Nicodemo, «uno dei capi dei Giudei», aveva fatto un notevole passo avanti nell’accoglienza di Gesù. Diversamente dagli altri capi, era andato da Gesù, ma di notte, per una visita discreta, nella quale possiamo anche discernere meglio il desiderio di trovare la luce. Egli rivolge a Gesù parole che mostrano una grande disponibilità ad ascoltare il suo messaggio: «Rabbi, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui» (Gv 3,2). L’affermazione è molto forte e senza alcuna riserva: «sappiamo». Non si tratta, cioè, di una semplice impressione ma di una convinzione, fondata sull’evidenza dei «segni», cioè dei fatti straordinari, di origine divina, compiuti da Gesù. Nicodemo ammette che Gesù ha dato la dimostrazione della verità delle sue parole e dev’essere riconosciuto pienamente come maestro.
Non manca di merito adottando questa posizione, perché altri capi non condividono tale apertura. Lontano dalle controversie, nel silenzio della notte, vuole ascoltare una parola che lo illuminerà e lo confermerà nell’accoglienza della predicazione di Gesù. Ma la risposta lo sorprende: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3,3). Nicodemo non si sarebbe aspettato una condizione di questo genere. Aveva lasciato intendere a Gesù che scorgeva nel suo messaggio i segni della venuta del regno di Dio; ora il nuovo maestro gli presenta un’altra esigenza: l’accesso al regno richiede il nascere dall’alto.
Una tale condizione sconvolge tutto. Nicodemo reagisce invocando l’impossibilità di una nuova nascita: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» (Gv 3,4). Gesù chiarisce subito il significato della rinascita: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3,5). In questo riferimento al battesimo si concretizza la rinascita come nuova nascita e come nascita dall’alto: viene operata dallo Spirito Santo. Si tratta dunque di una nascita essenzialmente spirituale: «Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito» (Gv 3,6).
Per illustrare meglio il valore della nascita dall’alto, Gesù sottolinea che parla di «cose del cielo» che egli solo conosce, perché «nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo» (Gv 3,13). La nuova nascita ha dunque la sua fonte e il suo modello in Cristo stesso. Egli è colui che insegna la necessità della nuova nascita e sconvolge con questo insegnamento tutto ciò che potevano pensare i maestri giudei. Essi non avrebbero potuto conoscere il piano divino di salvezza, che richiede una nascita dall’alto. Nicodemo è l’esempio dei maestri giudaici ben disposti, che sono stati sorpresi e sorpassati dalla prospettiva cristiana. In questa prospettiva c’è un radicalismo che vuole istituire un nuovo modo di vivere e di essere, l’inizio di una vita che sorge dall’alto, cioè dal cielo.
Non sappiamo in quale misura Nicodemo sarebbe potuto entrare in questa nuova prospettiva. Nel dialogo con Gesù si sentiva «vecchio», poco orientato verso una rinascita, non avvertendo il bisogno di una nuova giovinezza. Ma, d’altra parte, cercava più luce ed era andato da Gesù per trovare in lui una sapienza superiore a quella dei maestri in Israele. Fu certamente impressionato dalle parole pronunciate da questo Rabbi che non era simile agli altri e non esitava a rivendicare un’autorità personale come garanzia del valore delle sue affermazioni. Ha potuto riconoscere in lui i segni di un’armonia profonda con l’insegnamento divino. È dunque probabile che abbia accolto con spirito di fede le parole di Gesù e abbia meditato ulteriormente l’insegnamento ricevuto, in particolare sulla nuova nascita.
Possiamo anche osservare che l’evangelista Giovanni verosimilmente ha riportato l’episodio perché l’incontro con Gesù era stato proficuo e perché Nicodemo ha mostrato in seguito la sua posizione favorevole al Maestro che aveva scoperto. Giovanni termina in modo vago il dialogo con alcune dichiarazioni dottrinali che in sé sono molto importanti, ma non si riferiscono direttamente al colloquio con Nicodemo. È pure caratteristico che l’affermazione della necessità di rinascere dall’alto trovi un prolungamento nell’affermazione fondamentale: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Se la rinascita s’impone, questo è dovuto al fatto che Dio, il Padre, in un gesto di supremo amore ha dato il suo Figlio all’umanità.
