La monografia di A.J. Simonis su Gv10,1-18 si apre con queste parole: “Nessuna immagine di Cristo nel corso dei secoli è mai stata più cara al cuore dei cristiani di quella di Gesù buon Pastore”. E’ certamente esatto per l’iconografia antica e per la preghiera della Chiesa nei primi secoli: il tema del Pastore ritorna con una frequenza straordinaria nell’arte funeraria antica; e la liturgia romana le riserva un posto privilegiato nel ciclo pasquale, la quarta domenica dopo Pasqua. L’idea fondamentale espressa in tutta questa tradizione è che Cristo, buon Pastore, è il salvatore delle pecore: Gesù conduce i suoi, al di là della morte, verso i pascoli celesti, nella casa del Padre.
L’immagine è in genere desunta dai vangeli. L’iconografia sembra collegarsi soprattutto con il tema sinottico della pecorella smarrita (Mt 18,12-14), di quella pecora che il pastore ritrova e riporta tutto felice sulle spalle (Lc15,3-7). Ma in parecchi casi, le rappresentazioni si ispirano più direttamente all’allegoria giovannea sul buon Pastore (Gvl0,1-18), il cui orientamento è molto più nettamente soteriologico e cristologico…
(Nell’analisi di Gv10) potremo constatare quanto fosse giusta l’intuizione degli antichi, per i quali questo passo costituiva una vera e propria sintesi dell’opera di salvezza…
Per cogliere meglio la portata del nostro passo, è necessario reinserirlo nella grande sezione alla quale appartiene, e che si estende da 7, 1 a l0, 42: questi quattro capitoli costituiscono il centro della vita pubblica di Gesù, il punto culminante della sua rivelazione al mondo, nel Tempio di Gerusalemme.
Si vede da più indizi che questi capitoli formano un tutto. C’è innanzi tutto l’unità di luogo: a partire da 7,14 tutto avviene a Gerusalemme, nel Tempio o nelle sue immediate vicinanze (cfr. 7,14.28; 8,20; 8,59-9,1; 10,23); e l’evangelista ripete con insistenza che Gesù vi insegnava. Anche l’unità di tempo è molto stretta: fino a 10,21, si resta sempre nello stesso contesto della festa dei Tabernacoli; tutta l’azione si concentra inoltre in due momenti precisi di questa solennità di otto giorni: «la metà della festa», per il discorso e le discussioni di 7,14-36; «l’ultimo giorno, il gran giorno della festa», per la sezione molto più lunga 7,37-10,21, che comprende la promessa dell’acqua viva, la rivelazione di Gesù luce del mondo, la guarigione del cieco nato, e il discorso sul buon Pastore. La parte restante del c. l0 (i vv. 22-42) si colloca in un altro contesto, quello della festa della Dedicazione, tre mesi dopo. Ma la brevità stessa di questa pericope invita a pensare che, per Giovanni, essa costituisse un tutto unico con la sezione dei Tabernacoli: in un caso come nell’altro, Gesù si trova al Tempio per farsi conoscere dai Giudei, nel quadro di una grande solennità giudaica; e soprattutto, questi venti versetti non fanno che riprendere e sviluppare i temi di cui si stava trattando dall’inizio del c.9. L’insieme della sezione 7,1-10,42 costituisce dunque una grande unità letteraria, incentrata sul Tempio.
