Il Cardinal Ravasi è una delle menti più illuminanti del nostro tempo. Personalità di vastissima cultura, non solo teologica, e di immensa curiosità intellettuale, Ravasi è, da sempre, uomo del dialogo. Riesce a coniugare ciò che, nella società e nella persona, porta a raggiungere l’armonia: l’essere, al contempo, fieri della propria identità e aperti all’altro da sé. Per queste ragioni ho bussato alla sua porta per chiedergli di ragionare su alcune parole chiave del complesso anno che abbiamo vissuto.
La prima è autostima. Mi sembra che tutti cerchino permanenti conferme delle proprie qualità, del proprio ruolo. E questo rimanda forse ad un concetto di relazione, di rapporto tra «io» e «noi».
«Sull’Io il grande rischio è quello dell’autostima che diventa autoidolatria. Melanie Klein, in polemica con Freud, immagina la parabola di una fata che si presenta a una persona e si dichiara disponibile a esaudire ogni suo desiderio, anche il più grande. A una sola condizione: che al suo vicino vada il doppio. L’uomo ci pensa e risponde: “Cavami un occhio”. Gelosia, invidia, egoismo. La cultura moderna, a partire da Cartesio, ha introdotto il “Cogito ergo sum” ed è stato fondamentale per il pensiero umano. Però mi sembra interessante quello che aveva proposto il filosofo Jean Luc Nancy, quando ha sottolineato la necessità di coniugare “l’ego sum” con “l’ego cum”. Siamo nel concetto di natura umana, uno dei più problematici del nostro tempo. Perché non ne esiste più una visione condivisa. In passato era chiaro: “Agitur sequitur esse” — l’agire segue l’essere — l’ontologia precede la deontologia. In fondo Kant, quando diceva “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, definiva la antica gerarchia. Nei nostri giorni si vive in una condizione di permanente fluidità che tocca ogni aspetto della vita, il concetto di verità e quindi quello di etica. È il tema del famoso dialogo del cardinal Martini con Eco. Di questa fluidità sul concetto di natura umana è testimonianza l’attuale dibattito sul gender».
La società fluida è per sua natura solitaria, costretta all’autoidolatria?
«Platone descrive la corsa della biga dell’anima nella pianura della verità, nel famoso mito del Fedro. La pianura c’è, ci sei tu con i tuoi cavalli, cioè la ragione e i sensi. Tu corri e il tuo obiettivo è la ricerca della verità che è esterna ed è in sé posta. Ora invece questo concetto di verità e di natura è molto più mutevole. Ognuno lo costruisce come una ragnatela che, al massimo, non deve incidere sulla ragnatela dell’altro. Io penso che sia decisivo tornare alla riflessione sulla relazione, cioè la natura umana come ego cum, ossia la relazione interpersonale. Il volto dell’altro di cui parla Lévinas. Il dramma dell’immigrazione mi ha riportato alla mente quello che Paul Ricoeur diceva: Non solo io, non solo tu, cioè il rapporto col prossimo immediato, ma anche la relazione col “terzo”, cioè con chi non conosci, lo straniero che però appartiene alla tua stessa umanità».
La ricerca di sé nell’altro è il grande tema del nostro tempo. E ha a che fare con un’altra parola del 2022: libertà.
«Ricostruire la relazione, questo io credo sia un modo per definire la persona umana, una relazione che abbia in sé quindi tutte le componenti dell’amore, del rispetto, della giustizia. Ritornano ancora le grandi categorie etiche. E lo stesso vale per la verità, naturalmente. La grande svolta è stata quando il filosofo Thomas Hobbes nel Leviatano (1651) ha introdotto quel principio che proprio nella modernità è stato anche deleterio: “Auctoritas non veritas facit legem” — l’autorità, non la verità, impone la legge —. Hobbes alla politica ma anche alla Chiesa suggeriva la convenienza di questa dottrina che, nei momenti più bui, è stata praticata. Lei parla del tema della libertà nella natura umana. La libertà non è mai libertà assoluta. Pensiamo ai nostri giorni, ai condizionamenti imposti dall’infosfera, che agiscono pervasivamente nel nostro modo di sapere, pensare, comunicare. Quindi è necessario strappare anche questa cappa di piombo e creare la libertà da una costrizione. Le giovani generazioni si sono liberate, per fortuna, da tanti condizionamenti della mia generazione, che però avevano anche elementi di validità, erano un perimetro. Si sono liberati, ma hanno il vuoto davanti a loro: la libertà, però, non è solo da ma è anche per qualcosa. Dostoevskij, lui che era sotto lo zar, usava una metafora che la storia ha rivelato purtroppo fondata: è come accade quando si va in un parco cittadino e si vede una persona che va a passeggio con il cane, prende un ramo e lo scaglia lontano.