«Il potere di diventare figli di Dio»
Nel prologo del suo Vangelo, Giovanni pone in luce la figliolanza divina come scopo della venuta del Verbo nel mondo[1]. Il punto di vista non è quello della necessità di una rinascita, ma piuttosto quello di un potere che viene concesso: «A quanti però lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome, lui che non dai sangui né da volere di carne né da volere di uomo ma da Dio fu generato» (1,12-13). Si tratta di un potere che si spiega col fatto che colui che ha comunicato questa figliolanza era il Figlio generato dal Padre: è un potere inerente alla figliolanza. Venendo tra gli uomini, il Figlio ha fatto uso per loro del suo potere filiale.
La generazione che viene affermata non è quella eterna del Figlio, ma la generazione temporale che ha segnato il concepimento verginale di Gesù. Il concepimento è avvenuto fuori dei sangui, cioè fuori dell’unione dell’uomo e della donna[1]; senza volere di uomo, ma con il volere della donna, cioè Maria[1]. L’espressione «fu generato» allude a un momento storico, quando, con il consenso di Maria, Dio Padre, per mezzo dello Spirito Santo, operò la generazione. L’evangelista ha voluto sottolineare il carattere verginale della generazione del bambino. Usando una triplice negazione per escludere le condizioni di una generazione normale, egli sembra voler respingere energicamente i primi tentativi di dubbio che avevano potuto manifestarsi sull’origine di Gesù.
Il ruolo riconosciuto a Dio Padre nella generazione non impedisce che l’accento sia posto sul dono della figliolanza fatto dal Figlio. Il Padre è colui che ha voluto stabilire la sua sovranità paterna su tutta l’umanità; la sua intenzione di avere dei figli è stata decisiva nell’opera di creazione e di salvezza. Ma nel prologo è il ruolo del Figlio che viene più in particolare esaltato. È il Verbo che viene nel mondo; è lui che procura agli uomini la relazione filiale con il Padre: egli «diede loro il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12). Coloro che credono in Cristo diventano figli come Cristo stesso.
Se ricevono il potere di diventare figli di Dio, questo significa che non sono figli di Dio in virtù della creazione. C’è un dono speciale che viene da colui che è il Figlio. Egli condivide con noi il suo potere, ma lo comunica soltanto a quelli che accolgono la sua venuta. Qui si manifesta il ruolo della libertà umana, con il dramma che viene riferito poco prima nel prologo: «Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,10-11). Il mondo, cioè, non ha riconosciuto colui che l’aveva fatto. E questa situazione trova la sua espressione immediata e concreta nella venuta storica del Figlio in mezzo alla sua gente. Ciò che viene sottinteso è che il popolo giudaico avrebbe dovuto riconoscere colui che era vita e luce, e voleva illuminarlo.
Una circostanza particolare del racconto evangelico della nascita di Gesù conferma la mancanza di accoglienza che costringe il Salvatore a cercare un altro rifugio; come dice Luca, «non c’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2,7). La constatazione «non c’era posto» ha un valore simbolico; oltre al problema dell’alloggio, c’era quello molto più importante dell’accoglienza nei cuori. Come fare posto a Cristo nell’esistenza umana?
Nella risposta a tale domanda, appare la responsabilità della volontà di ognuno. È vero che, nel caso della nascita di Gesù, il piano divino aveva disposto le cose perché essa fosse caratterizzata dalla povertà. L’impossibilità di trovare un posto nell’albergo entrava in questo disegno superiore; ha avuto come effetto che Maria e Giuseppe abbiano dovuto offrire a Gesù una mangiatoia per il suo riposo. Ma la volontà suprema del Padre, che richiedeva questa povertà, non toglieva la responsabilità di tutti quelli che avrebbero potuto contribuire a un’accoglienza migliore.
Il prologo definisce brevemente il genere di accoglienza richiesto, quando allude a «quelli che credono nel suo nome» (Gv 1,12). Si tratta di credere in Cristo: è la nuova fede, che ispira tutto il Vangelo. È nuova, perché prima bastava la fede in Dio. Gesù invitava i suoi discepoli a fare un passo in avanti: «Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14,1). Possiamo capire che la fede nel Figlio è la condizione per ricevere il beneficio della figliolanza divina. «Diventare figli di Dio», significa accedere a una nuova nascita. Eppure, letteralmente, non viene detto che quelli nascono di nuovo o nascono dall’alto; ma diventare figli implica nascere, e nascere da Dio Padre: dunque, nascere dall’alto.