L’unità tematica di questa sezione è evidente: Gesù vi si rivela al mondo (cfr. 7,4), ma è continuamente in controversia con «i Giudei». Bultmann intitola opportunamente questi capitoli: «Il Rivelatore in contrasto col mondo». E il grande tema del prologo che raggiunge qui il suo punto culminante (per la vita pubblica): «Egli è venuto a casa sua e i suoi non l’hanno accolto» (1,11)…
Il punto essenziale da mettere in chiaro, è quel che bisogna intendere qui per «recinto delle pecore». Quasi tutti i commentatori pensano spontaneamente a un ovile. Ma abbiamo già detto che il vocabolario di questi versetti è essenzialmente teologico. Anche in questo caso. La parola αυλή che abbiamo tradotto con «recinto», si incontra 177 volte nella Bibbia greca, ma non è mai riferita a un recinto di pecore. Nel maggior numero dei casi (circa 115 volte), indica il vestibolo davanti al tabernacolo o al Tempio (per es. Es27,9; 2Cr6,13;11,16; Ap11,2). Il termine ricompare anche in un altro punto del quarto vangelo (18,15), dove sta ad indicare il cortile del sommo sacerdote. Se non altro per questo uso biblico, si è già indotti a collocare il recinto di l0,1 nell’area stessa del Tempio. Aggiungiamo che, già nell’AT, il termine «pecore», viene usato molto spesso in un senso semplicemente metaforico, per designare il popolo di Israele (Ez34,31; Ger23,1; Sal 94 (95),7 ecc.; questo uso continua nel NT: Mt l0,6;25,32 ecc.). I vocaboli del nostro versetto evocano perciò irresistibilmente una situazione analoga a quella del Sal 100 (99),3-4 (LXX): «Sappiate che lui, JHWH, è Dio… noi siamo il suo popolo e le pecore del suo pascolo. Entrate nei suoi portici, rendendo grazie, entrate nei suoi recinti (εις τας αυλας αυτου con degli inni». In Gv l0,1, il recinto delle pecore sta ad indicare metaforicamente il luogo santo di Israele, il Tempio di Gerusalemme (o il suo vestibolo), che rappresenta e simboleggia il giudaismo teocratico. Il pastore delle pecore, colui che entra per la porta, è Gesù, nuovo Pastore di Israele, che, in effetti, si è presentato al Tempio di Gerusalemme, per rivelarsi ai Giudei durante la festa dei Tabernacoli (7,14).
Si vede che, in questa interpretazione, il «discorso segreto» (N.d.R. I.de la Potterie per Gv10,1-5 preferisce alla definizione di “parabola” quella di “discorso segreto”, volendo indicare in questi versetti una serie di “allusioni, velate, ma precise, al Cristo e alla sua missione” che saranno poi esplicitate più chiaramente con la prosecuzione in Gv10,1-18) prende il via non direttamente da una scena della vita pastorale in Palestina, ma da una situazione storica molto concreta della vita di Gesù, nella Città Santa. Questo vale anche per quanto ci viene raccontato dell’altro personaggio del quadro: il ladro e il brigante. Bisogna tener presente, infatti, che a quell’epoca il termine brigante (ληστής) nel mondo giudaico serviva molto spesso a designare dei partigiani ribelli, in particolare i membri del partito pseudomessianico degli Zeloti, che cercavano di liberarsi con la violenza dalla dominazione romana, per instaurare un potere giudaico nello stesso tempo politico e religioso. Molto probabilmente è appunto in questo senso che viene utilizzato il termine nei vangeli: Barabba era un «brigante», ci dice Giovanni (18,40); ma gli altri evangelisti ci forniscono informazioni più precise: Barabba era un prigioniero «famoso» (Mt27,16) ed era stato arrestato per «una sommossa verificatasi nella città» (Lc23,19). Diversi autori recenti ritengono che Barabba abbia avuto una parte importante nella ribellione degli Zeloti contro i Romani.
Nel nostro passo di l0,1, i termini «ladro» e «brigante» probabilmente devono riferirsi a personaggi dello stesso genere. Le parole «colui che non entra attraverso la porta…, ma penetra per un’altra via» costituiscono la solenne entrata in materia di tutto il discorso: si capiscono perfettamente come un’allusione di Gesù a un recente tentativo degli Zeloti di impadronirsi del potere entro il recinto stesso del Tempio; questa ribellione è un fatto storico certo. Ma si può generalizzare la portata del testo e vedervi un’allusione al complesso dei movimenti pseudo-messianici dell’epoca: su questo sfondo storico si staglia in un vivo contrasto la missione messianica di Gesù stesso. La prima parte del discorso segreto mescola perciò le allusioni storiche e il linguaggio figurato (il recinto delle pecore, il pastore delle pecore), ma il suo significato è abbastanza chiaro: contrariamente ai falsi messia del suo tempo (Zeloti o altri), Gesù è entrato per la via normale del Tempio, alla festa dei Tabernacoli; si è presentato legittimamente al popolo giudaico, per rivelarsi a lui come suo Pastore, come il vero Messia. Bisogna avere presenti qui i lunghi sviluppi che precedettero: la grande rivelazione di Gesù nel Tempio, poi la guarigione del cieco nato, che termina con la terribile sentenza di Gesù sulla cecità dei Giudei e il loro peccato che rimane (9,39-41). Al cap. l0, Gesù adotta allora un linguaggio figurato, enigmatico; ma l’insegnamento di questo capitolo rimane sostanzialmente lo stesso: ha ancora sempre come oggetto la missione messianica di Gesù.
