Eremo di Sant’Ilarione in Calabria – .
Attenzione, però, a pensare che gli eremiti di oggi corrispondano all’idea che da sempre è parte dell’immaginario collettivo: esseri solitari coi capelli rasati, la barba lunga e il saio rattoppato, nella cornice di una grotta o di un antico eremo collocato su un dirupo o sulla più aspra delle montagne. Intanto perché, da sempre, ce ne sono di uomini e di donne, poi perché quella dell’eremita è una condizione di silenzio, solitudine, preghiera e ascesi che si può vivere in un appartamento di città come in una casa rurale e comunque mai nella solitudine perfetta perché essere eremiti, oggi più che mai, significa anche diventare un riferimento di ascolto, di condivisione e di accoglienza. Inoltre, l’eremita è spesso una persona che si sostenta col proprio lavoro o, se è un prete, con l’esercizio del ministero sacerdotale. Anche questo è nella tradizione, ma qualche volta, oggi, può voler dire fare un normale lavoro “civile” fuori dall’eremo (secondo la guida e il consiglio del Vescovo) dopo essersi alzati prestissimo alla mattina per il monacale Ufficio delle preghiere, e tornare nel ritiro e nel silenzio dell’eremo la sera, a lavoro concluso. Ci sono eremiti, uomini e donne, che al fondamentale aiuto della Provvidenza aggiungono piccoli lavori artigianali: c’è chi fa il sarto, chi intaglia e scolpisce il legno. Ce ne sono che fanno icone, che producono e vendono conserve, che coltivano e vendono prodotti del proprio orto, che è spesso il primo sostentamento dell’eremita.
La regola
Dell’urgenza di una nuova e più dettagliata codificazione della forma di vita eremitica, che ne contempli, ne promuova e ne agevoli le molteplici accezioni, si è parlato al recente convegno che gli eremiti italiani hanno vissuto a Castelpetroso, in cui una quarantina di loro da varie regioni d’Italia (gli eremiti in vario modo censiti nel nostro Paese hanno ormai superato le trecento unità, ma considerando le persone che vivono analoghi stili di silenzio, solitudine e preghiera si supera agevolmente il mezzo migliaio) si sono trovati insieme a discutere sul tema “Il respiro di Dio e della Terra fatta giardino”.
Attualmente la vita eremitica nella Chiesa è riconosciuta dalle poche righe del Canone 603 del Codice di Diritto canonico. Canone che al punto 2 afferma: «L’eremita è riconosciuto dal Diritto come dedicato a Dio nella vita consacrata se professa pubblicamente i tre consigli evangelici (povertà, obbedienza e castità, ndr), confermandoli con voto o con altro vincolo sacro nelle mani del vescovo diocesano e sotto la sua guida osserva il programma di vita che gli è propria», cioè la Regola che si è data e che il vescovo stesso ha approvato. Subito prima, al punto 1, il Canone, rifacendosi alla logica dei Padri del deserto, estende il concetto di eremita e spiega che «la Chiesa riconosce la vita eremitica e anacoretica con la quale i fedeli, in una più rigorosa separazione dal mondo nel silenzio della solitudine, nell’assidua preghiera e penitenza, dedicano la propria vita alla lode di Dio e alla salvezza del mondo».
A Castelpetroso, tanto per intenderci, c’erano gli uni e gli altri, compresi alcune religiose e alcuni sacerdoti, religiosi e diocesani, che in accordo coi loro superiori o col loro vescovo (anche quello dell’eventuale nuova diocesi che li ha accolti) hanno scelto di vivere la loro chiamata in una dimensione anacoretica. il tema del convegno, come abbiamo detto, era argomento in perfetta sintonia coi grandi richiami dell’Enciclica “Laudato si’” e con l’urgenza ambientale che sta vivendo l’intero Pianeta, ma anche con l’essenza stessa della scelta eremitica fatta di preghiera, Parola di Dio, dimensione trinitaria. Perché gli eremiti, nell’umiltà che viene dall’amore, come è stato più volte affermato a Castelpetroso, ascoltano e vivono il silenzio per divenire ascoltatori di Dio e divenire, poi, ascoltatori dell’uomo. Tendono, sopra ogni cosa all’incontro con Dio, e, poi all’incontro con l’uomo.
