglio per una settimana di studi. Ma molti relatori importanti non vennero. Altri lasciarono Camaldoli prima. Non era presente neanche Sergio Paronetto, il protagonista principale della vicenda, che proprio in quei giorni si sposò, a Merano, con Maria Luisa Valier.
Peraltro, i giorni scelti furono drammatici per l’Italia: il diciannove luglio 1943 avvenne il terribile bombardamento di San Lorenzo a Roma e il venticinque il Gran Consiglio del fascismo segnò la fine del regime. Il Codice nacque in uno dei momenti più bui della lunga notte della guerra. Dobbiamo constatare che la pace non è mai un bene perpetuo neanche in Europa. Questa consapevolezza dovrebbe muoverci a responsabilità e decisioni! Anche allora c’era un Papa che – come oggi Francesco – parlava senza sosta di pace: Pio XII. Perché la posizione dei papi del Novecento – tutti – è farsi carico del dolore della guerra, cercando in tutti i modi vie di pace, curando le ferite dell’umanità e favorendo la soluzione dei problemi. Pio XII credeva nella pace e si pose con forza il problema del “dopo”: ricostruire la società e l’ordine internazionale. Lo fece tra l’altro attraverso i discorsi e i radiomessaggi, nei quali indicò il grande obiettivo: cercare la pace come fondamento di una convivenza civile liberata dall’odio e dai conflitti. Una grande costruzione collettiva, cui i cattolici –insieme a tanti altri – dovevano mettere mano da subito.
Pio XII chiese ai cattolici di uscire dalla loro passività e di prendere l’iniziativa. La responsabilità è iniziativa, altrimenti ci si accontenta delle proprie ragioni o dei buoni sentimenti, questi diventano vano compiacimento e non umiliandosi con la vita concreta fanno illudere di essere dalla parte giusta anche se si finisce fuori dalla storia! Bisogna “prendere posizione”, come si afferma nella prefazione. Pio XII incitò i Laureati Cattolici a passare all’azione sul piano culturale, traducendo l’insegnamento della Chiesa in un linguaggio “moderno” e comprensibile a tutti. La presenza politica, che avrebbe segnato la ricostruzione e decenni successivi, rinasceva dal grembo della cultura. Uno dei problemi di oggi è invece proprio il divorzio tra cultura e politica, non solo per i cattolici, consumatosi negli ultimi decenni del Novecento, con il risultato di una politica epidermica, a volte ignorante, del giorno per giorno, con poche visioni, segnata da interessi modesti ma molto enfatizzati. Dovremmo diffidare di una politica così, ma spesso ne finiamo vittime, presi dall’inganno dell’agonismo digitale che non significa affatto capacità, conoscenza dei problemi, soluzione di questi. Cioè, il tradimento della politica stessa!
Se c’è una cosa che colpisce nel Codice, che ispira tutta la riflessione è lo stretto rapporto tra la persona, l’“io” e la comunità, la “convivenza”, lo Stato, il “noi”. Sono inseparabili. Dovremmo chiederci: cosa è successo e cosa succede quando silenziosamente li abbiamo divisi? A cosa si riduce la casa comune, ma, a veder bene, anche l’individuo, quando questo diventa isola e esigente consumatore di diritti individuali senza il noi? Recita il primo articolo del Codice: “L’uomo è un essere essenzialmente socievole: le esigenze del suo spirito e i bisogni del suo corpo non possono essere soddisfatti che nella convivenza. Senonché la convivenza familiare e la solidarietà dei gruppi intermedi sono insufficienti: perché l’essere umano abbia possibilità adeguate di vita e di sviluppo occorre che le famiglie si uniscano tra di loro a costituire la società civile”. E il terzo chiarisce: “La società non è una unità numerica o la semplice somma di individui che la compongono; è invece l’unione organica di uomini, famiglie e gruppi determinata dallo stesso fine, il bene comune e dall’effettiva convergenza delle volontà umane verso la sua attuazione, sotto la guida di un principio autoritario proprio”. L’uomo è “socievole”, persona pienamente, tanto che “merito morale v’è solo per l’azione coerente con la verità personalmente raggiunta.
