Le drammatiche vicende di Giacobbe ed Esaù sono attraversate da manipolazione e inganno, da propositi di violenza e da separazioni forzate, da conflitti esacerbati e da inattesi riavvicinamenti. Per cui sembra lecito chiedersi: dov’è Dio in tutto questo? Come riconoscerlo nelle storie umane spesso controverse e poco lineari? Eppure, è proprio sul palcoscenico della vita che la Bibbia mette in scena il dramma delle relazioni familiari e dell’inattesa possibilità di trovare il volto di Dio nel volto del fratello (cfr Gen 33,10).
In lotta sin dal grembo materno
Il patriarca Isacco e sua moglie Rebecca non possono avere figli. Dopo una lunga attesa e tanta preghiera, il Signore concede loro una discendenza, più precisamente viene concepita la prima coppia di gemelli della storia biblica. La gestazione, per Rebecca, non risulta facile. Infatti, i due gemelli si urtano e sono in lotta sin dal grembo materno (cfr Gen 25,22). A causa della gravidanza travagliata, Rebecca consulta il Signore, il cui oracolo presenta un testo ambiguo e di difficile interpretazione sull’avvenire dei due gemelli, che può essere tradotto sia come «il maggiore servirà il minore» sia come «il minore servirà il maggiore»[1] (Gen 25,23). Questa ambiguità rimarrà importante per le vicende a seguire, perché la relazione fraterna sarà improntata non sulla solidarietà, ma sulla competizione e sul desiderio di rivalsa, aspetti fomentati dalle preferenze dei genitori.
Alla nascita, viene presentato un ritratto dei due gemelli che anticipa gli sviluppi futuri del racconto e forma le prime impressioni del lettore su Esaù e Giacobbe: «Uscì il primo, rossiccio, tutto come un mantello di pelo, e fu chiamato Esaù»[2] (Gen 25,25).
Il narratore offre una descrizione fisica di Esaù, che alla nascita presenta dei tratti quasi animaleschi e selvaggi. Egli, infatti, è un neonato rosso e irsuto. Il termine «rossiccio», adoperato nella descrizione, richiama «Edom», un vocabolo che ricorrerà poco più avanti (cfr Gen 25,30) e che fa riferimento alla nazione che nascerà da Esaù, mentre il sostantivo «pelo» suonerebbe in ebraico simile a «Seir», un toponimo che indica la zona montuosa dove gli abitanti di Edom si insedieranno (cfr Gen 33,16). Inoltre, i tratti esteriori del bambino anticipano quanto avverrà successivamente nel racconto. Infatti, la parola «rossiccio» richiama anche quella minestra rossa per la quale Esaù venderà la primogenitura (cfr Gen 25,30), mentre la villosità di Esaù ispirerà lo stratagemma di Rebecca, che coprirà Giacobbe di un vello di capra, affinché il vecchio Isacco lo identifichi per il primogenito e gli accordi la sua benedizione (cfr Gen 27). La presentazione di Giacobbe è altrettanto ricca: «Subito dopo, uscì suo fratello e la sua mano afferrava il calcagno di Esaù; fu chiamato Giacobbe» (Gen 25,26).
Mentre la descrizione di Esaù riguarda il suo aspetto esteriore, quella di Giacobbe invece è più dinamica, perché viene mostrata l’azione che egli compie all’uscita dal grembo materno, mentre afferra il tallone del fratello maggiore[3]. Il nome proprio Yakob, «Giacobbe», si basa sulla parola ebraica che indica il «tallone», ma al tempo stesso contiene in sé la radice di un verbo che vuol dire «insidiare», «soppiantare», «tallonare». Questo gesto darà il nome al nuovo nato e anticiperà lo scontro tra i due fratelli e le azioni che Giacobbe ordirà ai danni di Esaù.
In seguito, il narratore presenta due ritratti antitetici dei due gemelli, che crescono in maniera differente: «I fanciulli crebbero ed Esaù divenne abile nella caccia, un uomo del campo, mentre Giacobbe era un uomo onesto / integro / innocente, che dimora sotto le tende» (Gen 25,27).
Esaù è un abile cacciatore, un uomo che vive all’aperto, mentre Giacobbe sta in casa. Attraverso questa descrizione, Esaù è associato a un altro personaggio che prima di lui è definito come un valente cacciatore: Nimrod, il sovrano di Babele, Ninive e Assur (cfr Gen 10,8-12). La comparazione non è certo lusinghiera. Inoltre, la descrizione di Esaù è esterna e mostra i tratti e le abilità esteriori del primogenito di Rebecca, ma non altre qualità e attitudini più interiori[4]. Giacobbe, per contro, è descritto con una parola ebraica che può essere tradotta come onesto / integro / innocente. Forse c’è dell’ironia dietro la definizione di Giacobbe come giusto e innocente. Al contrario, egli si rivelerà furbo e scaltro.
Successivamente viene detto che Esaù è amato dal padre a causa della sua abilità nella caccia, mentre Giacobbe è amato dalla madre (cfr Gen 25,28). Esaù è strumentalizzato poiché è amato in funzione di ciò che fa per soddisfare gli appetiti paterni, mentre Giacobbe è il preferito della madre Rebecca forse per il suo stare vicino a lei sotto le tende, un ambiente meno selvaggio rispetto alle steppe frequentate dal primogenito.