Possiamo aggiungere che l’espressione «figli del Padre» sarebbe più adeguata dell’espressione «figli di Dio», anche se molti non fanno differenza tra le due espressioni. Il «Dio» come si è rivelato nel Vangelo è il Dio uno in tre persone. Essere figli di Dio non può significare essere figli del Dio trino; noi non diventiamo figli delle tre persone divine. Non diventiamo figli del Figlio né figli dello Spirito Santo, ma soltanto figli del Padre. Più precisamente siamo figli del Padre nel suo unico Figlio incarnato, Gesù Cristo. In realtà, la dottrina della nostra figliolanza divina non è ambigua, ma la terminologia dev’essere precisata. Così l’espressione «Figlio di Dio» viene spesso usata per significare «figlio del Padre». Una teologia più sviluppata sul Padre potrebbe dare più luce sulla Trinità.
Il Figlio venuto dal Padre
Se riprendiamo le affermazioni dottrinali che vengono riportate a seguito del colloquio con Nicodemo, vediamo chiaramente il posto centrale attribuito al Figlio. È il dono del Figlio che fa capire l’amore del Padre per noi: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). Il Padre non avrebbe potuto farci un dono più grande di quello: aveva un solo Figlio e non ha esitato a darlo. L’ha dato nel modo più completo, chiedendogli il sacrificio della vita. Non è stato dunque un dono senza profonda sofferenza, nella perfetta comunione che esisteva tra il Padre e il Figlio.
Rivelando questo dono del suo amore, il Padre sapeva che spesso non sarebbe stato capito né apprezzato. Molti uomini accusano il Padre di crudeltà, per avere permesso la morte del Figlio. Molti hanno ignorato la sua presenza al dramma della croce, come se fosse stato indifferente. Coloro che capiscono la partecipazione di Maria al supplizio del Figlio spesso non pensano alla compassione del Padre, compassione infinitamente più intensa di tutte le altre. Prevedendo questa incomprensione, il Padre si è pure impegnato sulla via dolorosa: il suo amore verso l’umanità superava ogni misura.
Riflettendo sul mistero di questa presenza invisibile del Padre, possiamo meglio valutare l’amore paterno silenzioso che ha accompagnato tutta la vita terrena di Gesù, che si è sviluppata nella più stretta intimità tra Padre e Figlio. Osservando il Figlio attraverso i racconti evangelici, non possiamo mai dimenticare la vicinanza invisibile del Padre, che guidava tutto l’itinerario. Ogni lettura del Vangelo non può essere separata da uno sguardo rivolto verso il Padre, prima fonte di tutti gli avvenimenti dell’opera di salvezza. Così, nello sforzo di raccogliere tutta la verità nascosta nelle informazioni evangeliche su Gesù, deve rimanere presente la scoperta della persona del Padre. Senza di essa, sono trascurati aspetti molto importanti della rivelazione, in particolare le intenzioni più profonde dell’amore divino che spiegano e giustificano gli avvenimenti.
Quando si tratta della Passione, la scoperta del Padre permette di difendere meglio il Padre celeste contro le accuse rivolte a lui a proposito delle sofferenze umane. Una ricerca più approfondita tende a mostrare che pensare a sentimenti ostili tra Padre e Figlio è sbagliato, e che le relazioni fra il Padre e l’umanità sono segnate da una benevolenza essenziale. Il Padre è molto diverso dal ritratto superficiale che alcuni si sono fatti di lui. Molti rimproveri sono stati formulati senza vera conoscenza della dottrina rivelata.
La necessità di una scoperta del Padre non vale soltanto per una giusta interpretazione degli avvenimenti dolorosi e della responsabilità divina nella Passione. Si estende a tutta la vita terrena di Gesù, ma in particolare agli episodi riportati nel Vangelo dell’infanzia. La nascita di Gesù, per esempio, è stata rappresentata da numerose opere d’arte. Molti artisti hanno tentato di far «vedere» il bambino nella mangiatoia, con Maria e Giuseppe e con i pastori. L’espressione più completa del mistero avrebbe bisogno di suggerire la presenza del Padre, ma è una presenza che rimane invisibile. Nel suo pensiero animato dalla fede, il cristiano non può ignorare questa presenza superiore, che manifesta l’immensità dell’amore divino. Se il Padre avesse parlato, come farà più tardi al momento del battesimo e della trasfigurazione, avrebbe espresso l’amore che, col dono del Figlio, egli vuole dare all’umanità.