La seconda parte del discorso enigmatico (vv. 3c-5) è teologicamente la più importante. «Le sue pecore, (il Pastore) le chiama ad una ad una e le fa uscire». Tutte le pecore del recinto (cioè tutti i Giudei) hanno potuto conoscere la dottrina di Gesù (cfr. 18,20), ma solo alcune di esse sono «le sue pecore», cioè quelle che gli sono state date dal Padre (v. 29; cfr. 6,37.39; 17,2.6.7.9.24). In virtù di questo dono, Gesù potrà dire che sono «nella sua mano» (v. 28); per la stessa ragione ancora, all’ultima Cena, potrà considerare i discepoli come «i suoi» (13,1). A questa predisposizione da parte del Padre corrisponde una chiamata da parte di Gesù: «Egli le chiama ad una ad una» (cfr. anche Rm8,38). È il primo atto della costituzione di un nuovo gregge ad opera di Gesù.
Le sue pecore, il Pastore le «fa uscire» (εξάγει) dal recinto. Il verbo qui utilizzato dall’evangelista è un termine tecnico del vocabolario dell’Esodo: Dio «fece uscire dall’Egitto» il suo popolo, i figli di Israele (Es3,l0; 6,27 ecc.; cfr. At7,36; 13,17; Ebr8,9); allo stesso modo più tardi, al momento del secondo Esodo, li «farà uscire» da in mezzo ai popoli (Ez34,13). L’idea evocata da questa parola è chiara: «far uscire», significa liberare dalla schiavitù. È considerevole, e nello stesso tempo tragico, che questo termine, un tempo utilizzato per indicare la fine della cattività di Israele, debba ora venir usato contro lo stesso Israele: dal popolo giudaico infatti, i cui occhi si sono accecati alla vera luce dei tempi messianici, Gesù-Messia deve ormai «far uscire» le sue pecore, come una volta dall’Egitto.
Ma per afferrare tutte le implicazioni di questa idea nell’economia generale della vita di Gesù, bisogna collegarla con il racconto precedente, quello del cieco nato, in cui era già stata formulata. Per quest’uomo del popolo, Gesù all’inizio non era che uno sconosciuto (9,11). Ma, dopo la guarigione, nel corso della controversia con i Giudei, scopre progressivamente in lui un profeta (v. 17), un inviato di Dio (v. 33), il Figlio dell’uomo (vv. 35-37), diventando così il tipo stesso del credente. I Giudei, invece, che si credevano cosi chiaroveggenti in materia religiosa, sono diventati totalmente ciechi di fronte alla luce del mondo (vv.39-4l; cfr. v.5). Ora, constatando l’attaccamento dell’ex-cieco a Gesù, «essi lo gettarono (εξέβαλον) fuori» (9,34). In questo momento si compie la discriminazione (κρίμα) di cui parlerà Gesù alla fine della controversia (9,39), discriminazione che prefigura e annuncia la rottura tra la Chiesa e la Sinagoga (αποσυνάγωγος, 9,22). E’ molto significativo che nei vv. 3-4, che analizzavamo in questo momento, l’evangelista abbia utilizzato due termini, diversi per esprimere la stessa idea: prima di tutto il verbo εξάγει che evoca il tema dell’Esodo; poi il verbo più forte εκβάλλειν, ripreso in 9,34, dove era stato usato a proposito del cieco nato: Gesù «fa uscire» le sue pecore, le «mette fuori»; così viene ripreso e sanzionato il comportamento degli stessi Giudei, i quali avevano escluso dalla sinagoga il cieco nato guarito da Gesù e divenuto suo discepolo. La chiamata del Pastore alle sue pecore nel recinto giudaico diventa così il primo atto di una separazione radicale, quella che contrapporrà l’antico gregge Israele e il nuovo, il giudaismo e la Chiesa.