Doppio inganno
Giacobbe, fedele al suo nome, alla prima occasione approfitta della debolezza del fratello. Esaù, infatti, sta tornando dalla campagna affaticato e sfinito, mentre Giacobbe ha appena preparato una minestra (cfr Gen 25,29). Le prime parole pronunciate da Esaù nel racconto sono come dei borbottii concitati e grossolani: «Disse Esaù a Giacobbe: “Lasciami mangiare da questa cosa rossa rossa, perché io sono sfinito”» (Gen 25,30).
Per la foga e la fame, Esaù non riesce nemmeno a trovare la parola giusta per indicare la minestra. Parimenti, il verbo mangiare da lui utilizzato designa il «cibarsi inghiottendo»[5]. Questi elementi offrono un ritratto animalesco e impulsivo di Esaù. Giacobbe, invece, con abilità e intelligenza, fa leva sulla debolezza e sullo stato di necessità in cui si trova il fratello per chiedergli la primogenitura in cambio della minestra. Esaù, preso dall’irruenza e dalla paura di morire (cfr Gen 25,32), giura e vende la primogenitura a Giacobbe. «Giacobbe diede a Esaù il pane e la minestra di lenticchie; egli mangiò e bevve, poi si alzò e se ne andò. Esaù disprezzò la primogenitura» (Gen 25,34).
Avviene lo scambio della propria condizione di figlio primogenito con la minestra di lenticchie. La rapida catena dei verbi, che si susseguono uno dopo l’altro, mostra ancora una volta la precipitosità e l’impulsività di Esaù[6], che sazia la propria fame e va via senza dire nemmeno una parola. La nota finale del narratore è determinante per la caratterizzazione. Mentre il racconto, nonostante tutto, indirizzava la simpatia del lettore verso Esaù, giocato e raggirato dal fratello, ora il sommario conclusivo si rivela decisivo per l’interpretazione dell’episodio, poiché il comportamento di Esaù viene deplorato e biasimato.
La narrazione mostra un Giacobbe astuto e freddo, calcolatore e manipolatore, mentre Esaù appare emotivo e rozzo, volubile e sconsiderato. Purtroppo, la competizione tra i due gemelli, che non potrebbero apparire più diversi, assume toni sempre più drammatici quando anche i genitori entrano in scena con le loro preferenze. Infatti, per una seconda volta Esaù verrà defraudato di qualcosa da parte del fratello. Il racconto di un secondo inganno allarga una frattura che non sembra più risanabile.
«Quando Esaù ebbe quarant’anni, prese in moglie Giuditta, figlia di Beerì l’Ittita, e Basmat, figlia di Elon l’Ittita. Esse furono causa d’intima amarezza per Isacco e per Rebecca» (Gen 26,34-35).
Esaù sposa donne straniere provenienti da altri popoli e ciò suscita dolore e tristezza nei genitori. Il doppio matrimonio pagano di Esaù potrebbe aver confermato Rebecca in un’interpretazione dell’oracolo di Gen 25,23 a favore di Giacobbe, il figlio da lei amato, che si dimostrerebbe più meritevole di ereditare la benedizione paterna, perché non contaminato da legami con mogli straniere. Al tempo stesso, queste informazioni influenzano anche l’interpretazione del lettore, che si avvicinerà al racconto successivo con una disposizione negativa verso Esaù.
Isacco è ormai vecchio e cieco, ed Esaù è il figlio a cui è destinata la benedizione. Il lettore sa bene che Isacco ama Esaù per la cacciagione che il figlio gli procura. In questa direzione va l’ultimo comando del padre: «Ora prendi le tue armi, la tua faretra e il tuo arco, esci in campagna e caccia per me della selvaggina. Poi fa per me un piatto saporito come io amo. Io lo mangerò affinché possa benedirti prima di morire» (Gen 27,3-4).
Esaù è il figlio obbediente che compie le volontà di Isacco, ignaro di quanto Rebecca e Giacobbe ordiranno contro di lui. Infatti, la madre, non vista, ascolta la conversazione e manipola Giacobbe affinché con inganno sia lui a ereditare la benedizione paterna al posto di Esaù. Giacobbe appare restio a compiere tale azione, ma viene persuaso dalla madre, che fa preparare una pietanza per Isacco, riveste il figlio minore degli abiti di Esaù e le braccia e il collo con le pelli di capretti, affinché Giacobbe assuma il rustico odore del fratello e al tatto rassomigli al villoso Esaù.
«Giacobbe rispose a suo padre: “Io sono Esaù, il tuo primogenito. Ho fatto come tu mi hai ordinato. Alzati, dunque, siediti e mangia la mia selvaggina, perché tu mi benedica”. Isacco disse al figlio: “Come hai fatto presto a trovarla, figlio mio!”. Rispose: “Il Signore tuo Dio me l’ha fatta capitare davanti”» (Gen 27,19-20).