Le libertà delle coscienze sono quindi una esigenza da tutelare fino all’estremo limite della compatibilità col bene comune (Enciclica Non abbiamo bisogno, Pio XI, 1931)”. La passione per la casa comune è tale che si arriva ad affermare che “i singoli sono tenuti a sacrificare sé stessi anche fino a rimettervi la propria terrena esistenza, quando fosse necessario per il bene generale della comunità (II-II; 26, 3)”. Questo era anche il fondamento dell’economia, dove la solidarietà è indicata come il dovere della collaborazione anche nel campo economico per “il raggiungimento del fine comune della società e la destinazione primaria dei beni materiali a vantaggio di tutti gli uomini”. La funzione della proprietà è duplice: personale e sociale. “Personale, in quanto a fondamento di essa sta il potenziamento della persona; sociale in quanto tale potenziamento non è concepibile al di fuori della società, senza il concorso della società, e in quanto è primaria la destinazione dei beni materiali a vantaggio di tutti gli uomini”. È la premessa per una giustizia sociale che mette al centro la lotta alla povertà. “I beni non necessari sono principalmente soggetti all’adempimento della funzione sociale della proprietà. Finché nella società ci siano dei membri che mancano del necessario, è dovere fondamentale della società provvedere; sia con la carità privata, sia con le istituzioni di carità private, sia con altri mezzi, compresa la limitazione della proprietà dei beni non necessari, nella misura occorrente a provvedere al bisogno degli indigenti”.
I Laureati cattolici – cui si aggiunsero altri – tradussero l’insegnamento della Chiesa in analisi e proposte sui problemi del tempo: economia, politica, società, famiglia, cultura, educazione, ecc. Gli estensori del Codice incontrarono opposizioni dentro la Chiesa. I “teologi” rimproverarono loro di andare troppo avanti e cercavano sempre una purezza dottrinale e una completezza di argomentazioni che avrebbero reso impossibile qualsiasi scelta. Ma Pio XII sapeva che c’era bisogno di una riflessione audace e innovativa. Bisognava cambiare. Il Papa saldò strettamente l’urgenza della pace e la scelta per la democrazia. Aiutare l’una rafforzava l’altra. E dovremmo ricordarci che l’infiacchimento della democrazia è sempre un cattivo presagio per la pace.
La visione di Camaldoli aiutò a preparare quell’inchiostro con cui venne scritta la Costituzione, frutto di idealità ma anche di capacità di confronto, visione, consapevolezza dei valori della persona, giustizia, libertà, solidarietà. Questo inchiostro rimane un requisito indispensabile quando si pensa di toccarne il testo e, aggiungo, grande indicazione per impostare un piano che sia nazionale e di vera resistenza e resilienza. La tragedia della guerra richiedeva di fondare la convivenza nazionale e internazionale su basi solide. La guerra, infatti, opera sempre distruzioni profonde, non solo materiali ma morali, azzerando ogni patrimonio di relazioni stabili, di regole condivise, di fiducia reciproca. Così Papa Francesco, mentre chiede la pace presto, opera per preparare un “dopo” senza la guerra. Se vuoi la pace prepara la pace! Altrimenti si resta prigionieri dell’inaccettabile preparare la guerra! Significa promuovere una visione che attragga verso un mondo differente e che mobiliti passioni e energie per costruirlo, ma anche organismi e modalità in grado di mantenerla. “In ogni guerra ciò che risulta distrutto è lo stesso progetto di fratellanza, inscritto nella vocazione della famiglia umana” (FT 26). Le encicliche Laudato Si’ e Fratelli tutti ne sono i pilastri, intimamente unite tra loro. Non c’è cura della casa comune se non impariamo a riconoscerci e a trattarci da “fratelli tutti”. Finiremmo per distruggerla e per distruggerci.