I rapporti tra il Pastore e le sue pecore sono descritti in questi termini: «Egli cammina dinanzi ad esse e le pecore lo seguono». Come per il verbo precedente, l’evangelista utilizza di nuovo il vocabolario-tipo del ciclo dell’Esodo: «JHWH vostro Dio che cammina in testa a voi combatterà per voi» (Dt1,30; cfr. Sal68 [67],8; Mi2,13). Nel quarto vangelo, il verbo «camminare (πορεύεσθαι)» è quasi sempre riferito a Gesù in rapporto alla sua missione, che è un nuovo Esodo (cfr. 14,2.3.12.28; 16,7.28). Il Pastore, che cammina davanti alle sue pecore, si presenta perciò come il nuovo capo del popolo di Dio. Le pecore lo «seguono»: è la docilità essenziale del discepolo verso il Maestro (cfr. 1,37.38.41.43; 8,l2; 12,16; 21,19.22), fondata sul fatto che esse conoscono la sua voce. Questi temi verranno ripresi con maggior insistenza nella seconda parte del discorso (vv. 14-16) e nelle dichiarazioni conclusive di Gesù alla festa della Dedicazione (v. 27)…
Bisogna interpretare la formula «la porta delle pecore» nel senso che Gesù è la porta che dà accesso presso le pecore, oppure è la porta per le pecore stesse, per permettere loro di entrare ed uscire? La prima interpretazione si basa sui vv. 1-2, in cui effettivamente la porta consente di entrare dalle pecore, all’interno del recinto. Tuttavia, anche nel discorso segreto, il pastore era entrato nel recinto solo per farne uscire le pecore. Inoltre, dal v.1 al v. 7, il pensiero progredisce; al punto in cui siamo, le pecore sono già fuori; tutta l’attenzione si concentra ormai sull’opera del Cristo; «il recinto» (del giudaismo) ha terminato la sua funzione. Perciò si capisce come in questo v. 7 la parola αυλή non sia più ripetuta, si capisce come Gesù non dica: «lo sono la Porta del recinto» (il che a prima vista sembrerebbe più ovvio, ma ci rimanderebbe al v. 1). La «porta», qui, non ha più nulla a che vedere con il recinto, che le pecore hanno già abbandonato; deve essere interpretata di per sé: Gesù è la porta delle pecore.
Bisogna dunque scegliere la seconda interpretazione: Gesù è la porta per le pecore stesse. Tra Gesù e i suoi, sono ora abbozzati nuovi rapporti; una volta uscite dal recinto, le pecore devono ormai «entrare» attraverso la porta che è Gesù. Si passa qui dal piano storico al piano tipologico e spirituale. Non si tratta più del recinto del giudaismo: entrando per la «porta» che è Gesù, le pecore penetrano in un nuovo ambiente, di natura completamente diversa. È quanto dimostreranno i tre versetti seguenti.
Quali sono i precedenti letterari di questa metafora della porta? Nulla sta ad indicare che si debba pensare qui al tema gnostico della porta celeste, quella che consente di entrare nel regno della luce e della verità, perché il testo parla della porta delle pecore, non della porta del cielo. Giustamente, numerosi autori fanno appello piuttosto ai testi dell’AT, che parlano della porta del Tempio; per esempio il Sal118 (117),19-20: «Apritemi le porte di giustizia, io entrerò, renderò grazie a JHWH! Qui è la porta di JHWH, per la quale entreranno i giusti». Che lo sfondo del nostro versetto sia costituito da questo salmo è tanto più verosimile in quanto il Sal118 (117) veniva utilizzato nella liturgia della festa dei Tabernacoli; ci si rammenterà che tutto il discorso sul buon Pastore è stato pronunciato, secondo Giovanni, nelle vicinanze del Tempio, al momento conclusivo di quella grande solennità. Tutto il contesto favoriva perciò l’uso di questa metafora della porta. Ma l’insistenza con la quale Gesù ne fa l’applicazione a se stesso («Sono io la Porta delle pecore») dimostra chiaramente che qui non può più trattarsi del Tempio dell’antica economia; Gesù, ispirandosi alle realtà che lo circondano, vuol parlare del nuovo Tempio che lui stesso inaugura. Nel discorso segreto, la porta e il recinto designavano ancora delle realtà storiche: il Tempio di Gerusalemme e il giudaismo teocratico; ma a partire dal momento in cui queste realtà vengono riferite metaforicamente a Gesù, vengono trasposte sul piano tipologico.