Il convegno
Ascolto, quindi, e prima di ogni altra cosa. Ascolto sulla scorta dello Shemà Israel che è alla radice non solo di ogni chiamata religiosa ma della vita di ogni battezzato. Ascolto della voce di Dio e quindi del sussurro e della bellezza del creato. Ascolto e condivisione. Ed è stato proprio il vescovo Bregantini, nella tre giorni di Castelpetroso, a sottolineare la caratteristica sinodale del convegno, definendolo «un piccolo cammino sinodale specifico», collocato sulla linea indicata da papa Francesco in preparazione del Sinodo mondiale del 2023. Nei fatti sul tavolo del dibattito e sulla tavola dei pasti condivisi sono finite tutte le problematiche legate a questa scelta vocazionale che è anche una pratica di vita che in certi contesti, a una certa età e spesso anche per chi non ha una fonte sicura di sostentamento (soprattutto le donne), può risultare complicata.
Dopo la prima giornata di incontro, preghiera e condivisione, lo stesso monsignor Bregantini ha aperto i lavori il giorno seguente con una riflessione biblica sullo stile eremitico del profeta Elia. Nel pomeriggio è stata la volta della madre Mirella Muià, monaca eremita a Gerace, con un approfondimento sul primo capitolo della Genesi e sui concetti di luce, respiro, voce, parola, alla ricerca di quella luminosità che emerge dalla notte primordiale e di quel soffio divino che fa della nostra vita qualcosa di unico e irripetibile, a Sua immagine e somiglianza. E se il respiro di Dio è in me ed è in ogni essere umano, ha sottolineato Muià, posso essere anche in cima a una montagna o su un’isola deserta, ma sono e resto comunque in relazione, in comunicazione. Il respiro che è in noi si continua a ricevere nell’ascolto della Parola, in quell’Ascolta Israele che non è un comando, ma è preghiera: «Come se dicesse; diventa ciò che ascolti». Insomma, «il silenzio parla e il suo ascolto va esercitato. Il respiro delle persone, come quello di Dio, parla e noi siamo chiamati ad ascoltarlo» perché è in quel respiro che ci si mostra il Volto di Dio.
Gli altri due interventi-meditazione sono stati affidati alla psicologa della comunicazione Lidia Curcio della comunità Missione Chiesa Mondo con una relazione sul tema “Silenzio e comunicazione” e al biblista don Michele Tartaglia che ha approfondito la figura della profetessa Anna. In particolare Lidia Curcio ha ribadito il legame fra il silenzio e la Parola. Citando il capitolo 27 del Siracide ai versetti 4-7, «quando un uomo riflette gli appaiono i suoi difetti… la prova dell’uomo si ha nella sua conversazione… non lodare un uomo prima che abbia parlato poiché questa è la prova degli uomini», ha evidenziato che «la parola giusta viene dal silenzio così come il giusto silenzio viene dall’intimità con la Parola. In questo senso il silenzio è il luogo in cui impariamo a fare i conti con noi stessi».
Una provocazione per il nostro tempo
La parola eremita, lo ripetiamo, significa “deserto”. In Oriente si è identificata col deserto reale, fatto di sabbia, di pietra e di aridità. In Occidente, invece, il concetto è entrato in naturale connubio con quelli di foresta, di montagna, di natura impervia. L’altra parola con la quale si è sempre indicata la vocazione eremitica è “anacoreta”, dal greco “anachoretes“, derivato di “anachorein“, “ritirarsi”. Eremita, quindi, è colui che si ritira nel deserto e… nel silenzio. Perché anche il “silenzio” è caratteristica fondamentale. L’eremita si “apparta”, si “ritira” dal rumore che disperde per poter ascoltare nel silenzio il primigenio soffio di Dio racchiuso nel cuore, che è vita che “raduna”, che “avanza”, ma anche nella natura che lo circonda.
Parole che entrano in aperta contrapposizione con gli snodi critici di questo particolare momento storico che si manifestano nel rumore, nell’affollamento, negli insistenti richiami alla virtualità, nelle tante ipocrisie ambientaliste, nella dispersività delle relazioni, nelle incertezze rispetto al ruolo nel mondo sia dell’umanità che del singolo individuo. Ma è forse attraverso l’insieme di queste parole e la radicalità che le caratterizza che si comprendono i motivi per cui la vita eremitica è tornata a pulsare con forza nella Chiesa e a caratterizzare con nuovo significato tante scelte religiose che avevano visto sbiadirsi le originarie motivazioni vocazionali. Esiste in questa attualità un’esigenza, in tante persone e soprattutto in tanti giovani, di radicale aderenza alla fede e nell’eremita, evidentemente, vedono colui o colei capace di incarnarla.
