Non si può pensare a questo aspetto del mistero della Persona di Gesù senza l’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2,6-11). Ci può essere una radicalità più eloquente di quella che ci viene proposta dalla riflessione di Paolo sulla kenosis di «Colui che non ha considerato una refurtiva da tenere ben nascosta (nella parte più inaccessibile della casa) la sua uguaglianza con Dio»? E infatti sembra che debba essere proprio questo il punto di partenza.
Gesù ha forse rubato la sua uguaglianza con Dio, per cui deve metterci tutta la sua premura nel tenerla ben nascosta per non farsela portar via, ma soprattutto per non farsela scoprire come una sorta di corpo del reato e quindi una prova di un suo supposto latrocinio? Saremmo allora di fronte a qualcosa di simile al mitico furto del fuoco perpetrato da Prometeo che si inerpicò sulla montagna dell’Olimpo per sottrarre a Giove il fuoco, strumento e simbolo efficace del suo potere? Certamente no. Anzi, forse è proprio questo definitivo superamento del mito ciò che intende proporre l’inno cristologico dei Filippesi. Ma più che di un superamento si tratta in realtà di un vero e proprio capovolgimento. La proposta cristiana è tutt’altra cosa.
Parola e Sacramento
La fede cristiana non si fonda su qualcosa di simile, né è una delle tante possibili spiegazioni allegoriche del mito greco o di altri miti. Infatti si tratta di una storia con tutti i connotati propri di una storia. Il Verbo si è fatto carne, avrebbe detto l’evangelista Giovanni (Gv 1,14), in un momento ben preciso della storia, in uno spazio altrettanto preciso e ben delimitato geograficamente della nostra terra, in un popolo ben identificabile, arrivato, grazie a Dio, fino a noi, nonostante tutti i tentativi di annientarlo.
Non si è trattato dunque dell’ascensione di un eroe verso l’abitazione di Dio come tentano di far credere le scuole, che prolificano in ogni dove, che garantiscono la divinizzazione dell’uomo. La tradizione cristiana è stata da sempre tetragona nel respingere ogni assalto “religioso” di questo tipo, proclamando da sempre che «se Dio non si fosse fatto uomo invano l’uomo tenterebbe di arrivare a Dio». Esistono infatti, e pullulano a decine le scuole che promettono la “distensione”, l’“apatheia”, la “serenità” o cose simili in ogni angolo di questa nostra società cosiddetta moderna o postmoderna, che perciò considerano, tutto sommato, ininfluente riferirsi o meno all’azione propria di Gesù di Nazaret e alla sua Parola.
Parola e Sacramento, questo binomio che ha fondato da sempre ed ha nutrito per secoli il cammino cristiano della “divinizzazione” possibile, non ha perso certamente la sua efficacia per il fatto che è cresciuto enormemente il moltiplicarsi dei metodi cosiddetti “scientifici” dei concorrenti. Non trascuriamo il cibo sostanzioso di Parola e Sacramento che ci ha portato Gesù, con la sua scelta radicale di rivelarsi Figlio e che ha voluto venire nel mondo come uomo per rivelare fino a che punto può arrivare l’amore. Non sono menzognere le sue Parole quando dichiara con solennità divina: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna » (Gv 6,54). Né possono esistere radicalità più efficaci di questa per condurre l’uomo alla comunione con Dio.
Radicalità reale
Dunque è di fronte a fatti concreti che siamo invitati a riflettere per prendere una decisione in cui ne va di mezzo la nostra stessa vita, intesa non soltanto come “salute” del corpo, ma come vera e propria “salvezza” dell’intera persona umana. Meditare sull’annientamento del Figlio che si è fatto pane per noi, e interiorizzarlo al punto da immedesimarsi con lui, è la conditio sine qua non per restargli intimamente uniti, appiccicati, incollati, anche quando, compiuta la sua spoliazione totale, egli riceverà dal Padre «il nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil ,9).
La radicalità di Gesù è dunque un’esperienza storica estremamente reale, ma è anche un’esperienza in cui la tragedia si consuma fino in fondo nel corpo fisico, carnale, del Figlio di Maria, che è simultaneamente anche il Figlio di Dio. Due nature in un’unica persona, ma così distinte tra di loro che la natura divina resta perfettamente se stessa nel momento stesso in cui la stessa affermazione vale per la natura umana, con tutte le conseguenze proprie di una natura umana.
Un mistero veramente grande nella proposta cristiana che l’evangelista Giovanni descrive con estremo rigore quando mette in bocca a Gesù queste parole precise: «Ho il potere di dare la mia vita e di riprenderla di nuovo (=riceverla di nuovo gratuitamente dal Padre» (Gv 10,17), trattandosi di un’unica Persona divina che non cessa, neppure per un istante, di essere tale, restando nel contempo unita e distinta alla/dalla natura umana, accettando in tutto e per tutto le conseguenze della sua scelta di «assumere la condizione di servo, divenendo simile agli uomini» (Fil 2,7).
Contemplare l’amore
Penso che la radicalità di Gesù debba essere intravista soprattutto in questo. Il che comporta anzitutto la scelta libera di “farsi obbediente”. Un’obbedienza sperimentata dall’unica persona del Figlio di Dio fatto carne, che accetta di «umiliare se stesso» nell’assumere in tutto e per tutto le conseguenze della sua scelta di «apparire in forma umana». Una scelta che non indietreggia neanche quando quella stessa obbedienza si fa talmente esigente da comportare «la morte e la morte di croce» (Fil 2,8). Ogni altra proposta della narrazione storica che riguarda Gesù di Nazaret non può fare a meno di partire da qui, cioè da questa contemplazione del mistero del «Verbo fatto carne » (Gv 1,14).
Infatti tutto il nostro rapporto con Gesù sta o cade a partire da questa contemplazione. Ma se ci fermiamo un attimo su questo termine “contemplazione”, in greco chiamata theoria, e cerchiamo di individuare dove e a proposito di cosa o di chi si possa parlare di contemplazione, ci ritroviamo di nuovo di fronte a qualcosa di estremamente affine, anzi identico a ciò che abbiamo scoperto nell’inno della lettera di Paolo ai Filippesi. L’evangelista Luca, l’unico che per una sola volta utilizza questo termine in greco, lo fa per indicare Cristo crocifisso (Lc 23,48).
Una contemplazione che scuote il petto di coloro che erano usciti da Gerusalemme ed erano andati su quella collina fuori le mura, che si chiamava “Golgota”, in cerca di emozioni umane e se ne tornò percuotendosi il petto a causa di un vero e proprio sconvolgimento spirituale. Quella radicalità dell’amore che, loro malgrado, avevano dovuto “contemplare” si era incisa in loro come se il loro petto fosse stato esposto senza scudo protettivo alla trafittura di una lancia misteriosa che, invece di limitarsi a percuotere il crocifisso per verificarne la morte, si era conficcata nel loro cuore, mutatosi improvvisamente da cuore di pietra, come lo era stato fino a quel momento, in cuore di carne. Infatti non ci si può esporre di fronte a chi ama senza misura, e dunque nel modo più radicale possibile, senza essere provocati ad amare a nostra volta nello stesso modo. La radicalità di Gesù non lascia dunque indifferente nessuno. È il paradosso della contemplazione cristiana. Si esce di casa per “contemplare” un crocifisso e si ritorna indietro con il cuore trafitto dalla sua crocifissione che apre a tutti le porte della vera vita.