Anche l’uso della terminologia del nostro versetto nella tradizione cristiana pregiovannea è molto illuminante. I sinottici parlano più volte della porta che dà accesso al Regno (Mt7,13-14; 25,10-12; Lc13,24-26); era una metafora del vocabolario escatologico. Lo stesso vale per il verbo «entrare», che si usava correntemente per designare l’ingresso nel Regno di Dio (Mt7,21; 18,3; At14,22 ecc.). Giovanni riprende quest’uso (Gv3,5). Ma nel contesto attuale, tutto si concentra su Gesù: è attraverso di lui che bisogna «entrare» per essere salvati.
Questa breve analisi del vocabolario del nostro passo mette in piena luce la portata teologica della frase di Gesù: «Io sono la Porta delle pecore». La prima idea che esprime è quella di mediazione, di possibilità di accesso alla salvezza. E’ detto esplicitamente nel testo parallelo del v. 9: «Io sono la Porta: chi entrerà soltanto attraverso di me sarà salvato». D’altra parte, Gesù non è solo mediatore. La porta non è soltanto un luogo di passaggio attraverso cui si «entra», appartiene già al recinto stesso. Infatti, nell’AT, la «porta» della città o del Tempio indica spesso metonimicamente l’insieme della città o il Tempio nella sua totalità: cfr. Sal122 (121),2; 87 (86),1-2; 118 (117),21. Riferita a Gesù, l’immagine della porta non significa perciò soltanto che attraverso di lui si accede alla salvezza e alla vita; indica inoltre che le pecore trovano questi beni in lui. In altre parole, Gesù non è soltanto la Porta, la via di accesso; è anche il nuovo recinto, il nuovo Tempio, in cui i suoi possono ottenere i beni messianici. Si ritrova qui il tema di Gesù nuovo Tempio, enunciato da S.Giovanni fin dall’inizio del suo vangelo (2,13-22).
Ma se è cosi, ci si chiederà forse perché la metafora della porta sia stata preferita a quella di recinto o di tempio. Probabilmente, l’immagine della porta, con tutto quel che suggeriva il suo retroscena biblico, era più adatta ad esprimere simultaneamente due idee connesse: da una parte, quella di entrata, di mediazione; dall’altra, quella di ambiente vitale, di comunione. Sono le due idee che ricompariranno nel testo parallelo così suggestivo di 14,6: «Io sono la Via, la Verità e la Vita»; Gesù è la Via verso il Padre, il mediatore perfetto che ci fa accedere alla vita del Padre; ma è nello stesso tempo la Vita: in Gesù stesso troviamo la vita del Padre, perché lui, il Figlio Unigenito «tornato ormai nel seno del Padre» (1,18), la possiede in se stesso in pienezza.
La tradizione patristica metterà maggiormente in rilievo l’aspetto futuro, specificamente escatologico, del tema della porta: attraverso Gesù noi abbiamo accesso alla vita eterna, al regno dei cieli. Ma qui come altrove, Giovanni anticipa i temi escatologici nella persona stessa e nell’opera storica di Gesù: nello stesso tempo attraverso di lui e nella comunione con lui, fin d’ora, noi possiamo ottenere i beni della salvezza, la vita divina….