Viene in mente, a questo proposito, uno scritto di don Tonino Bello (Preghiere, San Paolo 2001) che inizia con queste parole: «Il deserto ti spoglia. Ti riduce all’essenziale. Ti decostruisce. Ti priva del guardaroba. Ti toglie di dosso gli abiti che finora hai considerato come assoluti, e ti fa capire che la tua identità va ben oltre le livree dell’appartenenza. Ti fa sentire povero, insomma. Come una bisaccia vuota». È il deserto inteso come spoliazione da ogni sovrastruttura inutile e soffocante per giungere all’essenzialità di noi stessi, un po’ alla maniera resa emblematica da un giovane come san Francesco d’Assisi, insomma, che è poi la condizione necessaria per poter ascoltare in purezza la presenza di Dio nel nostro cuore: il respirare in noi del respiro della creazione, quell’alito divino che rende umano ciò che, come ogni altro elemento del Creato, vivente o meno, non è che semplice polvere.
Se l’eremita è al passo coi tempi
In un simile scenario si potrebbe persino dire che l’eremita cavalca l’attualità. Il paradosso che è nella sua scelta estrema offre una risposta concreta alla crisi di senso e di ruolo che attraversa l’Occidente: da una parte dispersione, conflitto e incomprensione, dall’altra inclusione, accoglienza e comprensione. L’eremita (silenziosamente) esemplifica nella sua scelta di vita ciò che (anche sulle pagine di questo giornale) viene proposto e illustrato come unica via da sociologi, economisti, filosofi, ambientalisti, esponenti del terzo settore e via dicendo: il passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo, dalla società consumista, egoista e distruttiva alla società solidale, ecologica ed evolutiva che per gli eremiti è radicata e originata da Dio creatore di tutto l’Universo.
Con questo non si vuole dire che quella dell’eremita, quantunque aperta a tutti, sia una scelta per tutti. Nella sua estrema semplicità si può persino sostenere che si tratti di una scelta elitaria. Eppure, ha in sé la forza emblematica per proporsi come esempio del mondo nuovo. Il «vieni e vedi» evangelico trova nell’eremita un’esemplificazione efficace e immediata. In lui l’osservatore esterno, anche non credente, può agevolmente vedere umiltà, semplicità e sobria connessione con l’ambiente associate a serenità, pienezza di vita, apertura all’ascolto e di conseguenza a un’ospitalità che vive e matura nella Parola.
Il segno dell’ascolto
In questa stagione di smarrimento il segno dell’ascolto diventa essenziale e dirimente. E non si tratta semplicemente di accogliere chi ha da dirmi qualcosa. Ascoltare è soprattutto la capacità di porsi nella condizione di percepire quelle sommesse richieste d’aiuto che normalmente vengono ignorate e che accrescono la vasta schiera degli incompresi. Perché il mondo di oggi è pieno di incompresi (o che si sentono tali): singole persone e persino interi popoli. L’ambiente stesso è incompreso e non è un caso che il convegno di Castelpetroso abbia avuto per tema “Il respiro di Dio e della terra fatta giardino”: respiri, entrambi, che possono essere percepiti e ascoltati solo in un anacoretico silenzio. L’eremita, come il monaco, è colui che cerca di vivere la sapienza dell’ascolto e di cogliere, come Elia, il soffio della presenza di Dio e insieme a Lui diventa capace di cogliere il grido di aiuto degli uomini e le infinite e misconosciute grida che sorgono dall’ambiente intorno a noi. Ascolta e accoglie chi bussa alla sua porta e si fa con lui compagno di strada nell’incontro e nella sofferenza.
Non c’è eremita, anche fra quelli e quelle che vivono nel nascondimento della montagna, che non abbia, col tempo, dovuto organizzare la propria vita di solitudine e di preghiera prevedendo spazi da dedicare all’accoglienza di persone che giungono anche da lontano per confidarsi e condividere. Del resto, come ben si evince dalla “Vita di Antonio” di Attanasio di Alessandria, la prima e fondamentale biografia di sant’Antonio abate, padre di tutti gli eremiti, quando si accende una luce sul monte, anche nella regione più sperduta, non si può pensare che verso quella luce non si attivi un pellegrinaggio di bisognosi d’amore e di speranza. Del resto santa Sincletica di Alessandria, una delle più famose madri del deserto, insegnava la moderazione, sottolineando che l’ascetismo e quindi la solitudine non sono mai fini a se stessi. L’eremita, spiegava, ha come intento la purificazione del suo cuore cercando una continua ascesi. Il silenzio gli fa apprendere e sperimentare la sempre più difficile arte del non giudicare e del fare verità, con umiltà, e mitezza nel proprio cuore e, se richiesto, nell’altrui cuore. Come dovrebbe essere per ogni battezzato, quindi, diviene capace, col tempo di mostrare in lui stesso la luce e la bellezza che viene da Dio e che trasforma la vita degli uomini. Ascolta, accoglie, irriga e trasforma: “Il respiro di Dio e della Terra fatta giardino”.