In tutte le circostanze della vita pubblica di Gesù, la presenza del Padre testimonia la verità dell’unità indissolubile del Padre e del Figlio: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). Tutte le guarigioni sono compiute dal solo Gesù, ma in qualche modo sono operate anche dal Padre: Gesù afferma che fa le opere del Padre (Gv 10,37). Per il più impressionante dei miracoli, la risurrezione di Lazzaro, egli vuole far capire alla folla presente che il miracolo sarà opera del Padre, perché prima di gridare dinanzi alla tomba: «Lazzaro, vieni fuori!», rivolge al Padre una preghiera di ringraziamento per il miracolo (cfr Gv 11,41). Questo esempio ci lascia supporre che in modo abituale chiedesse con la preghiera il compimento di ogni guarigione. Nel caso di Lazzaro, ringrazia per la risurrezione prima di compiere il miracolo, perché in questo momento tutti gli sguardi convergono verso di lui ed egli vuole riportare l’omaggio verso il Padre.
Disceso dal cielo
Ciò che sembrava impossibile a Nicodemo — una nuova nascita dall’alto — Gesù l’ha compiuto nel modo più radicale. Il Padre voleva questa nuova nascita per tutti gli uomini. All’offesa del peccato reagiva non solo con la volontà di riparare il danno commesso e di vincere le forze del male, ma con l’intenzione di «rifare» l’uomo, facendolo entrare in una nuova vita che sarebbe stata vita divina. Così il Padre voleva estendere all’estremo la sua paternità e abbracciare tutti gli uomini nel suo amore paterno.
Con le proprie forze, l’uomo sarebbe stato incapace di operare questo. Nicodemo si rendeva conto dell’impossibilità di rinascere, eppure Cristo gli offriva questa possibilità: gli diceva che parlava di «cose dal cielo» e che egli era il solo che poteva parlare di queste cose: «Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo» (Gv 3,13). Era stata necessaria la discesa dal cielo perché il Figlio dell’uomo potesse aprire alla terra i tesori del cielo. La comunicazione, all’umanità, della vita celeste aveva bisogno del mistero dell’Incarnazione per compiersi.
Questo significa che ci voleva un uomo terreno, ma nato dall’alto, come fonte e principio della nuova umanità. L’uomo ideale del futuro doveva realizzarsi in colui che era il Figlio eterno del Padre, che viveva in cielo, ma era disceso, essendo stato mandato sulla terra. In lui esiste la perfezione celeste dell’essere umano, che viene nel mondo per arricchire ed elevare al livello supremo l’esistenza terrena. Discendendo dal cielo, egli introduce questo cielo nell’oscurità e nella povertà della terra. Lascia lo splendore celeste per assumere una vita molto più modesta, ma con lo scopo di dare all’esistenza comune degli uomini il massimo valore.
La venuta del Figlio dell’uomo ha superato ogni speranza messianica. Il Vangelo di Giovanni fa capire che non era così facile riconoscere in Gesù il vero Messia. Natanaele aveva detto: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46); Gesù risponde non polemizzando ma tessendo l’elogio di Natanaele: «Ecco un vero Israelita in cui non c’è falsità». Con sorpresa, Natanaele domanda: «Come mi conosci?». Si tratta di una conoscenza che viene dall’alto: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico». La replica è un atto di fede: «Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele» (Gv 1,48-49). Chiamandolo «Figlio di Dio», Natanaele riconosce in Gesù il Figlio unigenito del Padre. È la fede che sarà professata dagli apostoli. Nell’apostolo che aveva dichiarato che da Nazaret non poteva venire niente di buono, l’affermazione audace di fede è ancora più sorprendente.