Bisogna risvegliare gli sguardi e le menti, per superare il “circolo vizioso” per cui tutto diventa impossibile. Ecco perché Francesco insiste sulla pace anche quando sembra difficile o sulla fraternità anche quando dilaga l’estraneità. L’insistenza sugli obiettivi massimi sfida il senso comune che, insegna Manzoni, resta nemico del buon senso. Francesco mostra che “il realismo della speranza” muove assai di più di tante valutazioni. E non si può parlare di pace senza parlare della giustizia! Cercare la pace è compromettersi per trovare la giustizia, ma non in astratto, fuori dalla storia, simbolica, ma quella che garantisce sicurezza. Non è un caso che il Codice di Camaldoli coinvolse soprattutto giovani. Il capofila, Sergio Paronetto, morto giovane nel 1945, aveva trentaquattro anni. Giuseppe Dossetti – che non andò a Camaldoli ma fu un riferimento – ne aveva trenta, Paolo Emilio Taviani trentuno, Aldo Moro ventisette, Giulio Andreotti ventiquattro. I “maestri”, più anziani, come Giorgio La Pira, Ezio Vanoni, Pasquale Saraceno, Amintore Fanfani, non superavano i quaranta. Il Codice mostra un’audacia di chi crede in una visione e sente di dover prendere la propria responsabilità. Di fronte alla complessità del globale, delle problematiche che s’incrociano, siamo spesso, giovani e meno giovani, segnati dalla paura. Lo si vede di fronte alla politica. Francesco afferma: “Per molti la politica oggi è una brutta parola… E tuttavia, può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica?”.
Oggi la democrazia appare infragilita e in ritirata nel mondo. Ecco un campo cui i cristiani devono applicarsi, interrogandosi su come deve essere la democrazia nel XXI secolo, vivere quell’amore politico senza il quale la politica si trasforma o si degenera. Bisogna mettere a fuoco attorno a questa emergenza così decisiva, esperienze, tradizioni, visioni, idee, risorse reali, anche se disperse. In questa prospettiva, sarebbe importante una Camaldoli europea, con partecipanti da tutt’Europa, per parlare di democrazia e Europa. I padri fondatori hanno avuto coraggio, rompendo con le consolidate logiche nazionalistiche e creando una realtà mai vista né in Europa né altrove. Nella pace e per preparare la pace bisognava rendere solidali le democrazie. Sarebbe importante che i cristiani europei tornassero a confrontarsi perché l’Europa cresca, ritrovi le sue radici e la sua anima, si doti di strumenti adeguati alle sfide.
Molti estensori del Codice sono entrati nella DC e molti esponenti della DC – e di altri partiti – hanno assunto i contenuti del testo. L’esperienza insegna che il lavoro culturale, anche indipendente dalla politica, è fondamentale. Talvolta si usa la parola prepolitico a proposito del lavoro culturale, con una punta di deconsiderazione. Oggi ce n’è un grande bisogno per sfidare la politica a guardare lontano con visioni e pensieri lunghi. C’è chi chiede alla Chiesa di promuovere o favorire incontri, riflessioni tra cattolici su temi civili. Non mancano occasioni e questioni. Capiamo l’esigenza e siamo disponibili ad aiutare iniziative di questo tipo, proprio perché senza interessi immediati, personalistici o di categoria. I credenti devono avere il coraggio, nel rispetto delle diverse sensibilità, di interrogarsi dialogando e ascoltandosi, che vuol dire ispirarsi al Vangelo nella costruzione della comunità umana. Lo devono fare singolarmente, ma anche insieme, perché solo attraverso un lavoro comune possono mettere a fuoco “principi dell’ordine sociale”, per usare il linguaggio del Codice. I protagonismi e particolarismi indeboliscono e diventano vani se non sanno scegliere l’umiltà del confronto e del pensarsi insieme! E quanto è necessario raggiungere una “massa critica” più solida e visibile, coinvolgendo anche il terzo settore e le forze sociali che rappresentano la ricchezza di riflessione e di impegno diffusa nel tessuto profondo delle nostre comunità.
De Rita tempo addietro parlando delle responsabilità del mondo cattolico commentò con amarezza: “In buona sostanza, il mondo cattolico italiano si è autoinflitto, nell’ultimo trentennio, una duplice avvilente illusione: quella di poter essere il lievito che entra nella pasta dei vari partiti per condizionarne, almeno in parte, i programmi; e quella di poter esercitare con successo il potere come influenza, prescindendo dal potere come potenza. Davvero pie illusioni”. Sono parole da meditare e che richiedono di sapersi confrontare e arricchirsi anche da sensibilità diverse, scegliendo le capacità che permettono questo!