L’idea espressa qui è stata commentata magnificamente in un testo anonimo che è circolato sotto il nome di Agostino in diversi florilegi di citazioni patristiche: «Jesus ostium est, ostium in quo et domus est, domus in qua et requies defatigatis est»…
Si veda anche… Ignazio di Antiochia: «Egli è la porta del Padre, attraverso la quale entrano Abramo, Isacco e Giacobbe e i profeti e gli apostoli e la Chiesa», Ad Philad.9,1; Erma: «La porta è il Figlio di Dio. E’ l’unica entrata che conduca al Signore. Nessuno ci introdurrà perciò presso di lui se non suo Figlio», Il Pastore, Sim.IX,12,6; S. Agostino: «Christus est enim illa janua, et per Christum intramus ad vitam aeternam », Enarr. in ps. CIII, serm. 4, l0: PL 37, 1385-1386…
Il v. 9 riprende la metafora del v. 7, ma sotto una forma più breve; Gesù, questa volta, dice semplicemente: «Io sono la Porta» (senza aggiungere «delle pecore»): l’attenzione si concentra maggiormente sulla sua persona e sulla sua opera. Attraverso questa «porta», attraverso Cristo stesso («attraverso di me»), deve passare ogni uomo per ottenere la salvezza. Si noterà di nuovo un silenzio significativo del testo: Gesù non dice a quale luogo o a quale recinto egli, come Porta, dia accesso; la ragione, come abbiamo detto, è che l’ambiente in cui le pecore devono entrare è strettamente legato alla persona di Gesù stesso; questo «ambiente» non è altro che la comunione con lui.
La promessa fatta da Gesù a chiunque entrerà attraverso di lui, è espressa nei vv. 9-10 da diversi verbi che aprono una prospettiva sul futuro. L’espressione «entrerà e uscirà» è a prima vista incoerente, giacché si ritiene che le pecore siano già «entrate» attraverso la porta. Ma la formula doppia è parallela alla formula semplice: «entrare e uscire» riprende e spiega tutto il significato di «entrare», come «trovare il proprio pascolo» è parallelo a «essere salvato». Tutti sanno che «entrare e uscire» è un’espressione semitica per indicare la totalità mediante l’opposizione tra due termini contrari; serve a descrivere il complesso dell’attività esteriore di qualcuno, la totale libertà di tutti i suoi movimenti, di tutti i suoi passi. Nel nostro contesto, il significato della formula probabilmente è il seguente: chiunque «entrerà» attraverso la porta che è Gesù «entrerà e uscirà», godrà di una comunione senza intralci con Gesù.
«Chi entrerà attraverso di me sarà salvato». Di quale salvezza vuol parlare Gesù? Ci si stupisce che certi commentatori si limitino ad interpretare questo verbo in senso materiale: «essere salvato» significherebbe essere messo al riparo da ogni pericolo, non aver più nulla da temere. Ma queste considerazioni sono al di fuori della prospettiva dell’autore e non sono suggerite dalla sua abituale utilizzazione del verbo «salvare». In S.Giovanni, questo verbo, riferito all’opera di Gesù, è sempre utilizzato in un senso religioso, soteriologico ed escatologico; e si trova a volte in parallelo con «avere la vita eterna» (3,15.16.36). Lo stesso significato si impone qui: «essere salvato», significa ottenere la vita che Cristo ha dato in abbondanza alle sue pecore (v. l0). Questo significato è d’altronde confermato dall’espressione parallela «troverà il proprio pascolo». Nell’AT, in particolare tra i profeti, la metafora del pascolo designava già spesso la salvezza, in particolare la salvezza dei tempi messianici (cfr. Os13,5-6; Is 49,4-10; Ger 23,1-8; Ez 34,13; Sal 23,2).