Gesù annuncia pure che questa fede è chiamata a crescere, perché il discepolo farà l’esperienza di cose più impressionanti: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico, credi? Vedrai cose maggiori di queste!» (Gv 1,50). Gesù non si presenta soltanto come colui che prima dell’incontro ha una conoscenza straordinaria di quelli che sono chiamati a seguirlo, ma come una personalità che viene dall’alto. Non appare come un prodotto del piccolo paese di Nazaret; la sua persona ha la propria origine nel cielo. Tutto il programma della rivelazione evangelica tende a tal fine: «In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo» (Gv 1,51). La parola «vedrete» mostra che la rivelazione non è rivolta soltanto a Natanaele, ma interessa tutti quelli che desiderano conoscere la verità.
L’intenzione di porre l’accento su una nuova rivelazione è chiara: «In verità, in verità vi dico». «In verità» traduce «amen», parola che attira l’attenzione sulla veracità di un discorso. «Io vi dico» esprime l’autorità di colui che parla, autorità di un io personale che vuole assumere la responsabilità di ciò che viene detto. Possiamo ricordare che il riferimento all’autorità personale era una proprietà caratteristica dei discorsi di Gesù: gli uditori si meravigliavano che Gesù non parlasse come gli scribi, che si appoggiavano sull’autorità di quelli che li avevano preceduti per fondare le opinioni (cfr Mt 7,28-29); parlava come uno che possiede autorità propria. Quella rivendicata con le parole «io vi dico» era l’autorità divina, quella che fonda la stessa legge; nel modo di parlare, Gesù rivelava dunque la propria identità divina. Esponendo la verità, egli rivelava prima di tutto la sua persona. Quando ha detto: «Io sono la verità» (Gv 14,6), ha enunciato il principio che dava valore al suo insegnamento.
Nel testo citato, egli attribuisce un nuovo significato alla visione di Giacobbe, riferita nella Genesi (cfr Gn 28,10-17), significato ormai concentrato sulla propria persona. Giacobbe aveva visto una scala che poggiava sulla terra, mentre la cima raggiungeva il cielo; su questa scala salivano e scendevano gli angeli di Dio. Nella prospettiva evangelica, gli angeli salgono e scendono sopra il Figlio dell’uomo. È dunque il Figlio dell’uomo che tiene il posto della scala per unire la terra al cielo. L’identificazione è appropriata, perché il Figlio dell’uomo, essendo non solo uomo ma personaggio divino, unisce nella sua persona tutto il cielo e tutta la terra. I testimoni della vita terrena di Cristo vedranno le manifestazioni della divinità in una esistenza umana.
La presenza degli angeli che salgono e scendono conferma la partecipazione di tutto il cielo alla venuta di Cristo nel mondo. Il mistero dell’Incarnazione ha come primo significato che il Figlio diventa uomo, assumendo una carne umana simile alla nostra. Ma comporta anche un impegno del mondo angelico, che vuole servire il Figlio fatto carne con un omaggio spirituale. È significativo che nel racconto evangelico della nascita di Gesù venga riportata la presenza di numerosi angeli, che rivolgono a Dio un cantico di lode. Essi testimoniano che tutto il cielo è in festa per il grande evento. Altri episodi evangelici mostreranno ancora la partecipazione degli angeli all’itinerario di Cristo sulla terra, in alcuni momenti più importanti come la Passione, la Risurrezione, l’Ascensione. Gesù stesso ha voluto esprimere il legame particolare che aveva con gli angeli, affermando la loro presenza con il Figlio dell’uomo nell’atto sovrano del giudizio.
Il potere di giudicare è stato sempre riconosciuto come potere della sovranità divina. Ma, secondo un’affermazione di Giovanni, questo potere è stato dato dal Padre al Figlio, «perché è Figlio dell’uomo» (Gv 5,27). È dunque il Figlio che ha il compito di giudicare l’umanità. Il motivo di questa decisione del Padre è che il Figlio è Figlio d’uomo. Il Padre cioè ha voluto che siamo giudicati da qualcuno che non è solo Dio ma anche uomo: un uomo che ha conosciuto per esperienza personale le difficoltà, le prove, le tentazioni dell’esistenza umana. Essere giudicati dal Figlio dell’uomo comporta dunque una garanzia di maggiore benevolenza.