Il cane cosa fa? Va, lo prende e te lo riporta. La libertà la concedi a persone deboli ed esse te la riportano. Questo è il grande trucco anche della Russia odierna; ne abbiamo la prova: gli stessi cittadini sono i primi a concepire la libertà come un bastone da riportare al potente che l’ha concessa e così accade per tutte le dittature, di ogni segno. Sono loro che concedono apparentemente una libertà, ma tu sei spinto a restituirla e a lasciarla gestire da loro».
La libertà ha bisogno di senso. Ha anche bisogno di educazione, di coscienza?
«Credo che anche la riflessione sull’educazione alla libertà autentica sia fondamentale. Qui entrano in scena, purtroppo, i due attori fondamentali che sono in pratica feriti o zoppi: la famiglia e la scuola. L’educazione, educere come “tirar fuori” il meglio lentamente, è fondamentale per la libertà stessa. E purtroppo questa educazione all’agire cosciente è assente.
Nelle prime pagine della Bibbia c’è Adamo solitario sotto l’albero della conoscenza del bene e del male: esso non è nella tassonomia botanica, è l’albero della morale. Nella visione ebraico-cristiana l’uomo e la donna sono stati creati liberi e, quindi, sono quasi pari a Dio. “Tu hai fatto l’uomo di poco inferiore a Dio” dice il Salmo 8, perché può persino rifiutare il dettato di Dio. Puoi accogliere oppure strappare il frutto di quell’albero, cioè decidere tu ciò che è bene e ciò che è male. La libertà diventa perciò arbitra del destino umano».
Questa è anche la spiegazione teologicamente più corretta di Dio a Auschwitz.
«Esatto. Dobbiamo riconoscere che almeno tre quarti del male esistente nel mondo lo creiamo noi usando la nostra libertà. Certo le dittature politiche e religiose preferirebbero che la persona fosse come una stella che obbedisce a leggi meccaniche. Invece, nella visione ebraico-cristiana l’uomo è arbitro di sé, decide di scegliere il bene o il male. Il bene e il male esistono in sé; perciò la distinzione morale esiste. Se la si perde, anche per l’orrore dello sterminio degli ebrei si possono trovare giustificazioni».
Un’altra parola del 2022: ambiente. Anche lì sono gli uomini a distruggere…
«Non per nulla “Adamo” si chiama così: nato dalla terra, in ebraico adamah, che evoca il color ocra, quello dell’argilla. È la sua materialità. Nel libro della Genesi (c. 2), si dice che è dovere dell’uomo “coltivare e custodire” la terra e “dare il nome” agli animali. Nel linguaggio semitico dare il nome agli animali significa conoscerli e definirne la realtà. In Egitto i papiri scientifici, come il papiro Anastasi, sono elenchi di nomi di animali, di cose e di minerali. È la scienza che li conosce, nominandoli. Quindi essa definisce alla fine la realtà fisica. Compito degli uomini è armonizzare scienza e natura.
Perché altrimenti dalla terra devastata, tu che l’hai lavorata col sudore della fronte, farai fatica ad avere il pane. L’uomo non è più il viceré, il delegato di Dio nel coltivare e custodire la creazione, ma diventa il tiranno della natura.
Mi viene in mente una parabola araba. Dio sta creando, disegna il mondo come un giardino. Poi vi colloca l’uomo e dichiara: “Ogni volta che tu ti macchierai di una colpa, io farò cadere un granello di sabbia nel giardino”. E la parabola narra che gli uomini, che sono cattivi, dissero: “Ma cosa è mai un granello!”. E continuarono a commettere ingiustizie. Ecco perché esistono i deserti».
La solitudine non è un grande tema del nostro tempo?
«La solitudine è una delle grandi malattie del nostro tempo. Esistono, però, due vocaboli diversi, solitudine e isolamento, che non sono sinonimi.
L’isolamento è la conseguenza della morte della relazione. C’è un racconto bellissimo di Cechov, intitolato Malinconia in cui si racconta di un vetturino, Jona Potapov, che ha perso un figlio. Lui è pieno di tristezza, di dolore e tutte le volte vuole raccontare a chi sta trasportando il suo stato d’animo, ma non c’è nessuno che vuole ascoltarlo. E allora lentamente lui raggrinzisce, anche fisicamente. Perché la malinconia e l’isolamento sono “bile nera”, come dice l’etimologia greca della parola “malinconia”. È una deminutio della persona umana. La solitudine, però, ha anche un volto positivo. Nel mondo rumoroso creato dall’infosfera, che genera una falsa relazione, c’è bisogno di ritrovare invece la vera solitudine con sé stessi. La dieta dell’anima dalla chiacchiera, dal rumore, dal futile. La relazione autentica con sé stessi e con gli altri è un antidoto alla solitudine. Anche nella società fluida. Certo, il discorso si complica perché le relazioni non sono soltanto tra maschio e femmina, c’è anche la relazione sociale e quella dell’amicizia. Inoltre oggi c’è tutto il discorso sulla questione del gender che è un nuovo modo di concepire le relazioni umane. Infatti, nella tradizione classica esiste l’idea della bipolarità sessuale che è strutturale. Ora, invece, siamo di fronte a un orizzonte diverso del quale bisogna prendere atto, sul quale perlomeno dovremmo ribadire ancora la necessità della permanenza di una relazione umana autentica. Perché la relazione con l’altro non è soltanto una questione fisiologica, è una questione anche culturale e spirituale».