L’ultima delle formule utilizzate da Gesù è la più esplicita e la più ricca di significato teologico: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». Gesù descrive in queste parole tutto il senso della sua venuta, della sua Incarnazione. Qui, come negli altri casi in cui si serve ancora del verbo: «Io sono venuto» all’aoristo (ηλθον cfr. 12,27.47) indica il significato finale della sua opera, quello che vuole realizzare al termine della sua missione tra gli uomini, al momento della sua «ora»: questa meta finale è salvare il mondo (12,47), è dare agli uomini la «vita» in abbondanza. La vita che darà, è la vita divina, quella vita che, come Figlio di Dio, possiede già in se stesso (cfr. 1Gv5,11-12)…
Per la prima volta dopo il discorso segreto (cfr. v. 4), si viene a trattare di nuovo del recinto, ma questa volta in modo esclusivamente negativo: Gesù ha delle pecore «che non sono di questo recinto»; sono quelle che vengono invitate ad entrare nel gregge, senza provenire dal giudaismo, in altre parole, i credenti originari della gentilità. Abbiamo qui uno di quei testi fondamentali che dimostrano in modo non equivoco l’apertura universalistica dell’ecclesiologia giovannea. Lo stesso universalismo si ritroverà un po’ più tardi nel racconto del martirio di un discepolo di Giovanni, Policarpo: «Nostro Signore Gesù Cristo, il Salvatore delle nostre anime, il Pastore della Chiesa universale sparsa su tutta la terra» (Mart. Polycarpi, 19,2).
Un attento confronto tra il discorso segreto (vv. 1-5) e il v. 16 fa apparire diverse differenze significative tra i due gruppi di pecore. Contrariamente a quelle del «recinto», Gesù non dovrà «far uscire» le altre sue pecore, giacché non sono tutte raggruppate in un posto unico, ma disperse ovunque (cfr.11,52): «Esse popolano il mondo intero». Altro particolare: ai vv.4-5, i verbi erano al presente, perché Gesù parlava ancora della sua immediata funzione nei confronti dei suoi venuti dal giudaismo. Al v. 16, i verbi sono al futuro, perché la prospettiva si apre sull’avvenire: l’ingresso dei gentili nella Chiesa avrà luogo solo dopo la morte e la risurrezione di Gesù.
Nei confronti dei due gruppi di pecore, il Pastore esercita tuttavia una funzione identica. Che cosa fa per quelle che ha condotto fuori del recinto? «Cammina davanti ad esse» (v. 4). Per le pecore che non sono del recinto, Gesù dice analogamente che deve «condurle» (v. 16). In un caso come nell’altro, il testo omette di dire dove Gesù conduca le sue pecore. Sarebbe un errore voler precisare troppo, dicendo per esempio che le conduce alla vita eterna. Tutto il peso cade essenzialmente sui rapporti personali tra Gesù-Pastore e i suoi: se questi sono realizzati, il gregge è costituito, la comunione esiste, il fine è raggiunto…
Dal momento che i verbi del v. 16 sono al futuro, è chiaro che l’unità del gregge potrà realizzarsi solo dopo la morte e la risurrezione di Gesù. Ma anche allora, si realizzerà solo gradualmente, come sta ad indicare il verbo γενήσονται, più dinamico di εσονται; le pecore dovranno progressivamente diventare un gregge unico. Non è indice che, per tutta la durata dei tempi escatologici, quest’unità dovrà perpetuamente crescere e approfondirsi, al ritmo stesso della loro sottomissione sempre più totale al Cristo-Pastore?.
È perciò proprio Cristo il principio ultimo dell’unità. Per questa ragione, tutto l’accento cade qui sulle due parole poste enfaticamente alla fine del versetto: «un solo Pastore». L’espressione sembra provenire da Ezechiele, che aveva annunciato per l’avvenire un nuovo David, un unico pastore (34,23; 37,24). Questa promessa era legata nel profeta alla speranza della restaurazione dell’unità di Israele (37,22) e del raggruppamento dei dispersi in un popolo unico (37,17-22.24). Ma in S.Giovanni, la prospettiva non è direttamente quella dell’unità dei Giudei e dei pagani nella Chiesa, come in S.Paolo (Ef2,11-12; 4,3-5); l’accento cade piuttosto sul fatto che tutti avranno lo stesso Pastore. La Chiesa viene descritta qui come la comunità dei credenti, raggruppati intorno ad un Pastore unico, Cristo, e in vivente comunione con lui. Anche qui, benché si tratti di un tema ecclesiologico, la visione di Giovanni è decisamente cristologica.