Questa garanzia corrisponde all’intenzione primaria del Padre: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17). Secondo la Prima Lettera di Giovanni, il Padre stesso aveva voluto per tutti noi questo Figlio come difensore (cfr 1 Gv 2,1): quelli che commettono un peccato possono ricorrere a Gesù Cristo, il Giusto, come Avvocato presso il Padre. Questa posizione di difensore è già molto significativa, perché ci promette un massimo di protezione. Eppure è rafforzata dal ruolo di giudice affidato più specificamente a Cristo. Così, per esempio, l’implorazione pronunciata sulla croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 22,34) testimonia del ruolo di difensore in favore dei nemici responsabili del supplizio del Calvario, e del giudizio benevolo da parte del Crocifisso su quelli che avevano contribuito alla condanna. Come pensare che questa ultima preghiera non sia stata esaudita e che il giudizio emesso da Gesù non sia stato approvato e ripreso dalla bontà del Padre? Alcune raffigurazioni dell’ultimo Giudizio non hanno preso abbastanza in considerazione il ruolo essenziale di Cristo come Salvatore e come Giudice misericordioso e indulgente. Il personaggio del «Figlio dell’uomo» si è pure rivelato pieno di misericordia.
«Vedrete il cielo aperto…». Venendo sulla terra, il Figlio dell’uomo ha aperto il cielo e assicura la comunicazione delle cose celesti alla terra. Per la generazione che viveva al tempo di Gesù e che ha potuto ricevere questo annuncio, il cielo aperto ha significato un’abbondanza unica di guarigioni, una moltitudine di miracoli che hanno cambiato il modo di vivere di tanti ammalati e infermi. Per tutte le generazioni successive, il cielo aperto continua a significare l’abbondanza di doni spirituali diffusi dallo Spirito Santo nei cuori. Con l’effusione della grazia, è il cielo che entra nell’ambiente terreno per trasformarlo nell’immagine di Cristo stesso.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Il Figlio dell’uomo
Secondo il linguaggio figurativo usato da Gesù, il Figlio dell’uomo è il personaggio misterioso che unisce cielo e terra. In se stesso, il vocabolo significa «l’uomo», ma l’oracolo profetico di Daniele gli ha dato un valore particolare. L’oracolo presenta un personaggio che assomiglia a un figlio d’uomo e che viene sulle nubi del cielo: è un personaggio divino con un’apparenza umana (Dn 7,13-14). Già prima, in Ezechiele, una visione aveva rappresentato Dio sotto l’aspetto di una «figura dalle sembianze umane» (Ez 1,28). Questo modo di rappresentare Dio si fondava sul fatto che, essendo stato creato a immagine di Dio, l’uomo era la creatura più degna di essere la «figura» di Dio. Nella visione di Daniele, quello che appariva «come figlio d’uomo» sembrava essere figlio di Dio; questa identità misteriosa era confermata dai poteri che gli erano concessi: dall’«Antico dei giorni», cioè da Dio, riceve potere, gloria e regno, come un figlio riceve l’eredità paterna.
Dopo Daniele, il Libro delle parabole di Enoc, — uno scritto giudaico ma non biblico, che sembra essere del primo secolo avanti Cristo —, accentua la trascendenza del personaggio che non viene più chiamato «come figlio d’uomo», ma semplicemente «il Figlio dell’uomo». Egli è riconosciuto come preesistente alla creazione e partecipa alla supremazia dell’Antico dei giorni sul mondo. Compie un ruolo di Salvatore, di Rivelatore dei misteri, di Giudice sovrano. È chiamato «luce dei popoli» e venerato nell’universo: tutti spereranno in lui e lo pregheranno; tutti l’adoreranno. La vita futura sarà trascorsa in compagnia del Figlio dell’uomo.
Queste proprietà attribuite al Figlio dell’uomo nel libro di Enoc fanno pensare al Vangelo; dobbiamo pure riconoscere la differenza: non troviamo un’affermazione dell’Incarnazione né l’idea del sacrificio redentore. La differenza è importante, ma non impedisce l’ammirazione che suscita in noi l’esposizione di una dottrina che ha concepito un Salvatore universale molto vicino a Cristo. Precisamente, è il vocabolo «Figlio dell’uomo» che Gesù ha scelto per designare se stesso. Egli voleva porre l’accento sulla realtà integrale della sua umanità, ma senza trascurare la sua identità divina, che dava alla sua natura umana il più alto valore. Riferendosi all’oracolo di Daniele, quando alludeva alla venuta del Figlio dell’uomo sulle nubi, teneva presente l’identità divina del Figlio dell’uomo, che non toglieva niente alle sue qualità umane. Infatti, ogni volta che chiama se stesso Figlio dell’uomo per rivendicare un potere divino, mostra nello stesso tempo che esercita questo potere in qualità di uomo.