Ansia, altra parola decisiva, specie nel post Covid, specie tra i giovani.
«Una volta Julien Green, grande scrittore francese, mi disse che, finché si è inquieti, si può stare tranquilli. Ed è vero, perché è l’ansia genuina che genera la ricerca, il viaggio, la scoperta dell’ignoto. Ma so bene che può essere una malattia, quando ti sembra di vedere sempre il serpente sotto ogni foglia. Quando, come diceva Lewis Carroll, la parola live, “vivere”, riflessa nello specchio ti appare come evil, ossia “male”. L’antidoto è guardarsi dentro coltivando il silenzio, ma anche cercando negli altri, con gli altri, il senso della propria vita. È la mano dell’altro che ti conforta. Una poesia di Brecht dice, più o meno: Io sono seduto ai bordi della strada, quindi da solo. L’autista sta cambiando la ruota “Io non so da dove vengo e non so dove vado. Ma allora perché attendo con tanta impazienza il cambio della ruota?”. Cioè non avere un senso nella vita crea ansia. Anche se non sai da dove vieni, non sai quale è la tua meta, se hai qualche ideale dentro, la paura finisce e si spegne anche l’ansia. Ritorno, però, ancora all’idea della mano dell’altro, perché nessun essere umano è un’isola».
Denatalità: un mondo di scuole vuote e strade piene di capelli bianchi.
«Io penso che sarebbe significativo e giusto recuperare la bellezza della creatività racchiusa nella nascita. Siamo a Natale e la gente si affolla nelle strade per acquistare. Ma il Natale non è più celebrato come nascita, come inizio, come avvento non solo di Cristo ma anche dell’uomo e della donna.
Se tu hai il senso del rispetto per il bambino, per la fragilità della sua nascita, per la sua debolezza e il suo bisogno di cura, per la sua bellezza, tu in quel momento esorcizzi dentro di te l’aggressività. Le grandi civiltà mesopotamiche, quando conquistavano una città, quale era la prima cosa che facevano per imporsi? Prendevano i bambini neonati e sfracellavano loro la testa sulla pietra (vedi il Salmo 137), e poi sventravano tutte le donne incinta per distruggere in radice un popolo, la sua memoria e il suo futuro.
Questo è il frutto e il lugubre segno della guerra. Quindi se noi non vogliamo perdere la nostra identità, fatta di umanità, dobbiamo tornare a coltivare l’amore per la generazione e per la nascita come fenomeno culturale, spirituale e non solo biologico. La nascita come evento umano, civile, sociale».
Il futuro è compromesso dall’immanenza della guerra?
«Il futuro è legato al concetto di speranza ed è per questo che fermarsi solo sui tempi infami in cui siamo immersi non è giusto. Esiste nella speranza una ricomposizione dell’essere, un senso ultimo della storia. Questo avviene nella costruzione quotidiana della giustizia e, quindi, della pace. Il libro dell’Apocalisse è costituito da venti capitoli di sciagure e sangue. Gli ultimi due sono, però, quelli fondamentali: è l’apparire della Gerusalemme celeste dove Dio passa a cancellare le lacrime dai volti degli uomini. Per questo le religioni dovrebbero soprattutto insegnare a sperare, a far sì che si possa immaginare e costruire un mondo diverso, andando oltre il pur necessario realismo con cui combattere, giudicare e condannare le devastazioni belliche e la degenerazione delle aggressioni. Il primato è quello di annunciare la pace, senza però ignorare che la lotta contro la violenza e la stessa legittima difesa sono state sempre al centro della riflessione morale tradizionale. È suggestivo quello che scriveva il teologo martire del nazismo, Dietrich Bonhoeffer, quando affermava che, di fronte a un guidatore d’auto ubriaco che ha ucciso alcuni bambini, è necessario prima fermarlo e poi celebrare con solennità la liturgia funebre».
Da ultimo la parola inquieta del 2022, politica.
«Avverto spesso una mancanza di competenza e progettualità, le due cose sono, insieme, necessarie. La progettualità ad alto livello fornisce il senso e la speranza nel futuro; la competenza dà invece la capacità di leggere la società e le sue grandi trasformazioni. Ho citato più volte l’inizio del Tractatus politicus di Spinoza. Lui scrive in latino perché era l’inglese di allora: “Sedulo curavi humanas actiones non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere”. Diceva, dunque, il filosofo secentesco: Delle azioni umane mi sono sempre preoccupato non di detestarle, non di deriderle, non di compiangerle — che può essere la tentazione del moralismo — solo intelligere, che vuol dire intus legere, leggere in profondità dentro le cose.
Questo è ciò che, secondo me, è raro ai nostri giorni».