Le idee del Codice di Camaldoli hanno camminato sulle gambe dei partiti. Oggi la situazione è molto diversa. Non ci sono partiti d’ispirazione cristiana e, più in generale, partiti organizzati di stampo novecentesco. Questo non deve certo diventare un alibi per non cercare nuovi modi di fare politica o per fare politica svincolati da principi, valori e contenuti. Se non troviamo le mediazioni necessarie chi interpreta le esigenze, le orienta e sa indicare risposte nella complessità della vita? La disaffezione dalla politica non può non interrogarci. La Chiesa ha un atteggiamento diverso nei confronti delle iniziative culturali e di quelle politiche: Pio XII è stato all’origine del Codice di Camaldoli, ma la DC è stata fondata da De Gasperi. Ma la Chiesa è attenta a ciò che avviene sul piano politico e sa riconoscere ciò che ha valore e ciò che non lo ha.
Ad esempio, da anni la Chiesa chiede a tutti i governi che chi fugge da grandi povertà, da pericolo grave o di morte, sia accolto come fratello o sorella, con risposte che siano all’altezza dell’umanesimo vera identità del nostro paese. Guai a dilapidare quelle che sono le caratteristiche più profonde e vere del nostro Paese! Da anni chiediamo una politica di sostegno della natalità e di difesa della vita, tutta, dal suo inizio alla sua fine, nelle sue fragilità e debolezze. Siamo consapevoli – come ha detto Francesco – che il futuro demografico dell’Italia ha bisogno dell’apporto degli emigrati. Natalità e accoglienza si completano, non si oppongono. Questo deve avvenire in un modo costruttivo e positivo, che dia dignità alle persone e chiarezza di diritti e di doveri. Penso a coloro che vivono in condizioni di povertà, stimati essere in Italia il doppio che in Europa. Un’attenzione particolare va rivolta agli anziani in questo grande caldo: la scorsa estate 60.000 anziani sono morti per il caldo, di cui 18.000 in Italia, un triste primato. Cosa ci chiedono?
Le visioni dei cristiani in politica possono essere più o meno condivise, ma tutti sanno che i principi e le posizioni che propongono non esprimono l’interesse della Chiesa, ma il bene di tutti. La Chiesa non ha altro interesse. È davvero di tutti e per tutti. Ecco perché l’impegno dei cattolici – quando è sincero e generoso – è di per sé de-polarizzante e rappresenta un antidoto alle tossine che inquinano la democrazia. Si parla di irrilevanza dei cattolici nella politica italiana. L’irrilevanza è non fermarsi accanto all’uomo mezzo morto della parabola del buon Samaritano, nella via tra Gerico e Gerusalemme. L’amore, in quanto tale, non può essere irrilevante.
Il Codice di Camaldoli è diventato il simbolo della capacità di iniziativa dei cattolici per il futuro dell’Italia durante la guerra. Lo si è ricordato ogni volta che si è cercata una “ripartenza”: alla Costituente, agli albori degli anni Sessanta, dopo il grande cambiamento politico dei primi anni Novanta. Oggi siamo in una stagione in cui si sente il bisogno di una responsabilità civile maggiore. Per l’Italia, per l’Europa, per il mondo: tutto è incredibilmente connesso. Una ripartenza? Certo, non si può restare inerti. Non si può restare chiusi nel proprio “io”: bisogna avere il coraggio del noi! Fosse un “noi” che discute, diverge, ascolta, propone. Siamo, come allora, travolti dalla tempesta della guerra. Nessuno può dire che non ci riguarda. Le conseguenze sono per tutti. Lo abbiamo capito, purtroppo ad intermittenza, lo dimentichiamo facilmente, ma – come disse Francesco – siamo tutti sulla stessa barca!
Tornare a Camaldoli, allora, è un bisogno e una chiamata alla responsabilità: per guardare lontano e non essere prigionieri del presente. Il Codice è stato un’iniziativa coraggiosa di chi non aspettava gli eventi, non stava a guardare ma voleva andare oltre il fascismo e le distruzioni della guerra. Niente avviene in maniera uguale. Ma lasciamoci ispirare dalla storia. Diceva Winston Churchill: “Più riesci a guardare indietro, più riesci a guardare avanti”.