Così, quando ha perdonato i peccati al paralitico che gli è stato presentato su una barella e vuole rispondere ai pensieri ostili di alcuni scribi, opera la guarigione dicendo: «Perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra» (Mc 2,10). È sulla terra che esercita questo potere di perdonare, dunque come uomo che vive tra gli uomini. Per sé, è un potere divino, ma il Figlio dell’uomo lo esercita in un modo umano, con i segni della benevolenza umana nel perdono.
Lo stesso genere di benevolenza si manifesta nella sovranità rivendicata sul sabato. Ai rimproveri provenienti dai farisei per le spighe colte il giorno di sabato, Gesù risponde citando alcuni testi della Sacra Scrittura che permettono questo gesto; poi enuncia il fondamento della libertà che giustifica i discepoli: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato. Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato» (Mc 2,27-28). In quanto Dio, Gesù è certamente signore del sabato, ma lo è anche in quanto uomo, perché il sabato è fatto per l’uomo.
L’uomo integrale doveva anche essere rinnovato in Gesù in vista dell’istituzione dell’Eucaristia. Per un dono pieno di amore all’umanità, Cristo era destinato a darsi in cibo e bevanda. Doveva possedere un vero corpo e un vero sangue. Per il banchetto eucaristico, carne e sangue del Figlio dell’uomo dovevano essere nel loro stato spirituale di glorificazione, ma erano autenticamente carne e sangue umano. Inoltre, è come uomo che il Figlio del Padre si avvicina agli uomini e condivide i loro sentimenti, le loro prove e le loro gioie. Egli ha affermato la dimensione universale del suo cuore quando ha dichiarato: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Al cieco nato, che ha guarito, fa scoprire l’uomo che non aveva potuto conoscere prima quando era cieco. Quando gli occhi di questo cieco si aprono, scoprono un uomo pieno di compassione, desideroso di dare la guarigione. E in quest’uomo scoprono Dio. Gesù chiede: «Tu credi nel Figlio dell’uomo?». La risposta è quella di un’anima pienamente disponibile: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?»; Gesù dice: «Lo hai visto: è colui che parla con te». La risposta è quella della fede e dell’adorazione; il cieco guarito dice: «“Credo, Signore!”. E si prostrò dinanzi a lui» (Gv 9,38). Il Figlio dell’uomo è l’uomo nel quale si rivela Dio, ma è anche l’uomo nel quale si manifesta tutto ciò che è pienamente umano, secondo la perfezione assoluta dell’uomo nel piano divino.
Infine, la rivelazione del divino nell’umano raggiunge il suo estremo sviluppo nella missione assunta dal Figlio dell’uomo e totalmente compiuta nel sacrificio: dicendo che il Figlio dell’uomo è venuto per «servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45; Mt 20,28), egli fa capire che il dono della propria vita è il servizio più alto reso all’umanità e ottiene per questa umanità tutti i beni della salvezza.
Un volto nuovo
Nicodemo avvertiva il bisogno di entrare in una nuova vita. Ma non sapeva come rinascere, anzi giudicava impossibile una rinascita. L’impossibilità sarebbe stata definitiva se Dio non fosse intervenuto. Il Padre ha voluto far rinascere gli uomini perché diventino suoi figli nel suo Figlio Cristo. Il primo che doveva impegnarsi nella rinascita era il Figlio: in lui doveva essere rinnovato tutto l’uomo, con un nuovo volto. In lui doveva formarsi un modello perfetto di uomo che avrebbe aperto la vita allo sviluppo di una nuova umanità.
Questo modello perfetto ha cominciato a rivelarsi nel volto biblico del Figlio dell’uomo. Lunga è stata la preparazione alla venuta del Figlio dell’uomo in mezzo al suo popolo. Ma quando è venuto, ha colmato perfettamente la speranza di quelli che aspiravano a una rinascita completa, a una vita che superava di molto la condizione dell’esistenza umana. Cristo scendeva dal cielo, ma sotto la forma di una nascita che inaugurava un nuovo modo di essere uomo.