Rileggiamo i colloqui svolti con le comunità di mezzo mondo per cercare di capire come cambia la Chiesa dopo il covid-19. E lo facciamo insieme al cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi, un uomo, un prete, che ha la naturale disposizione a saper guardare la linea dell’orizzonte, pur conoscendo ed abitando in profondità la realtà. «Al tempo stesso avverto che anche per noi, per la Chiesa, non sarà come prima, ma se e quali saranno i cambiamenti profondi nella nostra vita di cristiani forse è ancora presto per dirlo. Per questo penso che piuttosto che avventurarci sul cosa potrà essere, sia meglio intanto riflettere su cosa non dovrà essere. Come ha detto Papa Francesco il giorno di Pentecoste, peggio del virus c’è solo lo sprecare le opportunità di cambiamento e conversione che pure ci offre. Io vedo intanto tre pericoli, tre tentazioni. Quelle di cadere nel vittimismo, nel narcisismo, e nel pessimismo. Sono tre tentazioni che hanno in comune la ricerca ostinata di una sicurezza a buon prezzo. E sono tre tentazioni che si nutrono una dell’altra. Il vittimismo che è espressione di un fatalismo pagano. Il narcisismo, che suppone l’esclusività della nostra sofferenza. Il pessimismo che ci fa scordare che cinquanta metri sotto la croce c’è una tomba vuota».
Tre espressioni intimamente connesse tra loro. «Il vittimismo — prosegue il porporato — nasce dalla debolezza, dal timore di essere incapaci a sconfiggere il male, dalla scarsa fiducia in se stessi. E paradossalmente il narcisismo è esaltazione della propria debolezza. Il guaio di questo tempo è che le mascherine non ci impediscono solo di vedere gli altri, ma anche di guardarci allo specchio. Al contrario, la prima e più grande opportunità che ci offre questo tempo è proprio la possibilità di riconoscerci nella nostra limitatezza, nelle nostre fragilità». La risposta a queste tentazioni è una sola: l’evento pasquale. «Più ci penso — sottolinea — e più mi sembra straordinario come questa tragedia abbia attraversato esattamente le dodici settimane della Quaresima e della Pasqua. Cos’altro sono state queste settimane se non un terribile “duello tra la Vita e la Morte”? E il duello si può affrontare solo con un forte carico di speranza. La pandemia non è ancora finita, ma noi non siamo in un permanente venerdì santo e non siamo neanche nella lunga sospensione del sabato santo: noi abitiamo una tomba vuota perché viviamo nella speranza». Cos’altro può caratterizzare, ribadisce il cardinale, dare significato, alla vita di un cristiano se non il suo vivere nella speranza? «La speranza è l’antidoto a queste tre tentazioni. Ma non può essere una speranza ristretta al nostro piccolo spazio, individuale o anche della comunità cristiana. È una speranza che per essere efficace deve essere contagiosa. Come e più del virus. Perché non siamo soli a soffrire. E questo è un altro grande segno che ci ha dato la pandemia: l’interconnessione dei destini. “Nessuno si salva da solo”, mai come in questa occasione è un’affermazione svincolata dalla retorica e mostratasi nella sua pratica realtà. Siamo chiamati ad essere ospedali da campo, non una clinica privata per pochi eletti. Immersi in una storia che ci chiede di uscire, nella grande prospettiva che ci ha indicato Evangelii gaudium. Anche questa è una di quelle opportunità che non dobbiamo sprecare. Perché il virus ci ha costretti — oltre le nostre lentezze, abitudini e pigrizie — ad andare nelle periferie. Quante periferie esistenziali abbiamo incontrato in questi mesi e anche noi stessi ci siamo riconosciuti “periferia” nelle nostre fragilità. È dalle periferie che attingiamo, è dalle periferie che possiamo ripartire per un viaggio verso il Centro. Che è un centro cristologico».
Tutte le crisi sono state nella storia generatrici e acceleratrici di profondi cambiamenti, continua Zuppi, «e penso che anche questa non si sottrarrà a questo fine. Per esempio questa storia del digitale, che sta cambiando il lavoro, il tempo libero, le relazioni. Cambierà, anzi sta già cambiando, anche la nostra pastorale. Come un po’ tutti hanno raccontato nella tua inchiesta, i numeri dei contatti on line, di messe o catechesi sono stati molto più alti degli abituali frequentatori delle nostre chiese. Tanta gente nuova, tanti ritorni. Questi mezzi, in sostanza, si sono rivelati un grande strumento di condivisione, che ci ha rivelato un mondo bisognoso di Parola molto più vasto dei nostri confini. Mi viene in mente san Paolo quando arriva a Corinto e dice: “Ho un popolo grande nella città”. C’è molto da parlare e da fare fuori del circolo. E molti preti se ne sono accorti. Stiamo imparando anche ad usarli questi mezzi, ad usarli e a non esserne usati».
La distanza, l’isolamento hanno ravvivato il bisogno di comunità, di fraternità, puntualizza Zuppi. «Abbiamo capito tutti, sacerdoti e laici, quanto sia decisiva la fraternità della famiglia di Dio. La “Chiesa comunione” è una Chiesa che attraverso la comunità produce servizi, ministeri, carismi, riavvicina pastori e laici». Il cardinale si ferma un attimo, ci pensa su e afferma: «Forse il vero cambiamento che è in atto è questo: che la Chiesa sta scoprendo la vita vera della gente. L’umiliazione che ci induce il virus è che ci porta a capire i problemi della vita, e ci costringe a dare delle risposte coerenti col Vangelo. Stiamo capendo che il Vangelo risponde alla vita vera. Non è bella teoria, Noi non viviamo in un altro pianeta. Il Vangelo incontra l’umanità e la cambia. Questo è il senso vero di un’incarnazione che permane nel tempo». Per fare questo, però, occorre cercare la periferia, rimarca il porporato, «perché lì incontri la vita vera che è fatta di sofferenza e fragilità. Se non vai verso la periferia ricadi in una logica tutta interna, torni indietro, chiudi la creatività. Guarda cosa è successo in queste settimane, guarda quanta creatività pastorale, caritatevole, liturgica, è stata generata dallo Spirito. E perché? Perché siamo stati forzati ad andare verso la periferia. Questo tempo è un vero kairos che ci sta insegnando a capire il mondo. Sta forzando, accelerando, i tempi di un cambiamento che era ed è tanto necessario, che Papa Francesco ha profeticamente indicato ma che noi abbiamo sospinto un p0’ pigramente nelle nostre confortevoli abitudini, nel nostro bisogno di sicurezza. Ma chi cerca sicurezza non si apre al mondo, vi sono profeti di sventura che imbracciano il fucile del rigore non tanto per malizia quanto perché hanno disimparato a parlare la lingua di tutti. Eppure è una lingua facile. Durante i giorni più duri della quarantena, quando le chiese non erano accessibili, ho chiesto ai miei parroci di far arrivare ovunque il suono delle campane: una lingua facile, la declamazione della speranza. Avete fatto bene, voi dell’Osservatore Romano, a ricercare in giro per il mondo i segni dei tempi nella pandemia, i segni di una Chiesa che cambia. Ma dobbiamo uscire da una logica del pensatoio, del laboratorio. Il vero laboratorio è la vita».
di Roberto Cetera